riflessioni sul dopo voto

La crisi della sinistra
La grande rimozione
Rossana Rossanda  

Il governo di Berlusconi non è una semplice alternanza: cercherà di portare a termine la demolizione di quel che resta del `modello europeo', cioè quella pratica dello Stato parzialmente correttiva della logica della proprietà e del mercato che ha caratterizzato il dopoguerra. L'inversione di rotta era cominciata dal 1992, ma la partita non è del tutto chiusa. Resta da consegnare la fiscalità alle Regioni, che decideranno della sanità e della scuola, dell'immigrazione, delle polizie e della sicurezza locale. La portata di questo cambiamento, che riduce le istituzioni a guardiane della proprietà e del mercato, è sottolineata soltanto dalla Casa delle libertà. Il centro-sinistra ha messo l'accento sull'impresentabilità di Berlusconi sotto il profilo giudiziario e del conflitto di interessi, come se, in mancanza di esso, il suo programma fosse accettabilissimo (di fatto non è molto diverso da qualche tempo da quello del governatore Fazio). Con altra intelligenza Norberto Bobbio insiste sulla eccezionalità di Forza Italia rispetto agli altri partiti, raggruppamento fra aziendale e ideologico, spurio e perciò tanto più pericoloso. Né sostanza né accidente, dicono anche alcune donne, e ne concludono: Berlusconi non è una politica ma un vuoto di politica 1.
Berlusconi non è un vuoto, è un pieno, se per `politica' si intende intenzione e capacità di ordinare o sovvertire le relazioni che reggono la collettività nazionale o supernazionale. Tali sono la restituzione alla proprietà privata e al mercato non solo delle strutture produttive, anche quelle strategiche ai fini dello sviluppo, ma anche di quei servizi che per essere pubblici e universalistici si sono configurati fino a ieri come diritti, beni sottratti all'acquisto e alla vendita, quali l'istruzione, la sanità, la previdenza.
È significativo il non rilievo dato dal centro-sinistra a questi cambiamenti. Quasi che fossero un'accelerazione ovvia, una taglia fatale messa sulla spesa pubblica e sul `lavoro' in nome della modernizzazione, in una società che ha ridimensionato il lavoro ad aspetto importante ma non decisivo dell'esistenza. Già in questo c'è uno spostamento culturale: il salario è visto come un accesso al reddito simile a un altro, a prescindere da come si configuri nel processo del capitale. Anzi comporta un giudizio di valore, come risorsa di chi non saprebbe far di meglio, aumentando la confusione fra autonomia dell'operare e possesso di una Partita Iva. Ed è come se la sua tendenziale riduzione a contratto privato fra singolo e impresa incidesse soltanto sulle risorse, non sulle relazioni di cittadinanza, sulla percezione di sé dell'individuo, sull'uso del tempo reso incerto e affannoso dalla precarietà, sull'idea di società che sottendeva la Costituzione. E infatti si cambiano pezzo per pezzo le forme di Stato. La `rivoluzione berlusconiana' declina la nazione come luogo di scambi e basta, e il cittadino come produttore, venditore o acquirente di beni, merce. La critica radicale che muovemmo nel 1968 e negli anni '70 all'intervento pubblico si va risolvendo, per il mutamento dei rapporti di forza, in perdita di controllo di una pur parziale visibilità della direzione dei processi; anziché nella socializzazione delle funzioni pubbliche nella loro totale mercificazione.
Non avviene soltanto in Italia. L'esito del 13 maggio porta l'Italia a convergere nel modello prefigurato per l'Occidente fin dalla Trilaterale del 1974, poi attuato da Reagan e Thatcher: questo è l'approdo della transizione sulla quale si sono fatte tante chiacchiere. In Europa (non negli Usa) ne sono strumenti la consegna dei poteri tipici dello Stato nazione – moneta e difesa – alla Bce e alla Nato, fuori da ogni forma di controllo. In questo senso, e con protagonisti fin paradossali, come l'inclusione al governo di tutta la destra, si chiude l'eccezionalità italiana.

