UN'ANALISI "IRRITUALE" DEL VOTO AL NORD

Questa è l'ultima della serie di comunicazioni che hanno accompagnato la mia esperienza nel Consiglio
Regionale della Lombardia. Per cinque anni ogni quindici giorni - e a volte
secondo periodicità anche più serrate - ho cercato di informare sulle
questioni al centro del dibattito dell'Assemblea e dell'iniziativa politica
della maggiore regione italiana. Non so quanto ci sia riuscito e quanto sia
stato utile: per me è stato un modo per sentire il mio impegno meno
isolato in una fase così pregiudicata del rapporto tra politica e
società, tra delegati e deleganti. Provare a comunicare senza la
mediazione dei quotidiani e delle televisioni, spesso distratti rispetto ai
problemi delle persone in carne ed ossa e affascinati dalle contese
virtuali a cui gli elettori fanno solo da spettatori, è stato uno sforzo
ripagato da mail interattive e da richieste di presenza diretta nei
territori e nei conflitti aperti. Uno sforzo almeno per me utilissimo per
verificare con il minor distacco possibile l'efficacia della rappresentanza
affidatami. Adesso mi sembra una necessità ritmare con tempi meno
pressanti la mia partecipazione alla vita sociale e ascoltare con più
tempo a disposizione tutto quanto ho la fortuna di poter apprezzare. V i
chiedo scusa se a volte questo "contatto" vi ha portato disturbo e sarei
lieto se avesse contribuito un po' a far circolare e condividere "qualcosa
di sinistra". Aggiungo a questo saluto una nota sulle ultime elezioni che
verrà pubblicata nel prossimo numero di Critica Marxista. Senz'altro
continueremo ad incontrarci laddove un'etica condivisa, gli affetti e un
comune sentire ci portano a sentirci solidali e orgogliosamente di parte.
Un
abbraccio.    _Mario_   

UN'ANALISI "IRRITUALE" DEL VOTO AL NORD

PREMESSA

Non c'è dubbio che il voto per le regionali è stato anche l'occasione
per dare un giudizio su due anni di governo della destra. Del resto è
Berlusconi ad avere chiesto un voto per dare lo stesso colore del Governo
nazionale anche alle Regioni.

L'esito delle elezioni è che le destre, oggi, governano la maggioranza
delle regioni, con più dei 2/3 della popolazione.

Oltre al PD, il maggior responsabile della sconfitta, esce a pezzi anche
la Sinistra, in tutte le sue articolazioni, da quella riformista a quella
antagonista. A parte il caso della Puglia, infatti, SEL, Verdi e PSI non
recuperano in voti assoluti il consenso di Sinistra e Libertà nelle
Europee del 2009. La Federazione della Sinistra non decolla: è una
Rifondazione più piccola, come il PSI è uno SDI in formato ridotto.
Sembra un'onda lunga senza rimedio: infatti preoccupante e significativa è
stata la mancanza di reazione alla sconfitta nei ballottaggi successivi al
primo turno delle comunali. Sarebbe stato normale uno scatto di orgoglio e
un desiderio di rivincita: le astensioni sono, al contrario, ulteriormente
aumentate.

