Adele Delponte

Luoghi della Memoria
Una vita di lavoro e di impegno sociale

(a cura di Luciano Guardigli)


... Di quei primi giorni di settembre, ricordo come l’8, tra la sorpresa della nazione, il generale Badoglio annuncia, a nome del re, l’armistizio con gli alleati anglo-americani. Nei giorni immediatamente seguenti, arriva la notizia della fuga del re Vittorio Emanuele III e del suo governo. Se ne vanno e lasciano gli italiani in balia dei tedeschi che, da alleati, diventano ora invasori e nemici spietati. Vicino al quartiere di Niguarda vi erano le casermette dell’esercito. Ci sono ancora oggi, ma grazie a Dio, nel dopoguerra sono state trasformate in padiglioni universitari. 
Qui si trovavano i giovani soldati di leva e quelli tornati dai vari fronti di guerra che avevano compreso, dallo sviluppo degli eventi attorno e dal disorientamento dei tedeschi, vicino a trasformarsi in ferocia e voglia di vendetta, quale sarebbe stata la loro sorte, se non fossero fuggiti per nascondersi. La deportazione nei campi di lavoro e di sterminio in Germania, oppure l’arruolamento forzato con i pochi fascisti rimasti che avevano cambiato giacca ma non camicia, erano diventati repubblicani e si erano di nuovo presentati sulla scena politica come alleati dei nazisti, ma quel tipo di alleato subalterno che è piuttosto un esecutore. Nel giro di pochissimi giorni, dunque, questi giovani che venivano da tutte le regioni d’Italia, anch’essi sconvolti dall’armistizio, lasciarono le casermette e cominciarono a vagare disperatamente per le vie del quartiere in cerca di qualcuno che offrendo loro indumenti civili li liberasse dalla loro divisa militare, divisa che li avrebbe immediatamente fatti riconoscere dai tedeschi come Cercavano un rifugio dove nascondersi o un mezzo di trasporto qualsiasi per potere tornare alle loro case lontane, ma intanto anche solo un po’ di cibo quotidiano per potere sopravvivere. Così nacque nel giro di poche ore, estendendosi poi per qualche giorno, una gara di solidarietà tra la gente del quartiere. 
Povera gente che già soffriva la fame per proprio conto, che qualche volta aveva avuto morti sui campi di battaglia o durante i terribili bombardamenti di solo un mese prima, l’agosto del 1943. Abiti, scarpe, vecchie biciclette, carrette trainate da cavalli che portavano balle di paglia e stracci sotto cui potersi nascondere e che potevano almeno fare iniziare, portando quei poveri ragazzi lontano dall’abitato, il viaggio di ritorno verso le loro case, furono trovati in un batter d’occhio. Ricordo ancora qualche faccia, qualche espressione di quei nostri improvvisi fratelli e figli disperati. Voglio aggiungere solo un’osservazione per aiutare soprattutto i giovani a guardare dentro la propaganda di qualsiasi regime: questi giovani che fuggivano sbarazzandosi di tutto ciò che aveva un’apparenza di militare, erano gli stessi sostenitori che il fascismo credeva di avere in pugno per realizzare le sue dissennate ambizioni imperiali. 
Ragazzi che erano diventati uomini rischiando talvolta la morte e uccidendo sui campi di battaglia, dove avevano capito il terribile inganno in cui erano caduti. Per questo qualcuno di loro fuggì dalla caserma portando via anche le armi, consapevole che se fossero cadute in mano ai tedeschi sarebbero servite a tener vivo l’inutile e terribile massacro. Compaiono i partigiani della libertà Il problema, tuttavia, era dove nascondere in luoghi sicuri queste armi: io abitavo in una casetta con un cortile e un portico sotto il quale si trovava una buca ricoperta che serviva da legnaia e da carbonaia per le stufe che scaldavano i nostri inverni. Questa buca fu riempita, senza che quasi ce ne accorgessimo, da fucili e pistole. Le armi rimasero alcuni giorni nascoste sotto sacchi pesanti. Intanto, sui muri esterni della mia e delle altre case apparvero i primi truculenti manifesti tedeschi: “Achtung!!! Tutti coloro che verranno trovati in possesso di armi non denunciate, verranno immediatamente passati per le armi. Il comando tedesco”. 
Dopo qualche giorno, era già discesa la notte e c’era il coprifuoco, qualcuno venne a prelevare quelle armi. Non erano fascisti o tedeschi, ma uomini, alcuni giovani, altri un po’ più maturi che a rischio della vita le avrebbero portate in montagna. Nel giro di una settimana, nacque così, nel più ampio ambito della Resistenza, la lotta partigiana. Molti cittadini del quartiere erano al corrente di quanto era successo, ma nessuno di loro, pur sapendo di correre un grave rischio, fece denuncia: persino i carabinieri della vicina stazione, con in testa il loro maresciallo, finsero di non saperne nulla. Così Niguarda diventa uno dei quartieri più attivi della resistenza antifascista. I gruppi clandestini più efficienti e organizzati si trovavano nelle case della Cooperativa Operaia di Via Hermada e tra le maestranze della fabbrica Sant’Agostino. In entrambi esisteva un forte nucleo di donne organizzate nei “Gruppi di difesa delle donne”. Ben presto cominciò a diffondersi la stampa clandestina e le donne erano tra i maggiori diffusori. La lotta di Liberazione durò per diciannove mesi e vi partecipò la gran parte della popolazione. Continuarono i bombardamenti. Il poco cibo in circolazione trovava le vie del mercato nero. Si soffrire la fame e il freddo, che attanagliava soprattutto quelli che avevano perso la casa per i bombardamenti. Continuava e si appesantiva per la rabbia della sconfitta la ferocia delle rappresaglie fasciste e tedesche che gettavano nel terrore e nella disperazione la gente. 