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Perché questo non è rilevato con allarme? Anzi il solo rilevarlo sembra obsoleto, ossessivo, `ideologico'? Certo perché le sinistre storiche, da quella cattolica prodiana agli eredi del Pci, hanno introiettato la tendenza. È nel programma del centro-sinistra e nelle sue scelte presso la Ue che è rifiutato, perfino contro un Delors, ogni orizzonte dello sviluppo che non sia determinato dal mercato; è stata fatta propria la polemica di destra contro lo `Stato padrone' 2. Ed è stato cancellato perfino dall'orizzonte simbolico il dualismo fra capitale e lavoro, fra accumulazione privata e equilibri sociali, che ancora si delineava nel `compromesso socialdemocratico'. Nell'ex Pci la difesa dei diritti sociali è stata bollata da Massimo D'Alema come obsoleta, a costo di entrare in collisione con la pur moderata Cgil: essi limiterebbero la competitività dell'impresa, come l'universalismo del Welfare indurrebbe alla pigrizia riducendo la mobilità sociale 3.
Ma può esistere una sinistra che neppur si propone un fine diverso da quello dell'accumulazione del capitale e dei meccanismi di mercato, considerati sola fonte di crescita, di occupazione e di reddito? Su questa strada i Ds sono andati oltre Francia e Germania, trascurando che la loro vittoria a metà degli anni '90 – come quella della Spd su Kohl, di Jospin su Chirac e di Blair su Major – veniva dalla speranza che riprendessero contro il tatcherismo una ispirazione riformatrice, e anzi ribaltando il termine `riforma' in senso opposto alla sua origine 4.
Non si può tuttavia attribuire alle sole dirigenze questo mutamento di prospettiva. Il lutto mai affrontato dei socialismi reali ha fatto vacillare tutte le sinistre dopo il 1989: come se l'esito totalitario dei tentativi di collettivizzazione, e financo il venir meno del loro iniziale input produttivo, li obbligasse a cedere le armi non alle odiate socialdemocrazie o ai keynesismi, ma al liberismo di von Hajek, facendo un salto indietro alla fine del XIX secolo o alla cultura del XX prima del 1929. Il mercato sarebbe garante della libertà d'impresa, e questa sarebbe garante di ogni libertà (quella femminile inclusa 5). Questa tesi, rispuntata in Italia già nel dibattito fra Craxi e Occhetto nel bicentenario della Rivoluzione francese, ha indotto via via alle formule di passaggio di lib-lab, socialismo liberale, rivoluzione liberale, per finire nell'esorcismo del marxismo padre del comunismo, tragedia del secolo reciproca al nazismo. Sotto questa grandinata, sinistre vecchie nuove si sono battute il petto per i propri errori di `economicismo' malgrado che formazione e pratica dei comunisti italiani siano state, se mai, più `politiciste' che `classiste', più attente all'evoluzione delle `sovrastrutture' che a quelle della `struttura', anche per essere nate nella Resistenza, e cresciute nella guerra fredda e in presenza d'una Chiesa dall'ideologia pervasiva; questo è stato anche un certo abuso di Gramsci (gli anni sessanta 6). Anche qui un processo autocritico, che era dovuto, specie in tema di statalismo, è andato fuori controllo, e il fondato dubbio sui limiti etici delle teorie e pratiche del socialismo reale e dei movimenti comunisti ha cancellato, invece che problematizzarla, l'attenzione ai processi `materiali reali'. Noiosa altalena, dalla quale non siamo liberati.
Per più comprensibili ragioni la stessa cancellazione veniva fatta dai `nuovi soggetti', sorti con l'irruzione della problematica della persona rispetto al collettivo (classe o partito o Stato), della persona sessuata rispetto alla cultura patriarcale, e infine di quella della natura rispetto allo `sviluppo' e al `progresso'. Il nuovo femminismo e l'ecologia nulla hanno in comune se non la denuncia delle categorie classiste del movimento operaio: le donne ne diffidano come estremo tentativo di includerle nello schema emancipatorio, mentre l'ecologia le bolla come figlie conformi dell'industrialismo. Anche lo scioglimento della solidarietà da uno sguardo lucido sul `gene egoistico' del capitale, che fa del volontariato una `cristianizzazione' laica della società, registra questa presa di distanza 7.
Insomma non è il capitalismo totale di Berlusconi a fare scandalo, e non per caso poco ha influito sul voto il dubbio sull'origine della sua fortuna. Anche gran parte della sinistra critica non sembra più impegnata a prendere per le corna il conflitto di classe. L'acerbità e il personalismo, le cadute nella depressione o nel vituperio, che hanno caratterizzato la discussione fra le sinistre e nelle sinistre dopo il 13 maggio, sono un effetto di questo smarrimento di orizzonte.

