riflessioni sul dopo voto

Senza corpo e senz'anima
Messaggio per il congresso Ds: Asor Rosa, Napoletano, Trentin, Salvi
Congresso Ds Cesare Salvi rivolto alla sinistra del partito: "Chi vuole cambiare lo stato delle cose si muova con chi ci sta, senza aspettare che arrivi qualcun altro che non si sa nemmeno se ci sia" 

IDA DOMINIJANNI - ROMA

La sinistra ha perso l'anima, scrisse Eugenio Scalfari all'indomani della sconfitta alle elezioni regionali dell'anno passato, riferendosi alla perdita di vocazione ideale nei Ds. La sinistra ha perso il corpo, replicò Alberto Asor Rosa, riferendosi alla loro perdita di radicamento sociale. Poco più di un anno dopo, e dopo una sconfitta ben più grave, la metafora funziona al completo: "Non c'è un corpo e non c'è un'anima", esordisce Asor Rosa all'incontro organizzato dalla sinistra Ds di Roma e del Lazio nella Sala fredda - anche i nomi delle sale si adeguano ai tempi - della camera del lavoro di Roma.
E se i tempi sono freddi, i toni di Asor Rosa sono glaciali. Si sente che c'è dietro anche una delusione personale. "Lo sforzo di alcuni di noi di spersonalizzare il dibattito politico non trova accoglienza", continua. E del resto, fra le tre cause - i tre "punti deboli di una mentalità politica" - della sconfitta che proporrà alla discussione, una sta proprio nell'"iperpoliticismo strutturale" dei dirigenti del partito, tale che "qualsiasi tentativo di aprire uno scambio critico con loro è caduto nel vuoto; con la conseguenza di un restringimento autoreferenziale e personalistico del dibattito, cui non è rimasta estranea neanche la componente della sinistra". Ed ecco le altre due cause: primo, la perdita di rappresentanza sociale innescata a metà decennio dalla parola d'ordine della "rivoluzione liberale" e da quella - connessa - di una modernizzazione che individuava nel sindacato l'ostacolo numero uno; con la conseguenza di aver mancato la mappatura del mondo del lavoro necessaria per leggere i nuovi bisogni sociali. Secondo, "il rifiuto consapevole" di affrontare il problema dell'unità della sinistra, unito a una deriva liquidatoria e/o a una concezione proprietaria del partito; con la conseguenza di aver mancato l'invenzione di una nuova forma di partito.
Diagnosi gelida appunto ma realistica. Gelata, la sala (piena zeppa) tace perché acconsente, e si dimentica perfino di applaudire. Bruno Trentin non sarà da meno. Parte dalla domanda su come sia stato possibile che in 5 anni di governo e di iniziativa riformatrice - sull'euro, la scuola, l'assistenza, la pubblica amministrazione, il mercato del lavoro - non sia emerso un progetto di società - che invece negli esordi di Berlusconi già si vede delinearsi - e si risponde che la ragione principale sta nella subalternità culturale della sinistra di governo. Perché ha prevalso l'ideologia della modernizzazione, parola "che di per sé non significa nulla", se non è accompagnata dall'individuazione delle contraddizioni che l'accompagnano e dalla consapevolezza che "il futuro non sta scritto nel Vangelo, ogni stagione di trasformazione è aperta a esiti diversi". Perché "è mancato un punto di vista, il punto di vista del lavoro", e trattandosi di Trentin si sa che non è certo un'ottica conservatrice o difensiva o antimoderna che ha in testa, avendo dedicato all'analisi delle trasformazioni del lavoro postfordista svariati anni e con largo anticipo sui modernizzatori dell'ultima ora.
In proposito infatti ha anche lui i suoi sassolini da togliersi dalle scarpe: invece di vedere come il lavoro cambiava, nel partito ci si è messi a parlare di fine del lavoro, intendendola per giunta come fine del progetto di trasformazione sociale. Si è scoperta la flessibilità con dieci anni di ritardo, e non s'è trovato altro da dire se non che "flessibile è bello" scivolando così nell'elogio della precarietà. Bisognava fare un grande progetto non di difesa corporativa, ma di riforma alternativa del welfare, e non s'è fatto. A Lisbona la sinistra europea discuteva di società della conoscenza, e la sinistra di governo italiana "s'è presentata chiedendo sgravi fiscali per le imprese nel Sud". S'è fatto finta di dire che l'investimento nella formazione permanente e nella ricerca è fondamentale, ma ci si è dimenticati di prendere atto che è incompatibile con la riduzione delle tasse "a fini di consenso". Infine ma non ultimo: s'è fatta la guerra in Kosovo, "e personalmente io non condanno quella scelta, ma è stata una follia averla fatta senza aprire una discussione nel paese, giorno e notte". Conclusione: "mi auguro un congresso con uno scontro politico vero, non fra partitisti e ulivisti ma sui contenuti di un progetto".
Senonché poco prima Pasqualina Napoletano aveva già buttato l'acqua della disillusione sul fuoco delle aspettative congressuali. Subito dopo le elezioni sembrava che potesse davvero avviarsi una discussione di fondo nel partito, "invece il cerchio sembra già chiudersi", dice Napoletano, che oltretutto fa parte membro del comitato dei reggenti in carica. E ricomincia la stanca e falsa querelle fra innovazione e conservazione, mentre i partiti del tanto evocato socialismo europeo si inventano politiche sociali nuove in risposta al mutamento che travolge i loro ceti di riferimento. "Noi invece, lasciamo la critica della globalizzazione al Papa". Quanto alla sinistra interna, componente alla quale lei stessa appartiene, Napoletano le rivolge il caldo invito a trovare una pratica politica conseguente agli enunciati.
Più crudemente alla sinistra si rivolgerà in chiusura Cesare Salvi: "Se affidiamo il congresso alla maggioranza di Torino non arriveremo da nessuna parte. Dobbiamo discutere a fondo, e chi ritiene che ci voglia un cambiamento affronti questo tema, senza aspettare che arrivi qualcun altro, che non si sa se arriverà". Salvi non fa nomi, ma si intravede neanche tanto fra le righe quello di Cofferati, o anche di Bassolino - si sa che sui loro interventi si appuntano molte aspettative della sinistra diessina per la direzione di lunedì prossimo. Quanto al passato, Salvi picchia duro quanto gli altri: sulla politica delle alleanze che non s'è fatta e non si dice perché non s'è fatta, sulle interlocuzioni sbagliate cercate in una confindustria che con D'Amato si era già schierata dalla parte del Cavaliere, sul riformismo invocato a parole ma non sostenuto, quand'era buono, nei fatti ("Berlinguer e Bindi li abbiamo tolti dal governo"), sulla tesi per cui l'Italia sarebbe tutta di destra usata come alibi per non ricostruire un blocco sociale di sinistra. "Adesso, questi sono i fatti, siamo al minimo europeo con la Bulgaria".