Due episodi d’orrore nazifascista
Ricordo ancora con commozione due episodi dolorosissimi e tristi che dopo tanti anni di democrazia sembrano incredibili e che perciò voglio raccontare soprattutto ai giovani, per ricordare loro che nessuna conquista dura se non si è pronti a difenderla ogni giorno, in ogni atto. I due episodi riguardano i patrioti fucilati al campo Forlanini e in piazzale Loreto e le loro madri. Nelle case vicine alla mia abitazione vi erano dei giovani che militavano clandestinamente nei GAP (Gruppi di Azione Patriottica). Tra di loro ricordo, in particolare, un ragazzo non ancora diciassettenne, Dino Giani, e un giovane che era stato soldato dell’ARMIR e che aveva vissuto la terribile ritirata di Russia dell’inverno 1943, Mario De Rosa. Era tornato perché aveva subito l’amputazione di un piede che si era irrimediabilmente congelato. In seguito a una delazione furono scoperti e arrestati. Era una notte di primavera del 1944: nel silenzio assoluto e nelle tenebre del coprifuoco, arrivarono rombando alcune terribili motosidecar tedesche e un’automobile dalla quale scesero delle persone in borghese, probabilmente agenti della polizia fascista.
Mentre nascosti dietro le persiane chiuse io e i miei genitori osservavamo terrorizzati la scena per capire che cosa stava succedendo, si alzarono improvvisamente, nel silenzio assoluto, le grida di una donna: “Dino, Dino, scappa! ti portano a morire!”, seguite da un pianto disperato. Era la madre di Dino Giani. Con Giani e De Rosa, portati a San Vittore, torturati e poi fucilati al Forlanini, c’era anche un altro giovane, Luigi Vertemati, fucilato in piazzale Loreto con altri quattordici resistenti. I quindici partigiani furono fucilati all’alba di una terribile mattina, il 10 agosto 1944 e i loro corpi furono ammucchiati sul lato sinistro di piazzale Loreto. A quei tempi, da piazzale Loreto passavano i tram bianchi che scendevano, stracolmi di viaggiatori, dai paesi della Brianza. Forse non si chiamavano ancora pendolari, ma erano studenti e lavoratori che venivano a Milano il mattino e tornavano, con lo stesso trenino, la sera. In città le scuole e anche qualche fabbrica erano ancora aperte, nonostante i bombardamenti che avevano fatto sfollare molte aziende, grandi e piccole. I tram furono fermati dalle Brigate Nere e i lavoratori furono costretti a scendere e a sfilare davanti a quel povero mucchio di cadaveri, guardati a vista dai fascisti armati fino ai denti, pronti ad arrestare qualsiasi persona che avesse tentato di protestare o che solo avesse osato compiere un atto di pietà. Ricordo di aver accompagnato, con altre donne, la madre e le sorelle di Vertemati chiamate alla dolorosa incombenza di identificare la salma del loro congiunto.
In quel povero mucchio d’uomini morti, coperti di grumi di sangue e da mosconi inferociti dalla gran calura, la ricerca del corpo del giovane Vertemati fu un’operazione orribile e straziante. Ricordo che per separare i corpi affastellati e abbracciati nella comune sorte, i militi repubblichini adoperarono i loro piedi calzati da orrendi stivali: a pedate e tra urla ingiuriose le salme del giovane furono mostrate, per l’identificazione, alle sorelle e alla madre. La povera donna, quando riconobbe il figlio, svenne.