Le destre sono al governo in territori che producono quasi i 2/3 del PIL
nazionale. Solo nel Nord, che nelle statistiche economiche nazionali
comprende l'Emilia Romagna, si produce oltre il 54% del PIL, e più del 70%
nelle regioni governate dalla destra. L'affermazione della Lega in Veneto e
Piemonte e il suo contributo decisivo per la vittoria in Lombardia creano,
per la prima volta, le condizioni - grazie al federalismo fiscale e
all'art.117 penultimo. comma Cost. - di una _separazione, funzionale prima
e politico-istituzionale poi_, _dell'Italia settentrionale._
E' da qui che vorrei partire per un esame irrituale del voto che, a parte
qualche decisa reazione di Vendola e qualche perentoria e intelligente
osservazione di Fini, tutti danno per scontato come il suggello al vento
del Nord che arriva a Roma sotto la spinta poderosa e consapevole di una
popolazione insofferente all'unità del Paese, nemmeno sfiorata dal declino
e dalla crisi e affascinata dalla "politica del fare". E' davvero questo
Nord - e questa Lombardia di cui mi occuperò più in dettaglio -
presidiato dall'"unico partito rimasto" (la Lega) e attivamente e
partecipatamente proteso ad una visione del futuro di totale
autosufficienza, esclusione dei più deboli e involuzione xenofoba e
culturale? I media ne sembrano convinti, se danno spazio solo ai Cota, agli
Zaia, fino ai Salvini che passano una sola serata della loro vita in una
fabbrica occupata, ai Renzo Bossi che auspicano un CONI federale per avere
più campi da tennis di qua del Po e alla muscolarità scipita del sindaco
di Adro che toglie la mensa scolastica agli immigrati. La verità è che la
destra, che volentieri consegna alla Lega l'egemonia politica e culturale
in una prospettiva illusoria e semplificata di crescita fondata
sul restringimento del campo dei diritti ai soli residenti e sul mantenimento
delle risorse fiscali sul territorio, non è contrastata né da un
centrosinistra, capace solo di rincorse subalterne, né da una sinistra,
vissuta come la fabbrica di velleitari proclami antagonisti. Siamo al
paradosso di elettori di destra che in valore assoluto continuano a
diminuire, ma che in valore relativo - data l'entità delle crescenti
astensioni - spadroneggiano in un campo di voti validi deprimente per
qualunque democrazia. E io penso che proprio al Nord, da dove si alza
addirittura la pretesa di cambiare le basi costituzionali della Repubblica,
si debba prendere in considerazione innanzitutto _l'abulia con cui si
guarda agli appuntamenti elettorali,_ utili certamente per gli affari e le
clientele che le amministrazioni garantiscono - basta analizzare la
qualità della gran parte degli eletti nei vari collegi - ma non certo per
delegare assemblee che imbocchino significativamente la via d'uscita
alla più profonda crisi epocale che la mia generazione e quelle più giovani
abbiano vissuto. Val la pena di considerare la mobilitazione di questi
giorni per la raccolta di firme per i referendum per l'acqua pubblica e
confrontarla con l'indifferenza per la campagna elettorale delle regionali
di un mese fa. C'è una evidente e crescente rinuncia degli elettori, su
cui la Lega può vantare un plus di fedeltà che alla fine viene spacciato
per un plebiscito nei suoi confronti e per un premio al suo radicamento nel
territorio. Di questa indifferenza continuano a soffrire maggiormente la
Sinistra e il Centrosinistra, incapaci di produrre un'alternativa percepita
dai loro potenziali elettori come una necessità, ma che non assume mai le
sembianza di un programma politico. Sembra chiaro che è pura ipocrisia
parlare di disaffezione. Si tratta di qualcosa di più grave: una _volontà
punitiva_ verso i gruppi dirigenti di tutti i partiti presenti nel campo
che sta all'opposizione. In alcuni casi, per vero dire ancora minoritari,
ma tendenzialmente in crescita, la punizione si è anche tradotta in
trasmigrazione verso altri partiti o movimenti, dall'IdV ai "grilllini",
come pure in passaggi di campo, in primo luogo verso la Lega Nord.
Principalmente però lo scontento dei cittadini si è espresso finora nella
forma del non voto.
Se i cittadini preferiscono non votare, pur in presenza di un quadro
generale di grande incertezza e di un Paese malgovernato, significa che non
è alle viste una uscita credibile dalla crisi fatta di inclusione,
partecipazione, produzione e consumo non distruttivi, lavoro stabile e
redistribuzione legale del reddito.

L'ASSENTEISMO E LA TEORIA DEGLI ELETTORI-SPETTATORI

Alle elezioni "vinte" da Berlusconi con 1 voto ogni 7 aventi diritto, 3
cittadini su 7 non votano. Su 100 elettori, 39 non partecipano, 29 votano i
due partiti maggiori del "bipolarismo" (PdL e PD), 12 vanno ai partiti più
irriducibili negli schieramenti (Lega e IdV),
20 mettono la croce su una decina di formazioni minori.