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Ma perché alla demolizione del `modello europeo' non ha corrisposto, salvo per le pensioni nel 1994, la protesta di massa degli interessi lesi? I movimenti antiglobalizzazione non sono formati specificamente da proletari, e le lotte dei metalmeccanici finora non innescano quelle delle altre categorie. Colpa delle rappresentanze politiche e sindacali? Oppure le modificazioni dell'assetto produttivo che vanno sotto il nome di postfordismo hanno modificato le figure sociali reali? E questo non avrebbe mutato i rapporti di produzione, per cui non sarebbero lesi gli interessi d'una maggioranza dei lavoratori, per non dire gli intellettuali e contadini evocati fino a quarant'anni fa? Viene in mente Alice nel paese delle meraviglie. Quando, dopo un elusivo scambio di idee col gatto del Cheshire, vede sparire quel sardonico micio a cominciare dalla coda. Ne resta a fluttuare soltanto il sorriso e lei esclama: «Ho visto spesso gatti senza sorriso, non avevo mai visto un sorriso senza gatto!». E noi? Si vedono spesso proletariati senza coscienza di classe, quando mai coscienza di classe senza proletariato?
La domanda è radicale. Non si può rispondere in questa sede se non per un aspetto evidente: la globalizzazione presenta un concentrarsi dei comandi produttivi in concorrenza e perpetua riformulazione nell'ambito d'un oligopolio proprietario, e un crescente frammentarsi delle basi della piramide capitalistica, sia produttiva sia finanziaria. Alle grandi fusioni della multinazionalità corrisponde nel `locale' un moltiplicarsi di attività produttive, di ricerca, meno di distribuzione, autonome o `esternalizzate'. Insomma l'apparato proprietario si modifica verticalmente fra produzione e finanziarizzazione, e orizzontalmente fra un livello altissimo di concorrenza tra grandi protagonisti in lotta e un piano basso di proprietà secondarie, derivanti e frammentate, ad alto tasso di nascita e mortalità. Di fronte a questa modifica che trapassa le frontiere e sovente gli fa sparire davanti la controparte, il lavoro è trascinato al massimo della flessibilità e precarietà: le confindustrie chiedono la fine del contratto nazionale e, puntando sulla dispersione dei salariati, mirano a fare della contrattazione del lavoro un rapporto fragile e immediato fra impresa e dipendente (cfr. D'Amato e la francese Medef 8).
Tale processo è stato recepito in modo subalterno. È stata la sinistra sindacale a metter per prima l'accento sulla questione dei `lavori', in soldoni un mutare e articolarsi delle mansioni, dato sociologico rispetto al `rapporto di lavoro', dato strutturale. È a sinistra che si oscilla fra la difesa dei nuclei operai classici e la teorizzazione degli elementi di libertà che sarebbero intrinseci alle moderne piccole unità aziendali (il disagio settentrionale), o alle figure professionali ad alta tecnologia, che, pur offrendosi via via a questa o a quell'impresa, avrebbero un tale know how da contare su un'inedita forza contrattuale, e si percepirebbero non più come fungibili, ma strategiche.
Si può dire che con la rivoluzione tecnologica, e il sommovimento proprietario e dell'organizzazione del lavoro che essa rende possibile, inizia un cammino della soggettività inverso da quello che, alla fine del XIX secolo, induceva lo scalpellino a coglier quel che aveva in comune non solo con gli altri scalpellini ma col tessile o il metalmeccanico: l'essere ambedue segmenti d'un processo di produzione diretto e finalizzato dal padrone, e il fornire una prestazione sottopagata rispetto a quel che rendeva. Certo, i percorsi del la soggettività sono sempre stati moltiplicati dall'organizzazione sindacale e politica: così negli anni cinquanta anche nel Mez zogiorno, che manco aveva conosciuto il fordismo, il lavoratore o il disoccupato in cerca di lavoro hanno misurato il loro destino in relazione alle conquiste o sconfitte alla Fiat. Tutto campato sul simbolico? Un simbolico condiviso organizza poteri e muta i dati dell'esistente, il `materiale reale' è questo mix. Alla fine del XX secolo, e in tempi di conclamata e visibile globalizzazione, il declino della grande fabbrica e la sempre più inafferrabile fisionomia della controparte per il crescere della concentrazione (Danone) o dello spezzettamento (le esternalizzate) precipiterebbero il salariato in un universo dove i rapporti di lavoro sono diventati indecifrabili, tali da ritenere incalcolabile il peso del suo `lavoro' nella valorizzazione del capitale 9. Varrebbe la pena di analizzare la cancellazione della domanda che sottendeva le teorie del valore lavoro, fino alla rinuncia da parte del sindacato di organizzare i suoi anche sulla base d'una valutazione della loro diretta e indiretta produttività.
