Due visioni del mondo alla prova

 

Una riguarda la modalità e i contenuti della comunicazione al mondo  di papa Francesco, 

l'altra le contraddizioni drammaticamente irrisolvibili  che hanno portato all'elezione di Trump. 

Il 2017 si confronterà su una posta molto elevata.

1.      Una valutazione sulle conclusioni dell’assemblea dei movimenti del 5 Novembre in Vaticano

Chissà cosa avranno provato le Guardie Svizzere presenti nella grande aula Paolo VI il 5 Novembre quando hanno visto (e udito!) levarsi in piedi centinaia di giovani di fronte al Papa e al cardinal Tuckson per inneggiare a braccia alzate alla libertà del Kurdistan! Ma questa era la straordinaria cifra dell’incontro tra Francesco e i movimenti popolari provenienti da tutto il mondo. Una cifra attinente alla liberazione, alla giustizia sociale, alla cura della casa comune che affascina anche un mondo laico di sinistra orfano di una traccia su cui riconoscersi mentre rincuora allo stesso tempo i credenti delusi dall’assillo temporale e, perché no, dalla divisione anacronistica delle loro chiese. Alla fine dell’incontro ho visto abbracciarsi compagni di viaggio ritrovati, affaticati dalle vacuità di Renzi quanto dall’esibizione di potere curiale dei vari Bertone, sideralmente lontani dall’assemblea promossa da Francesco. E, mentre uscivamo ormai col buio, ci siamo fatti promesse, riconoscendoci pur da diverse provenienze, di riprenderci o - almeno, per quelli della mia età - di riconsegnare ai più giovani la mancanza di futuro che soffoca intere platee del mondo, mentre la politica vive solo l’assillante richiamo al presente di un gioco degli specchi. Un illusionismo che occupa mille talk show, affanna cento leader mondiali a presidio dei loro confini nazionali e infiamma solo i dieci direttori di quotidiani che ad ogni svolta imprevista non sanno pentirsi di esserne stati i promotori.

Per la verità, è impressionante come un evento di questa portata non solo sia sfuggito ai media, ma non sia stato messo al centro di una adeguata discussione – almeno in Europa e nel nord del pianeta - da parte di quei movimenti che alla svolta del millennio e a partire dalla pratica dei beni comuni sembravano poter rappresentare la “seconda potenza mondiale”.

In effetti, per i celebranti dei fasti della globalizzazione, un’assemblea che riunisce le organizzazioni di persone ai margini della società -  poveri, disoccupati, senza tetto, sfruttati e inoccupati o che hanno perso la loro terra agricola, "Las Tres T: Trabajo, Techo, Tierra" - è bene che rimanga senza voce e persino senza immagine, anche se trae origine da 92 movimenti popolari provenienti da 65 paesi; anche se è illustrata da presenze come quelle di Pepe Mujica, presidente dell'Uruguay 2010-2015, dell’indiana Vandhana Shiva o del leader dei Sem Terra Pedro Stedile; anche se non esibisce nessun aspetto di marginalità o di supplica caritativa e va diretta al cuore del cambiamento politico economico strutturale necessario alla sopravvivenza della civiltà e della specie umana.

Molti hanno già commentato con assai più autorevolezza le promesse di questo incontro: io qui sottolineo solo alcuni aspetti che nella mia esperienza laica costituiscono motivo di profonda riflessione rispetto ad un messaggio che oltrepassa la dimensione religiosa.

Nasce ormai sotto questo papato una forma di autoorganizzazione che respinge la cultura dello scarto e del pensiero unico ed ha le caratteristiche di incisività che, a mio avviso e senza esagerazioni, doveva avere nel contesto di formazione della civiltà industriale il manifesto di Marx ed Engels del 1848. Non siamo ormai più alla pur nobilissima dimensione morale: la commissione “Justitia et pax” – ha detto nella prolusione il cardinale Tuckson - sarà sostituita da quella per uno “Sviluppo umano integrale”. A mio giudizio si tratta di una svolta nella storia della Chiesa, come lo è stata la piena riqualificazione della scienza rispetto alla fede, accreditata definitivamente nella “Laudato Sì” all’interpretazione della realtà e del mondo che ci circondano. Si parla esplicitamente ormai di tirannia del denaro, indissolubilmente legata al sistema e si dà una forma storica al sistema: “capitalismo”, che anche se non direttamente nominato è richiamato nella sua contrapposizione insanabile ad una “forma di vita austera al servizio del prossimo e del bene comune”. E’ così conseguente l’analisi di Francesco sulla “frusta della paura, della violenza economica sociale e militare” da ammettere che un sistema come quello che predomina nelle sue aberrazioni genera terrorismo perché è terrorista.

Mi ha poi colpito l’intuizione più volta espressa che "nessuna tirannia potrebbe essere sostenuta senza sfruttare le nostre paure”, alimentate e manipolate”. Come negare che la paura - oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte – ci indebolisce e ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci intorpidisce di fronte alla povertà e, alla fine, ci rende politicamente crudeli?

Dovremmo darci pena non per cercare posti di lavoro, ma per crearne, tenendo conto che se si parla di lavoro, il tetto, la terra, la democrazia stanno incollati l’uno all’altro. Come afferma João Pedro Stedile "abbiamo un capitalismo che esprime l'arretratezza, lo sfruttamento e l'espulsione appropriandosi della natura e negando diritti universali, al punto che il sistema democratico borghese della rivoluzione francese non funziona più”.

Abbiamo una identità che non può dissociarsi dalla natura in cui la vita ha preso corpo e in cui la rigenerazione segue percorsi, relazioni e tempi ormai in conflitto con l’impiego di velocità e tecnologie tanto innaturali quanto discriminanti sul piano ambientale e sociale. Anche la politica è qualcosa di vivente ,perchè dalla nostra vita emerge la necessità  di articolare la nostra domanda di futuro su basi partecipative e pluraliste, non sottopposte alla corruzione e alle oligarchie. E, al riguardo, spicca nel discorso finale del papa una ulteriore inedita riflessione: quale possa essere il  rapporto tra politica e movimenti. A questi ultimi spetta il compito essenziale di impedire la formalizzazione di regole di esclusione per imporre invece con il conflitto democratico e non violento regole di dignità a carattere universale. E l’impegno a rimettere in gioco un rapporto vivo tra popolo e democrazia, attualmente soggetto ad “un divario che è imposto dall’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che stanno dominando”. Un invito autorevolissimo a non fermarsi alle pratiche sociali, ma a mettere in discussione la politica economica e l’ampiezza della democrazia realizzata, che la politica tout court tende a restringere irreversibilmente.

 Dai rapporti interpersonali, così vivi nella tradizione cattolica sociale, alle “macrorelazioni”: questo sembra essere l’insistente invito del papa argentino. E, dato che una democrazia che non escluda il popolo nella sua lotta quotidiana per la costruzione del suo destino è tra i punti focali di questa fase della storia mondiale, benvenuto ad un leader religioso di questo spessore e alla convergenza di culture di diversa provenienza su questi obiettivi!

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 2.      LA VITTORIA DI TRUMP DALLE DUE SPONDE ATLANTICHE

IL PAESAGGIO CHE CELAVA IL SUCCESSO DI TRUMP

Avendo seguito direttamente alcuni eventi della campagna elettorale nel Maryland e a Washington prima della nomina di Trump e Hillary a sfidanti finali ed essendo in continua comunicazione con un figlio che vive e lavora sulla costa atlantica in un ambiente multiculturale e aperto alle relazioni, ho più volte esorcizzato “razionalmente” le paure e i nessi che mi colpivano osservando gli operai neri e bianchi con in mano i più sguaiati tabloid filo-trump o l’esibizione di enormi pannelli sui grattacieli e alberghi in restauro di proprietà del tycoon con le sequenze “DAVID” e “TRUMP” su sfondi a stelle e strisce, o ancora i supermercati alimentari con i bancali vicino alle casse riempiti di Winchester, proiettili e perfino granate. Ho pensato a quelle vicende degli States che gli ambienti progressisti amano dissimulare come un po’ grotteschi e curiosamente residuali, così come a loro risultano invisibili gli innumerevoli homeless, disoccupati o veterani che incocci agli incroci di entrata alle città, sfuggiti al presidio della polizia forse perché innalzano le stesse strazianti e impotenti scritte su cartone degli zingari e degli sciancati che incontri a Milano. Esempi ed episodi che ho fotografato con lo spirito di cogliere anomalie o stranezze, eccentriche increspature in tessuti urbani, paesaggi e società, che facilmente si “redimono” a fronte di un consumismo esibito come opulenza diffusa, di  quasi tutte le abitazioni impreziosite di particolari e cure sulle facciate e di alberi piantumati lungo i viali, di ogni spettacolo di tecnologia sofisticata e costosa che accompagna la pratica generalizzata degli sport anche più essenziali praticati da “amateur”. Fissate dall’obiettivo e nella memoria mentre tutto appare in moto – “in trasporto” dentro una cornice di “operosità condivisa” – sotto osservazione, in qualsiasi comunità ti trovi, dei fregi solenni delle istituzioni riempite di telecamere e ammonito dalla retorica dei monumenti antirazzisti come dei conquistatori, o, infine, rassicurato dall’antimilitarismo delle canzoni di Bruce Springsteen, gridato negli stadi per tournè di 140 giorni l’anno ed osannato dagli studenti dei campus o dai trecentomila assiepati sull’erba del Mall nel “Veterans day” di Novembre. Insomma, nessun Trump alla vista, mentre il libro di Spannaus “Perché vince Trump” stampato da Mimesis e andato nelle librerie ad inizio 2016 raggiungeva a stento le 400 copie vendute.