Queste considerazioni dovrebbero imporre ai commentatori

l'abbandono delle categorie del bipartitismo o delle formazioni maggiori e spostare l'attenzione su _50 cittadini senza reale
rappresentanza nelle istituzioni!_ In Lombardia i numeri corrispondenti
sono ancora più impressionanti: 36 si astengono (64,6% di votanti al 2010
contro il 72,9% del 2005), 30 votano i due partiti "bipolaristi", 21 vanno
a Lega+IdV, 13 vanno sparsi. La _questione del Nord_ è racchiusa nello
spostamento verso il PdL dell'asse del rapporto interno ai 30 che votano i
partiti maggiori e nel peso aggiuntivo tutto dovuto alla Lega per
raggiungere il ragguardevole numero di 21 "antagonisti". In tutto, grosso
modo, _non più di 10 elettori su 100_ in media nelle regioni "creditrici",
(Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia), quelle cioè così ricche di per sé
da avere un gettito fiscale tanto elevato da contribuire ai servizi
essenziali nelle regioni
"debitrici". E' di questo modesto "sconvolgimento"
che si tratta quando si osserva e commenta la irresistibile discesa dei
"lumbard" dalle valli verso le pianure e le regioni rosse e quando le
riforme istituzionali e la crisi dell'unità d'Italia vengono immesse con
priorità assoluta nell'agenda politica. Possibile che questo eccesso di
"millanteria" sia stato colto immediatamente solo da Fini e non sia
diventato il terreno su cui Bersani, Vendola, Ferrero e Di Pietro
contrattaccano con grande nettezza, compattando il Centro e il Sud, ma
anche recuperando al Nord la rappresentanza di chi se ne è stato a casa?
Sta qui, in questi scarni numeri amplificati come ho sostenuto dalla non
partecipazione al voto e dalla dispersione a sinistra, perfino la presunta
legittimazione dell'_"occupazione delle banche"_ da parte di Bossi. Un'idea
che sembrerebbe legittimare una sorta di democrazia territoriale (chi vince
le elezioni comanda nei CdA delle banche del territorio, dove i cittadini ,
con
ogni evidenza, depositano i loro risparmi affinchè vengano protetti e
non indirizzati a sostegno delle politiche delle Giunte locali) e che
invece nasce da un disegno eversivo, che è quello di collegare strutture
economiche private di natura aziendale controllate dal pubblico e
sovrastrutture istituzionali, onde assicurare all'economia un equilibrio
autosufficiente e per collegare la struttura economica con la
sovrastruttura istituzionale del federalismo. 

Eppure, nonostante queste evidenti discrasie, tutto lo "_spettacolo" della
politica mediatica_ è incentrato sul "confronto-incontro" che riguarda 30
elettori su cento, con almeno 70, dislocati in diverso modo tra media
nazionale e Lombardia, su posizioni divaricate e non riconducibili alla
partita a cui sono invitati da spettatori ininfluenti o da tifosi di
riserve intemperanti (come l'abile e spregiudicato "Senatur") tenute in
panchina, ma pronte a sfondare se giocano secondo lo schema
dell'allenatore. Nemmeno i 30 con maglie
identificabili per diverso colore
hanno un qualche ruolo partecipativo: le designazioni dal centro e la
gabbia di ferro degli apparati circoscrivono la loro interazione con la
"politica".

Rispetto alle regionali di cinque anni fa la Lega sul territorio nazionale
ha avuto un incremento di 1.370.000 voti, l'IdV ha registrato + 1.227.000
consensi, mentre il PdL è diminuito di 1.069.000 e il PD di 2.004. 000.
Utilizzando come riferimento lo schema introdotto precedentemente, gli
astenuti sono aumentati di 3.000.000, la coppia Lega- IdV ha guadagnato
2.469.000 elettori, quella PdL-PD ne ha persi 3.538.000. In sostanza il
peso della Lega nel centrodestra è passato dal 16% al 31%, quello dell'IdV
nel centrosinistra dal 4% al 21%. Nelle tre regioni Lombardia Piemonte
Veneto la Lega, con un indice altissimo di fedeltà e pur perdendo 80.000
voti rispetto alle europee, raggiunge quota 2.292.000, uguagliando
praticamente il PdL a quota 2.384.000. 