Non si può qui neanche soltanto mettere in agenda il nodo del lavoro tipico o atipico e della loro relazione al processo di accumulazione e della lettura che ne vien fatta da chi vede nell'atipico un nuovo proletario, chi sottolinea la sua scelta di autonomia, e chi, a destra o a sinistra, bolla il salariato a tempo indeterminato (alcune categorie forti dell'industria) come specie estinta o residuo conservatore, tale da non giustificare una politica del lavoro. Ma come negare che l'appannamento della coscienza anticapitalistica diffusa è connesso all'incerta elaborazione di questo ordine di modifiche?
Ma insomma, quali sono i soggetti lesi dal capitale globalizzato sui quali si baserebbe un'alternativa? Qual è il `blocco storico' della rivoluzione italiana? O sono scomparsi, perché tendenzialmente tutto il lavoro dipendente, gli intellettuali dell'industria culturale, le donne nella riproduzione sociale, sperimenterebbero oggi un processo di inclusione, vivrebbero lo spostamento delle attese dalla lotta collettiva alla competitività individuale non come limite ma come possibilità? Saremmo già in una americanizzazione delle collocazioni sociali reali? Nella seconda ipotesi varrebbero per l'Italia del 2001 le tesi enunciate per gli Usa da Huberman e Sweezy cinquant'anni fa.
Le risposte che ci diamo sono contraddittorie. Molti protagonisti delle culture antiglobalizzazione insistono sull'omogeneizzazione già avvenuta in Occidente. Se fosse così, quale sarebbe l'ormai già percepibile scricchiolio, quali i segni di contraddizione del sistema, quale il disgelo rivelato dai nuovi movimenti? O questi sarebbero un dato eminentemente coscienziale, di cultura, di avanguardie, che si incrocerebbe con i residui dell'operaio classico fortemente sindacalizzato? E se si dovesse concludere all'inevitabilità di un anticapitalismo minoritario nel mare di un conformismo felice, come pensare non dico a una rivoluzione (o, ancor più, alla natura di una società liberata da un'avanguardia) ma a un soggetto politico-sociale in grado di intervenire effettivamente sul Moloch della globalizzazione? Non resterebbe che opporgli la vita privata o la manifestazione simbolica, e arrivederci agli sfruttati e alienati e affogati nel consumo coatto, per non dire ai marginali delle nostre società e alla marginalità di interi altri paesi, e almeno un continente, che non possono saltare su questo tipo di ascensore sociale.
Una visione simile sulla fatalità della modernizzazione globale sembra paradossalmente fungere da premessa a chi la esalta e a chi ne denuncia la distruttività. Il New labour o il `d'alemismo' propongono di moltiplicarne la spinta, accusando di conservazione chi tenta di opporvisi, mentre la sinistra radicale vede nel dilagare dell'ideologia modernizzante soltanto lo spazio per azioni minoritarie e fortemente simboliche. Non potrebbe essere più grande la distanza non solo politica ma morale fra le due posizioni, che non casualmente si trovano a ogni vertice, a Nizza come a Göteborg, attestate l'una dalla parte che schiera le polizie fino a sparare, e l'altra fra chi manifesta con catene di corpi e qualche sassata. In ambedue l'analisi del presente dà i rapporti di forza per definiti. Il tema è quello antico della base `materiale reale' delle rivoluzioni, o anche soltanto delle spinte antisistema.

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Ma a questo rimanda immediatamente il futuro delle sinistre italiane, di una loro possibile ricomposizione o fatale divaricazione. Lo si avvertirà a breve termine sull'opposizione cui l'iniziativa del centro-destra ci obbligherà volenti o nolenti: come sfuggire alla tenaglia fra mera testimonianza di fronte alla magnitudine delle tendenze da esso impersonate e la difesa del debole esistente fabbricato dal centro-sinistra? Dall'aborto al federalismo, dalla scuola alla sanità, dalle pensioni ai licenziamenti, dalla giustizia all'immigrazione, questo sarà il problema.