Altri orrori della guerra: la scuola di Gorla
Dai primi mesi dell’autunno del 1944, quando gli alleati raggiunsero la “linea gotica”, come veniva pomposamente (e razzisticamente) chiamato il fronte che tagliava la penisola, più o meno tra Rimini e La Spezia, dove i tedeschi consumarono il loro ultimo tentativo di difesa contro l’avanzata degli alleati, la sconfitta dei nazifascisti era del tutto evidente. Eppure, nell’Italia del nord la guerra continuava con i suoi orrori e le sue tragedie. Proprio nell’ottobre del 1 944 avvenne il tragico episodio del bombardamento della scuola di Gorla, nel quale morirono sotto le macerie ben centottanta bambini. 
Questo doloroso episodio, che oggi definiremmo disinvoltamente “effetto collaterale” e che si accetta senza drammi solo quando a essere colpiti sono gli altri, rappresenta uno dei tanti tragici errori che sono insiti nella violenza cieca della guerra. Nazisti e fascisti tentarono di strumentalizzare l’episodio per creare disorientamento nel popolo e odio contro gli angloamericani, autori del bombardamento, e di conseguenza per i partigiani, ma buon senso e solidarietà presto prevalsero e si fece ancor più forte tra i cittadini più consapevoli il bisogno di resistenza e di libertà. Mancava poco alla fine della guerra e il suo esito era scontato, eppure la ferocia nazista cresceva alimentata dalla rabbia dell’imminente sconfitta. Erano giorni di rappresaglie vendicative, di arresti indiscriminati, di blocchi stradali che mettevano a ferro e fuoco interi quartieri. Fascisti e nazisti infierivano sui civili innocenti, ma la risposta della popolazione fu ferma e solidale. La partecipazione alla resistenza armata e la solidarietà attorno ai partigiani si intensificarono per porre fine il più rapidamente possibile all’orrore di quella situazione di guerra dentro la guerra. Ferocia, dentro e fuori. Oggi che il revisionismo storico cerca di nascondere la verità su quel periodo, sostenendo che pochi erano, da una parte e dall’altra, coloro che si misuravano con le armi, mentre la stragrande maggioranza della popolazione rappresentava un’immensa zona grigia incerta e attendista, sostanzialmente indifferente. L’episodio di Gorla aveva purtroppo non dico la scusante, ma almeno l’alibi, per quanto accadde. La scuola, infatti, sorgeva ai margini dell’area della stazione e dello scalo ferroviario di Greco, ai confini tra la città e Sesto San Giovanni, allora il centro industriale più importante d’Italia. Qui infatti si trovavano i più grandi complessi siderurgici, metallurgici e chimici italiani. Di qui la decisione degli alleati di bombardare e il tragico, del resto allora frequente, errore di mira.


Un’azione dei G.A.P.
Per restare a Greco, bisogna ricordare La Breda, la Falck, la Magneti Marelli, la Pirelli, tutte fabbriche a quel tempo coinvolte nella produzione bellica non solo per i fascisti di Salò, ma anche per l’esercito tedesco. Continue erano infatti le razzie di materiali compiute dalle truppe tedesche in questi complessi. Il materiale requisito veniva direttamente caricato su vagoni merci e inviato in Germania. Solo le maestranze operaie di queste fabbriche tentavano con azioni di sabotaggio e scioperi spontanei, spesso pagati a caro prezzo, con la deportazione e la morte, di impedire queste indebite appropriazioni per fini abbietti. Alla stazione di Greco si trovava un presidio tedesco e un piccolo bar con biglietteria gestito da due anziani coniugi, lui ferroviere in pensione obbligato a lavorare ancora per la miseria che la previdenza gli elargiva a fine mese. Si chiamava Giovanni ed era un vecchio amico di mio padre, con il quale condivideva le idee politiche e quindi l’antifascismo. Per questo viveva con apprensione il suo impegno di lavoro con vicini tanto pericolosi e la minaccia quotidiana dei bombardamenti americani. Sua moglie Rosa, di origine emiliana come lui, era rimasta completamente sorda per l’esplosione di una bomba caduta nei pressi della stazione. Il 5 gennaio del 1945, sui binari della stazione di Greco si trovavano parecchi vagoni merci carichi di materiali bellici pronti per partire per la Germania. Dall’interno della fabbrica qualche patriota avvertì i G.A.P. che entrarono subito in azione e con l’aiuto di alcuni ferrovieri minarono i binari e la locomotiva. Norina Pesce fu la coraggiosa partigiana che portò l’esplosivo alla stazione. Il prezioso carico non poté così partire e rimase nella stazione per molto tempo, prima che la locomotiva fosse rimossa e i binari ricostruiti. I tedeschi, furibondi, si abbandonarono a crudeli rappresaglie. Decisi a catturare i responsabili dell’azione portarono a San Vittore tutti i ferrovieri di servizio alla stazione nel momento dell’attentato e cercarono di ottenere da loro con la tortura la denuncia dei partigiani che avevano compiuto l’azione. Nessuno di loro parlò. Finirono in Germania, soprattutto nel campo di sterminio di Mauthausen, da dove qualcuno di loro non tornò più. 


Tempo di solidarietà
Anche per Giovanni e Rosa non si preparava miglior destino. La loro abitazione venne perquisita e minata. Sarebbero certamente morti nell’esplosione se l’anziano cuoco tedesco del presidio, in un lampo di umanità, non li avesse avvertiti in tempo, suggerendo loro di fuggire nelle campagne circostanti, il più lontano possibile. Giovanni e Rosa trovarono rifugio in una cascina, ma Giovanni si sentiva ancora troppo vicino alla stazione e ai tedeschi che la presidiavano. Non temeva solo per sé, ma anche per i contadini che generosamente l’avevano accolto con la moglie. Pregò perciò un contadino di raggiungere mio padre a Niguarda per chiedergli aiuto, dandogli tutte le indicazioni per raggiungere la nostra casa. Il contadino, nonostante il freddo pungente e il coprifuoco saltò in bicicletta e sfidando le pattuglie e le ronde italiane e tedesche pedalò fino a Niguarda. Mio padre lo rassicurò e gli disse che avrebbe presto provveduto per mettere al sicuro i due coniugi amici e anche per liberare da quell’impiccio lui e la sua famiglia che si era esposta a gravi rischi per aiutarli. Mentre il contadino se ne tornava a casa sfidando nuovamente gli stessi rischi dell’andata, mio padre si recò da un vicino di casa, Pierino, un ex operaio della Breda che era stato licenziato per le sue idee considerate sovversive e che si guadagnava da vivere facendo trasporti con un carretto a sponde alte tirato da un cavallino. All’alba Pierino partì con il suo carretto e poche ore dopo Giovanni e Rosa, nascosti sotto balle di fieno e vecchi copertoni di automobile, giunsero a casa nostra. Non dimenticherò mai quel mattino del 6 gennaio, giorno dell’Epifania, giorno di festa per i bambini in tempo di pace, quando Rosa, avvolta nello scialle nero che la contadina che l’aveva ospitata per quella terribile notte le aveva regalato, entrò in casa nostra e abbracciò mia madre. Nell’euforia dell’evento mio fratello, che era ancora un ragazzino, volle recitare una poesia di Pascoli imparata a scuola. Mio padre si preoccupò che l’indomani non parlasse a scuola di quanto aveva visto, per non suscitare sospetti o indagini che potessero mettere in pericolo la nostra famiglia e i nostri ospiti. Il clima intimidatorio della dittatura coinvolgeva purtroppo anche i bambini. Rosa e Giovanni vissero con noi fino alla liberazione, restando di giorno in un angolo protetto della nostra cantina e salendo in casa nostra la sera, in quell’inverno freddissimo, per dormire al caldo nella stanza dei miei nonni, sfollati in campagna. Quanta gente ha salvato, in quei momenti d’orrore, la solidarietà tra persone semplici, ma generose? 


Una serata al Circolo filologico
Nonostante la tragicità degli eventi la vita andava avanti. A quel tempo, mentre la guerra viveva i suoi ultimi ferocissimi mesi e si viveva sotto la minaccia dei nazifascisti sulla terra e degli angloamericani dai cieli, la cultura sembrava un lusso. I bombardamenti avevano distrutto o lesionato gran parte dei monumenti della città, ma il vero problema non era materiale, ma morale. Sperimentai personalmente che non può esistere cultura dove non esiste libertà, dove non c’è spazio per il confronto tra le idee e un’ideologia violenta con il ricatto e la minaccia tende a sopraffare la verità. Tra le poche istituzioni culturali della città rimaste in piedi, era il Circolo filologico che continuava a onorare la propria tradizione culturale. Prima della guerra possedeva una ricca biblioteca; promuoveva conferenze e dibattiti, soprattutto letterari e filosofici, ma anche politici con una certa larghezza di vedute; organizzava, in consonanza con il proprio nome, corsi per l’apprendimento di numerose lingue straniere. I fascisti sorvegliavano assai di più le attività del popolo piuttosto che quelle degli intellettuali. Durante il periodo bellico, via via, dalla biblioteca scomparvero tutti i testi considerati non in sintonia con il regime. Conferenze e dibattiti si ridussero quantitativamente e qualitativamente e soprattutto erano a senso unico, pura propaganda di regime. Quanto ai corsi di lingue, non era rimasto che quello di tedesco. Proprio in quei primi mesi del 1945 con buon senso e un certo coraggio fu ripristinato il corso di lingua francese. Su consiglio di Carla Sommaruga, che insegnava lingua francese in un liceo della città, profonda conoscitrice della letteratura e della storia francese, convinta antifascista e mia carissima amica, mi iscrissi al corso di francese. Terminata la guerra avrei ripreso il mio lavoro ed era per me indispensabile conoscere bene una lingua straniera. Mentre frequentavo il corso, ai primi di marzo, venni a sapere che il professor Remo Cantoni, critico e profondo conoscitore della letteratura francese, avrebbe tenuto una conferenza. La sala del filologico era affollata da persone giovani e anziane che si accalcavano davanti al banco del prestito, perché l’ondata di tardiva liberalizzazione era arrivata sin lì e tornavano a circolare libri sfuggiti alla censura quando non alla distruzione. La conferenza di Cantoni metteva a confronto l’esperienza e l’opera di due scrittori politicamente contrapposti: il nazionalista Barrès e il comunista Gide. Dal confronto, secondo l’oratore, usciva largamente vittorioso Gide, per il suo “internazionalismo vincente speranza e avvenire di una nuova umanità”, contro il rivale, sostenitore del governo filofascista di Vichy espressione di “un nazionalismo chiuso ed esasperato che aveva portato alla rovina i popoli europei”. Non bisogna dimenticare che in quegli stessi giorni l’esercito sovietico stava entrando in territorio tedesco e che sarebbe in pochi mesi arrivato a Berlino. Il pubblico, anche per questo, ascoltò con interesse e passione e qualcuno intervenì con commenti e domande che dimostravano come i tempi fossero ormai maturi per un cambiamento. Il tutto si protrasse per ore in un clima di festa e anche il portiere del Circolo, chiuso il portone, venne a sedersi tra il pubblico. Non si temeva più l’arrivo dei funzionari della censura fascista, che continuavano il loro triste lavoro mentre il mondo stava cambiando.


La liberazione, un grido di gioia, poi l’ultimo dolore
Venne, infine, il 25 Aprile. Ricordo benissimo il mattino di quel giorno. Venne proclamato lo sciopero generale e dalla fabbrica Santagostino le operaie uscivano gridando “E’ finita, è finita”. Era davvero la fine finalmente anche se in quei giorni il regime diede i suoi colpi di coda e ci furono ancora morti e feriti. Vicino a casa mia fu innalzata una sorta di barricata, un posto di blocco dove venivano fermati i mezzi tedeschi e i collaborazionisti in fuga.
Il giorno dopo mi trovavo nella sede del Comitato di liberazione nazionale, nella Cooperativa di Via Hermada, dove era stata indetta una riunione delle numerose donne che facevano parte a Milano dei “Gruppi di difesa delle donne”. Eravamo in tante ed eravamo felici, ma la nostra gioia si trasformò in sgomento nell’apprendere che Gina Bianchi, antifascista e partigiana coraggiosa, era stata uccisa sul viale dell’ospedale da una raffica di mitra partita da un camion di tedeschi in fuga mentre, in bicicletta, stava per raggiungerci nel luogo dove eravamo riunite. Con lei c’era anche Stella Vecchio, presa di mira dalla stessa raffica, che tuttavia la mancò. Gina attendeva un bambino e dopo la nostra riunione avrebbe incontrato il suo compagno partigiano, finalmente liberato dal carcere di San Vittore. Stellina, invece, miracolosamente sopravvissuta a quell’episodio di guerra a guerra finita, una sorta di dormiveglia della ragione, sposerà nel dopoguerra una valoroso comandante partigiano, Alessandro Vaia.


Un giorno indimenticabile
Un altro episodio, di segno opposto, segnò quei giorni. Il 27 aprile, dalle montagne dell’Ossola e del Lecchese arrivano in città i partigiani. Noi, donne dei gruppi di difesa, quasi tutte impiegate e operaie delle fabbriche in quei giorni deserte per lo sciopero generale, decidiamo di andare loro incontro. Saliamo su due autocarri che partono da Niguarda e si fermano in piazzale Loreto, perché qui stanno per transitare i partigiani diretti in Piazza Duomo. Sull’angolo del piazzale, nel luogo in cui giacevano quei quindici morti fucilati, memoria indelebile della disumana ferocia del nemico, ad attendere le donne c’è Maria Piera Carnevale, giovane professoressa, antifascista combattente e già antifascista nel periodo clandestino. Maria Piera parla alle donne che, per la prima volta nella loro vita, ascoltano un comizio tenuto da una di loro. Afferma che avendo partecipato consapevolmente alla lotta di liberazione di tutti, anche noi donne ci siamo conquistate non solo la pace e la libertà, ma anche la nostra dignità di cittadine e che dovremo sempre è più razionalmente partecipare alla vita sociale per essere veramente libere, padrone e protagoniste della nostra vita e del nostro futuro. Sentiamo simili parole per la prima volta, l’entusiasmo dentro di noi è grande e ci accomuna profondamente. Quando arrivano i primi autocarri con i partigiani che ci salutano allegramente la tensione improvvisamente pare liberarsi: applaudiamo con entusiasmo e alcune di noi riescono a salire sugli autocarri che si dirigono verso il Duomo, altre cantano e applaudono. Ma purtroppo non è ancora finita, sul lato ovest di piazzale Loreto sorgeva, allora, l’albergo Terminus dove, senza che nessuno potesse immaginarlo, ancora si annidava un gruppo di cecchini fascisti e tedeschi. A un tratto, da quelle finestre parte una raffica di colpi di mitra. I partigiani rispondono al fuoco. Improvvisamente è l’inferno. Siamo smarrite, non tanto per la paura, ma per la sorpresa. Fortunatamente nel mezzo della piazza, in una parte allora alberata, è fermo un tram bianco con tante vetture. Noi donne riusciamo a ripararci dietro quel muro di ferro e restiamo lì fino a quando tutto è finito. I cecchini vengono debellati. Lo spavento è stato grande, ma non quanto la gioia per noi donne di sentirci, da quel giorno, protagoniste della storia di una società libera e civile.
La Resistenza è stata un fenomeno straordinario, molto diffuso e complesso. Esiste un’ampia documentazione su quel’esperienza che è alla base della nostra Costituzione, una delle più avanzate del mondo. Ancor oggi c’è chi, persone e istituzioni, si preoccupa, di conservarne la memoria, ma c’è una grande pressione dei reazionari e dei pavidi attorno per cambiare le cose, per rivedere la storia e leggerla in tutt’altro modo. Il revisionismo storico è la passione di chi vuol cancellare la storia per tornare indietro. Naturalmente si vuole rivedere e sottoporre a revisione sempre la storia degli altri. Il nostro compito credo sia quello di resistere a questi tentativi come abbiamo resistito al fascismo. Non voglio mettermi medaglie che non ho, ho vissuto, giovanissima, gli anni della resistenza facendo quello che potevo, niente di più. Per me non ho dubbi, la mia intera vita, per il periodo storico che ho vissuto, è stata per certi versi sempre resistenza ed è per questo che della lotta armata negli ultimi anni del fascismo ho voluto di proposito raccontare solo quei pochi episodi, non tutti marginali, che mi hanno toccato.


Un nuovo impegno di vita
Proprio nel 1945, in occasione del 1° maggio, giunsero da Roma due indimenticabili dirigenti: Di Vittorio e Longo. Con loro era Gillo Pontecorvo, che sarebbe presto diventato un grande regista, il quale mi invitò a entrare, assieme ad altre compagne, nel Fronte della Gioventù, che era allora un’organizzazione giovanile di sinistra. Gli risposi che non ero più abbastanza giovane per farlo e che, comunque, non solo ero nel Gruppo di difesa delle donne, ma stavo entrando nell’UDI. In effetti io e Stellina, che era con me, nonostante avessimo solo ventun anni, l’età in cui a quel tempo si diventava maggiorenni, ci sentivamo già vecchie per le atrocità che avevamo vissuto...