Alla luce di questi numeri c'è da
chiedersi sulla base di quale consenso
possa assumere priorità la ridiscussione dei principi della Costituzione,
a partire da un patto Bossi-Berlusconi e da un possibile coinvolgimento di
Bersani e quale sia la ragione che possa portare un centrosinistra con una
storia formidabile alle spalle ad accettare l'agenda che viene imposta con
la sua potenza mediatica dal Cavaliere, finto prigioniero di Bossi fintanto
che ne ottiene la piena disponibilità sulla giustizia e sul
presidenzialismo. In quali numeri, democraticamente verificati, sta la
legittimità di sequestrare, nell'era di Obama, dello spappolamento
dell'Europa, dell'autonomia dell'America Latina e dell'inedito sviluppo
cinese, un dibattito e un impegno straordinario sulla più terrificante
crisi economico-sociale-ambientale del dopoguerra, con le pretese di
cambiare sostanzialmente i principi di uguaglianza (col federalismo) e di
democrazia (col presidenzialismo) affermati nella Costituente con un grado
di partecipazione
forse storicamente irripetibile e perciò vincolato a
criteri di revisione obbligatoriamente a maggioranza qualificata? Da dove
viene questa insopportabile _arrendevolezza del PD_ se non da una sua
irrimediabile crisi di identità che tutti noi dobbiamo contribuire
urgentemente a risolvere?

IL VOTO IN LOMBARDIA

Dentro la nostra democrazia malata, il primo dato evidente anche in
Lombardia è l'elevato astensionismo che determina una partecipazione al
voto del 64,6% rispetto al 72,9% della precedente elezione regionale. Il
secondo dato rilevante è l'ulteriore _affermazione di Formigoni (56,1 %) e
della Lega (26,2%)_. Formigoni riesce per la quarta volta consecutiva a
consolidare e a far crescere il consenso convinto degli "spettatori" ( v.
la procace amica di Berlusconi nel listino del sant'uomo) al modello di
società che esprime, con l'aggiunta sempre più determinante di uno
zoccolo identitario e fidelizzato, che si affida ciecamente al gruppo
dirigente della Lega (incredibile
e deprimente è il massimo di preferenze
a Brescia - oltre 10.000 - per il figlio di Bossi) . Un consenso che, per
dimensioni, coinvolge _tutte le componenti sociali,_ dal lavoratore alla
catena di montaggio fino all'artigiano e al piccolo imprenditore,
dall'insegnante al commerciante, dai precari ai dipendenti della grande
distribuzione, e depotenzia qualsiasi elemento di critica, anche quello
più organico e strutturato preoccupato della crisi e del futuro, come in
parte è stato quello prodotto dal gruppo di PRC e poi SEL in cinque anni
di legislatura e che è raccolto in due pubblicazioni di Unaltralombardia
("La corsa è finita" e ".)
E' importante sottolineare il dato della Lega che passa dal 15,8% al
26,2%, cioè in voti assoluti da 693.464 a 1.117.227 e da 11 a 18
consiglieri.
Alla verifica elettorale, occorre dirlo, non si è resa visibile nessuna
alternativa credibile al centrodestra. Questo dato non stupisce perché
negli ultimi cinque anni vi è stata una opposizione
incerta e divisa. La
maggiore formazione dello schieramento di centro sinistra, cioè il Pd, ha
anticipato in Regione _"la corsa da solo",_ ha gettato alle ortiche
l'Unione e si è interessata alla proprie dinamiche interne di partito,
inseguendo la destra sulla maggior parte delle questioni aperte
(federalismo, infrastrutture, leggi sul territorio, privatizzazione del
welfare). Un Pd che "tiene" sul piano percentuale, non troppo penalizzato
dall'astensionismo complessivo, ma che perde circa 200.000 voti assoluti
rispetto a cinque anni fa'(da 1.186.848 a 976.111). Al contrario, l'Italia
dei Valori incrementa fortemente i propri voti, più grazie all'esposizione
mediatica nazionale del suo leader che alla presenza territoriale. I
risultati evidenziano che l'IDV passa dall'1,4 % al 6,2% cioè da 61.431
voti a 267.954 e da 1 a 4 consiglieri. Va poi sottolineata l'inaspettata
performance del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo che raccoglie 144.588
voti in parte "sottratti" all'Idv, alle
sinistre e forse all'astensionismo.
Fa riflettere il fatto che un movimento di questa natura raccolga _più
consensi delle singole forze della Sinistra_ (Sinistra Ecologia Libertà e
Federazione della Sinistra). La Federazione della Sinistra (Rifondazione
Comunista e Comunisti Italiani), presentatasi con un proprio candidato
presidente, non raggiunge il quorum richiesto (3%) si ferma al 2,3% con
87.220 voti e resta fuori dal Consiglio Regionale . I 113.749 consensi ad
Agnoletto segnalano la consistenza di un _voto disgiunto _e di una
sofferenza per la divisione. Se confrontiamo i dati delle elezioni europee
di un anno fa di Sinistra Ecologia Libertà (SEL) registriamo, con l'uscita
da SEL dei Verdi e dei Socialisti e l'assenza della lista in quattro
province della Lombardia, quasi un dimezzamento dei voti, perché si passa
da 106.126 voti a 59.112, cioè dall' 1,9% all'1,4%. E se consideriamo che
nelle regionali del 2005 Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani
avevano raccolto 353.184 voti ci rendiamo conto di quale _disastro abbia
investito la sinistra_.
Per quanto riguarda poi ulteriormente SEL, i suoi risultati migliori sono
conseguiti nei capoluoghi e, tra le province, laddove è minore la distanza
tra Formigoni e Penati (al di sotto dei 30 punti percentuali).