E qui si inserisce la discussione aperta da questa «rivista». Una ricomposizione delle sinistre non c'è stata, la sconfitta elettorale sembra rafforzarne le divisioni, inchiodando Rifondazione al livello dove stava e precipitando i Ds in una crisi definitiva, trascinata sottotraccia per anni e ora deflagrante. Infatti se Rifondazione sembra proporre, all'inizio della sua discussione interna, una idea di sé che fa aggio sulle minoranze attive del `popolo di Seattle' e dei metalmeccanici, fungendo loro da sponda e prospettando, a partire essenzialmente da sé, una crescita del fronte più che attivare un collegamento con forze di altra appartenenza; i Ds non possono fare di sé, come sono, una pista di lancio: elettoralmente sono ai minimi storici, rischiano di diventare né il primo né il secondo ma il terzo partito italiano, e si capisce che lo scontro interno sia asperrimo. Massimo D'Alema si è ripresentato come leader d'un partito `liberista con valori', araldo della modernizzazione indotta dalla globalizzazione, e scommette sulla competitività della crescita. Il modello è il New labour di Tony Blair. Di qui l'intolleranza verso le sinistre interne, mentre la distinzione da Veltroni è eminentemente politicista. Alla Cgil l'onere di ricollocarsi. I cosiddetti poteri forti hanno atteso il vincente e gli va benissimo. Non saranno loro a frenare l'aggressione a quel che resta della sfera pubblica e dei diritti.
Ma non si tratta di delineare qui un percorso del quale subiremo le tappe già quest'estate. Questa riflessione voleva soltanto osservare che, come la vittoria di Berlusconi non è separabile dalla riorganizzazione del capitale avvenuta fra gli anni ottanta e novanta, non è né incidentale né fragile, così la sconfitta delle sinistre è legata al venir meno d'un loro dominio intellettuale sui processi avvenuti sia nel capitale sia nella loro base sociale, e quindi dei fondamenti d'una qualsiasi alternativa. È dal confronto sull'analisi che forse bisogna ripartire. Il bello d'una rivista di voci diverse è che le è consentito di ragionare ostintamente su scenari anche non immediatamente maturi.


note:
1  Cfr. la dichiarazione di voto per l'Ulivo pubblicata sull'«Unità» dal gruppo femminile di studio «Balena», altre volte astensionista (Bonacchi, Fraire, Boccia, Pomeranzi, Stella e altre). La questione della `crisi della politica' era stata sviluppata in La porta di vetro di Maria Luisa Boccia, Gloria Buffo e Ida Dominijanni (paper). Il richiamo era M. Tronti, Il tramonto della politica, Einaudi 1999, dove però per politica si indica il disegno di modificazione della storia, concepita come l'inerte, trionfo dell'economico, da parte della rivoluzione proletaria.
2  Cfr. B. Trentin, La città del lavoro, Feltrinelli 1997, e in: La fine dello Stato padrone di P. Glisenti, Eri 2000.
3  Cfr. il Libro Verde del New labour, pubblicato da «Quale Stato», le proposte della Commissione Onofri per il governo di centro-sinistra; il documento informale, a prima firma Tito Boeri, scambiato fra D'Alema e Schröder nel 1999.
4  Cfr. il recente G. Vacca, Ma dove vanno i riformisti senza riformismo?, «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 7 giugno scorso.
5  Cfr. L. Cigarini, La rivoluzione inattesa, Pratiche 1997.
6  Alludo ad alcune letture `storiciste' a oltranza, che prospettano il venir meno delle caratteristiche del modo di produzione capitalistico («i capitalismi»). Ne sono anche eco le discussioni su Pour Marx e Lire le Capital di L. Althusser.
7  Cfr. M., Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi 2001.
8  Ambedue vedono ormai in via d'uscita il divieto ai licenziamenti e sembrano interessati soprattutto a fissare un termine di cinque anni al contratto, in modo da formare ed eventualmente rinnovare un nocciolo duro aziendale, circondato da un alone di impieghi precari.
9  Cfr., per l'Italia, A. Bonomi, Il capitalismo molecolare, Einaudi 1997, bibliografia e sviluppi successivi. Sul lavoro autonomo, le ormai classiche ricerche di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli.