Quale Regione per un positivo rapporto con le Associazioni? 

Quali sono le condizioni a partire dalle quali la Regione può costruire un rapporto costruttivo con il terzo settore?

di  Sergio Silvotti

La prima domanda che farei, per provare a rispondere è: di cosa stiamo parlando?, di quali temi, di che scambi e di quali risorse e bisogni?

Forse di beni e servizi offerti dalle organizzazioni di terzo settore alla Persona e alle Comunità e commissionati dal Pubblico –ovvero di come le Istituzioni utilizzano il terzo settore come fornitore di servizi?, o invece vogliamo parlare della capacità del terzo settore di dar vita alle risposte a partire dai bisogni, rafforzando i legami sociali promuovendo socialità –ovvero producendo relazioni che producono altre relazioni sociali?

Insomma quale ruolo stiamo immaginando per le organizzazioni di terzo settore nell’organismo sociale?

Provando a porsi le stesse domande da una diversa prospettiva potremmo chiederci: “Stiamo parlando di servizi e dei loro produttori o stiamo parlando di risposte ai bisogni sociali, culturali, civici e ricreativi della persona e delle comunità e del ruolo di connessione che tra questi giocano le organizzazioni di terzo settore?”

Purtroppo queste non sono domande retoriche e quindi è innanzitutto onesto continuare ad interrogarsi su due possibili scelte: se ci conviene e ci convince restare sul terreno delle prestazioni e dei meccanismi attraverso i quali il Pubblico “acquista e controlla” o se intendiamo intervenire sul sistema di allocazione–e non semplicemente di re-distribuzione- delle risorse e quindi di quale ruolo interpreta il terzo settore nell’esercizio della “governance”, della “programmazione” dei progetti e degli interventi attraverso i quali rispondere ai bisogni della persona e delle Comunità. Sistema che, è doveroso esplicitarlo qualsiasi sia il modello di governance, non può che avere come primo titolare e responsabile ultimo l’Ente Pubblico?

Io credo si debba accettare la sfida della programmazione, dell’essere contitolari della costruzione delle politiche d’interesse pubblico, e questo non perché è certamente più interessante misurarsi con compiti di governo piuttosto che con ruoli di mera gestione, ma perché fa parte del nostro codice genetico la capacità di negoziare, di promuovere cittadinanza attiva, in altre parole di creare le condizioni perché le donne e gli uomini trovino innanzitutto in sé stessi, a partire dai loro bisogni, le capacità di costruire le risposte alle domande, moltiplicando le relazioni sociali, rafforzando la coesione sociale e così creando le condizioni per un coinvolgimento della comunità tutta.

Ma c’è un altro motivo per compiere una scelta in questa direzione, più esterno e oggettivo: il sistema basato sul binomio stato - mercato, tra chi produce la ricchezza e chi ha il compito di definire meccanismi equi di redistribuzione è entrato definitivamente in crisi. Non è entrato in crisi esclusivamente per ragioni di ordine economico e finanziario –che pure ci sono e sono importanti, ma per i mutamenti demografici, sociali, culturali della società che non rendono più adeguato quel modello di politiche pubbliche. Famiglie sempre più piccole –madre, padre e un figlio- e isolate, una presenza sempre più massiccia e importante della donna nel mondo del lavoro, l’impossibilità di trovare, per ragioni logistiche e culturali, nella famiglia allargata la prima rete di sostegno ai bisogni di cura della prole e degli anziani, il venire meno del sostegno di reti amicali e comunitarie a causa di un processo accelerato di disgregazione sociale sono le radici profonde di questa crisi.

Una crisi che mina innanzitutto l’equilibrio sociale, che non corrisponde alle donne e agli uomini, ai giovani come agli anziani, una adeguata quota di garanzie in cambio del loro investimento sul futuro, che non li mette nelle condizioni di progettare, sperimentarsi, dare il loro contributo allo sviluppo delle Comunità cui appartengono. Le Organizzazioni di terzo sono allo stesso tempo il risultato e un’opportunità per sciogliere questa tensione, lo sono per natura.

È necessario assumere il contesto e al suo interno cercare di definire le condizioni in base alle quali “l’opportunità” terzo settore può essere utilmente sperimentata: se abbiamo bisogno di un quadro generale, di un “pensiero forte” e quindi di un orizzonte condiviso all’interno del quale collocare il nostro impegno, è altrettanto vero che il terzo settore deve contemporaneamente sperimentare in concreto sia la virtuosità sia la sostenibilità delle ipotesi. Questo “saper fare” non può che costruirsi a partire da esperienze radicate nel territorio, attraverso un progressivo lavoro di precisazione di ruoli, competenze e funzioni fra gli attori che localmente sono chiamati a contribuire all’organizzazione e all’implementazione delle politiche pubbliche.

All’Istituzione Regione è necessario chiedere un impegno perché crei le condizioni di possibilità non solo perché le diverse ipotesi vengano sperimentate, ma perché quelle esperienze possano rappresentare un contributo al modello complessivo; perché i diversi progetti così come i molti esperimenti siano momenti di un comune programma di “learning by doing” delle Comunità e dei Territori della regione.

Possiamo, anzi dobbiamo assumere come terzo settore la sfida della programmazione senza rifugiarci in un cieco operare; dobbiamo certo trovare il coraggio e la forza di assumere il ruolo di interlocutori, con piena soggettività, dell’impegno di costruire nuove e più adeguate politiche pubbliche ma questa nostra fatica assume un senso solo all’interno di un contesto in cui il principio di sussidiarietà –sia verticale sia orizzontale- sia concretamente applicato. Non introduciamo con questo termine, tanto citato quanto abusato, un concetto nuovo: sussidiarietà è innanzitutto accettare la complessità ed assumerla come punto di partenza per la costruzione di un sistema di governo pubblico in grado di assumere e rispondere alle esigenze e agli interessi delle Comunità e dei Territori. Non crediamo neanche di introdurre due diverse declinazioni del principio di sussidiarietà precisandone le dimensioni verticale e orizzontale. Stiamo piuttosto ricordando come questo principio ha due assi necessari nella sua applicazione: il progressivo trasferimento di competenze, titolarità, funzioni e risorse dai livelli istituzionali sovra-ordinati a quelli sotto-ordinati e l’integrazione fra funzioni, capacità e risorse del Pubblico con quelle del privato. Questi due assi hanno un inevitabile luogo di snodo che noi vediamo nella dimensione municipale e quindi nell’Ente Comune. A partire da queste premesse è possibile ritrovare la forza e soprattutto la fiducia perché le tante disponibilità volontarie a contribuire al bene comune diventino parte attiva del sistema di progetti e risposte pubblico.

Allo stato attuale sarebbe prima di ogni altra considerazione velleitario elencare tutte le condizioni per avvicinare un simile modello, possiamo però precisare quali condizioni necessarie, ancorché non sufficienti, ci consentirebbero di iniziare con fiducia un percorso in quella direzione.

Per iniziare questo percorso è necessario assumere un principio, quello di sussidiarietà, che quando interpretato come ricerca di meccanismi di coinvolgimento degli attori sociali nella costruzione delle politiche pubbliche e non come processo di de-responsabilizzazione del Pubblico, quando è applicato come criterio per ritrovare nella complessità delle relazioni sociali le risorse per un governo partecipato della cosa pubblica e non come strumento surrettizio di privatizzazione dei beni comuni, quando infine viene assunto come traduzione in pratiche concrete della necessità di un nuovo modello di governance è un felice punto di partenza per un impegno tanto necessario quanto entusiasmante.