Vale la pena di soffermarsi, scomponendoli territorialmente, sui consensi
alla Lega. Non c'è capoluogo di provincia (da Bergamo a Varese) che non
rimarchi una distanza di almeno 4 punti percentuali inferiore rispetto ai
risultati che le "camice verdi" ottengono fuori città o nelle valli.
Addirittura a Bergamo città la Lega arretra di 15 punti; a Sondrio di 11;
a Brescia di 9;a Como di 8; a Mantova di 7: segno evidente che, o
l'insediamento territoriale è, sorprendentemente, più forte nelle
campagne, oppure le questioni culturali e, come vedremo, la struttura
sociale e produttiva limitano l'attrattività di Bossi nei centri urbani,
come testimonia il dato di Milano e della sua provincia
costellata di centri popolosi (17% per i padani a fronte del 42% della Valtellina e delle
valli bresciane e bergamasche). In compenso, nei capoluoghi il PdLvede
aumentare i suoi voti, mentre il dato dell'IDV permane pressochè
inalterato sull'intero territorio regionale.

Per capire come sia ancora fluida una situazione a mio giudizio da non
dare per persa irreversibilmente, fornisco in forma provocatoria - oltre
all'esempio delle vittorie impreviste del centrosinistra a Lecco e a
Saronno con candidati decisamente distinguibili per appartenenza al mondo
del volontariato solidale - un dato assemblato non solo per pura
curiosità: a Milano città la somma IdV+SEL+Grillo+PRC+ Verdi+PSI
raggiunge una quota (16,8%) superiore a quella a cui si attesta la Lega(
14%)! Ma i voti della Lega sono in mano ai _Salvini, ad un partito
organizzato, ad un sistema mediatico _e alle avventure xenofobe che
scorazzano da via Padova ai campi nomadi, da sgombrare a richiesta popolare
con uno stillicidio giornaliero…

UNO SPUNTO: LA FABBRICA DIFFUSA E LA CITTA' POLICENTRICA

Se quantitativamente valgono le considerazioni riportate per quanto
riguarda l'entità non sconvolgente dello spostamento in valore assoluto
del voto verso le destre, altra cosa è la valutazione qualitativa della
presa della Lega nel mondo del lavoro e la indecifrabilità per la sinistra
della situazione urbana, in particolare per quanto riguarda Milano.

 Conosco la Lombardia dalla mappa delle sue fabbriche, avendola girata in
lungo e in largo per oltre venti anni, da segretario dei tessili prima e da
segretario della CGIL poi. Ricordo negli anni settanta e ottanta la precisa
dislocazione del voto a sinistra in riferimento al radicamento dei nostri
delegati, al legame con le sezioni del PCI, alla diffusione della
contrattazione aziendale. Così come ricordo il primo stupore nel 1992,
quando una nostra inchiesta sugli iscritti al sindacato rivelava che gli
operai delle piccole fabbriche, allora investiti per la prima volta
dall'azione negoziale nel settore artigiano, si battevano col sindacato, ma
stavano in politica con i padroncini della Lega. L'azione anche culturale
di CGIL-CISL-UIL contro la secessione e il corporativismo territoriale
culminerà con una straordinaria manifestazione a Milano e Venezia nel 1997
e farà sparire il sindacato leghista, ma non frenerà lo _sdoppiamento di
comportamento al voto del lavoro dipendente al Nord_. Addirittura, nel 2001
registreremo con una inchiesta della CGIL Lombardia un favore per il
centrodestra tra i pensionati lombardi ed una presa della Lega sugli operai
anche delle grandi fabbriche.

Ma la_" solitudine operaia"_ non era ancora così profonda come quella che
si constata oggi e la crisi tra politica e mondo del lavoro si riteneva
ancora reversibile. Risultati alla mano, a fine Marzo sono corso a
controllare e rivedere la "mia" mappa della Regione: una mappa stravolta
per tipologia di settori, per dimensioni manifatturiere, per
espansione delle aree dismesse (27 milioni di metri quadrati) rispetto a quindici anni
fa, ma tutt'altro che carente di occupazione operaia, densa di opere di
braccia immigrate, lacerata da vuoti industriali sostituiti da centri
commerciali a dismisura, a riprova di una ricchezza costruita sul debito,
sulla riduzione dei diritti per i non nativi, sull'abbandono della
manifattura e sullo svilimento del valore sociale del lavoro manuale.
Sovrapponendo ad essa la distribuzione del voto, ne ho tratto un'immagine
devastante per la sinistra: c'è una _correlazione precisa_ tra i pochi
nuclei operai rimasti o tra le concentrazioni di piccole fabbriche nel
territorio e la crescita della Lega, il declino del PD e la lenta
sparizione della sinistra.

Innanzitutto la crescita della Lega accompagna la redistribuzione delle
fabbriche e dei capannoni nel territorio, concentrandosi nelle cinture
delle città e nei distretti di nuova industrializzazione. Da Bergamo
città e la fabbrica diffusa tra Zingonia e Treviglio la Lega passa dal 22%
al 41%. Lo stesso avviene a Brescia (16 punti di differenzain meno tra
centro urbano e l'indotto meccanotessile e armiero) e, in misura minore a
Varese, solo perchè la città rimane una culla di dirigenti "padani".
Nelle province industriali, il PD sta tra il 19 e il 22%, senza
discontinuità significative da provincia a provincia e la somma di PRC e
SEL non supera il 3%. Invece, a Milano città e nella cintura del
terziario, dove ormai gli operai sono netta minoranza, la Lega precipita
sotto il 15%, mentre il PD supera il 26% e la sinistra raggiunge il 6%.
Nelle province agricole e a minor concentrazione manifatturiera (Mantova,
Lodi, Cremona, Pavia) il partito di Bossi si attesta attorno al 25%, mentre
PD, Sinistra e IDV ottengono, sommati, i loro risultati migliori.

Perché questo crollo, come se il messaggio del mondo del lavoro fosse da
mandare al livello più astrattamente simbolico? Provo a avanzare qualche
deduzione. Il sogno di un'Europa aperta, coesa socialmente, multiculturale,
appartiene alle generazioni che uscivano vittoriose dalle guerre di
Liberazione e a quelle che hanno sostenuto le riforme sociali dopo le
grandi lotte del '68. Erano fasi di espansione e di redistribuzione
sostenute da lotte e protagonismo operaio. Oggi la crisi trova una risposta
immediata nell'esclusione e la solitudine operaia abbandona a suo favore la
solidarietà del passato. Bisogna quindi riflettere con molto rigore sul
sostegno popolare effettivo all'illusione dell'esclusione per potersi
garantire, chiusi "in Padania", il prolungamento di una presunta ricchezza
fondata sul debito monetario e ambientale. Si tratta di un miraggio che,
occorre riconoscerlo, affascina anche le classi sociali più disagiate e la
maggioranza dello stesso mondo del lavoro.

_Milano_ è invece una anomalia nel panorama del Nord, che non si lascia
raccontare politicamente, perché il suo centro sta altrove, e la politica
vi svolge un ruolo secondario, anche se oggi la prospettiva di _Expo2015
_attrae una classe dirigente assai più dipendente dal potere delle
amministrazioni pubbliche di quanto non fosse in passato. Nella metropoli
è ancora forte una vocazione essenzialmente fondata sul primato della
società civile, sulla rete degli interessi e delle competenze, e su una
visione pragmatica, che ha una spiegazione nella stessa morfologia sociale
della città, nella sua struttura policentrica e differenziata, in cui
agisce una pluralità complessa di soggetti sociali e di centri di potere,
senza che emerga una forza dominante. Milano a inizio millennio cerca
ancora una sua via autonoma, senza farsi trascinare immediatamente nei
conflitti politici nazionali. Eppure a Milano una novità consistente sta
emergendo e sta nel fatto che lo storico scontro tra Comunione e
Liberazione e la Chiesa Martiniana mantiene ancora rilievo sul piano
ideologico più generale, ma perde di consistenza su quello amministrativo
e degli affari, in quanto la voracità della Compagnia delle Opere ha
consentito a Formigoni di entrare in relazione con tutta l'economia che
conta a Milano e che, al contrario di quella basata sul lavoro operaio in
manifattura e sulle famiglie dei capitani d'industria, è assai più
dipendente dalla speculazione immobiliare e dalla finanza che non sensibile
ai richiami di solidarietà della dottrina sociale della Curia Ambrosiana.

Anche a Milano, temo, potrebbe avanzare quel _blocco sociale per ora
instabile ma in formazione_, che però funziona nel resto della Lombardia e
che si manifesta in vari modi: con la carità al posto dei diritti e
l'arbitrarietà delle esclusioni favorita dall'uso privato delle risorse
pubbliche; la messa sul mercato dei beni comuni; l'occupazione degli
istituti di credito (attraverso le lottizzazioni delle fondazioni bancarie)
ai fini di una politica di discriminazione territoriale; il federalismo
come fine corsa dell'universalità del welfare; la priorità
dell'impresa sul lavoro; la spersonalizzazione dei migranti in una società che
invecchia e che non riqualifica l'impiego. Occorre rendersi conto che tutto
ciò prelude ad una riconferma del potere che ricorre all'interclassismo e
al populismo territoriale per opporsi alla redistribuzione del reddito e
per assicurare una difesa conservatrice e lobbista della ricchezza con il
trasferimento delle risorse pubbliche verso il privato. Si va creando così
a livello locale un blocco di interessi consolidati e immediati, che vanno
da subito combattuti sostenendo una alternativa altrettanto radicale e
organica, rivolta alla composizione degli interessi di lungo periodo di
tutti i soggetti da coinvolgere: lavoratori stabili e precari, imprenditori
piccoli e grandi, generazioni nuove e vecchie.

In Lombardia le prospettive di ascesa sociale si sono drasticamente
ridotte, anche per lo stato dell'istruzione pubblica a tutti i livelli,
Università compresa. Un impoverimento reale o percepito come
imminente colpisce anche, per la prima volta nel secondo dopoguerra, ampi settori
della _classe media_. Nelle città gran parte di questa classe media guarda
a sinistra, delusa dal Governo, che ha tutelato banche e grandi imprese. Ma
in Lombardia e a Milano in particolare il centrosinistra designa alle
cariche amministrative imprenditori, figure pubbliche "bipartisan" o uomini
di partito che preferiscono frequentare finanzieri e costruttori con il
contorno di editori, direttori e giornalisti: nell'illusione di essere
moderni e apprezzati, mentre sono semplicemente utilizzati dai protagonisti
delle trasformazioni immobiliari, dai liquidatori di patrimoni pubblici
(come nel caso della privatizzazione di Telecom e di e-biscom), dagli
svenditori delle municipalizzate, dai capitani delle scalate bancarie ed
editoriali.

Non ci si deve allora meravigliare se settori popolari consistenti,
lasciati a se stessi, vittime di beceri modelli televisivi, senza
prospettive di miglioramento o di riscatto e con un basso grado di
istruzione, sviluppano pulsioni xenofobe e securitarie: il diverso,
l'immigrato regolare o clandestino, viene percepito come la causa di tutti
i mali della società e tutti costoro diventano quindi capri espiatori
ideali per scaricare le frustrazioni e l'impotenza a governare il proprio
destino. In fondo, Borghezio a Torino e Salvini a Milano sono la spia di
una penetrazione xenofoba-leghista nell'ambiente urbano non coincidente con
il fenomeno descritto sopra per il mondo del lavoro e sono, per certi
versi, indice di una ancor più preoccupante afasia del centrosinistra che,
dopo aver dimenticato il lavoro, sembra, pur di governare, voler
abbracciare l'impresa a qualunque costo, anche nelle sue forme più
dequalificate.      

www.marioagostinelli.it