Dopo il risultato a favore di Trump, ho preso atto che spesso in politica c’è un’eterogenesi dei fini. Per calcoli sbagliati, o incauti, o per la distanza creatasi tra la vita degli opinionisti e la società reale o perfino per un’insufficiente etica pubblica, si può aprire la strada a esiti non voluti. Negli Usa i democratici anche più convinti non hanno fatto ricorso ad un principio di precauzione, che avrebbe svelato loro che cosa succede quando a governare sono le banche e il denaro e il popolo che vota cerca un’altra offerta politica. Quei soggetti che osservavo come marginali, vanno invece considerati con diversa attenzione e messi sotto la lente dei processi democratici nella società in cui tempo e spazio sono stati stravolti dalla quasi simultaneità della informazione, che mentre mostra a chiunque le due facce della medaglia prodotta dall’ineguaglianza, svela anche che la riduzione di rappresentanza democratica trasferita ai soloni dei  talk show (sempre gli stessi per giorni e giorni!) e umiliata dal pettegolezzo sulla moralità privata dei candidati (sempre a cura della stessa columnist sulla seconda pagina del quotidiano di prestigio politically correct) costringe le alternative a configurarsi comunque solo nei programmi strillati da super-ricchi finanziati dalle lobby.

Sanders ha colto queste sfasature ed ha ripetuto (l’ho ascoltato in uno stadio di hockey stracolmo -  che l’errore di Hillary stava nell’essere “contro e non per” e di sparare ripetutamente su Trump per gli scandali sessuali, invece di sottolineare e semmai contestare le sue proposte in favore dei settori popolari che lei confondeva con la classe media più stereotipata. Insomma, la rimproverava di “essere dichiaratamente e fisiologicamente donna, senza però sentire le spinte a rigenerare, ferma sulla difesa di uno status quo indifendibile di cui faceva parte consustanzialmente”.

Purtroppo la personalizzazione del sistema americano tende a minimizzare le analisi socioeconomiche che stanno al fondo anche dei processi di selezione della classe dirigente, ma, essendo invece le appartenze sociali risultate almeno da due presidenziali decisive, qui insisteremo soprattutto su di esse. La Clinton, possiamo dirlo con il senno del poi, era la peggior candidata che i democratici USA avrebbero potuto scegliere: complice di Wall Street, incapace di parlare all'America ferita da speculazione, deindustrializzazione e delocalizzazione: quella che nonostante i "buoni risultati" dell'economia americana si trova sempre più impoverita (ormai è chiaro che sarebbe stato meglio Sanders al suo posto). Le élites anche in Europa dovranno pur fare una riflessione sul disagio e la disaffezione che provocano queste economie che vedono il PIL crescere, i bilanci pubblici andare in pareggio, ma in cui la gente si trova sempre più indebitata quando non precarizzata e disoccupata.

 PARTITI TRADIZIONALI E CRISI DI SISTEMA

Noi che proviamo a commentare con un po’ di presunzione i fatti, frequentiamo prevalentemente e costantemente i nostri amici: la società è ormai fatta da circoli concentrici ma paralleli. Crediamo spesso che l’osservazione di un professore universitario abbia più valore di quella di un disoccupato. Quindi, non abbiamo una visione completa della società in cui viviamo.

 Pur non tenendo conto degli esempi referendari (Inghilterra, Italia e Austria – le due ultime in corso mentre scrivo), siamo di fronte da tempo dalla fuoriuscita del consenso dai partiti tradizionali. Ma il voto americano vi inserisce un segno in più: la vittoria di Trump è la prima affermazione di un movimento antisistema che porta un suo leader direttamente al vertice, istituzionalizzando nel punto più alto del sistema un rifiuto che le classi dirigenti hanno sempre ridicolizzato. Ben oltre la vicenda di Berlusconi, visto che a quel tempo la base elettorale prevalente era riconducibile ad uno schieramento conservatore tutto sommato tradizionale.

Michael Moore afferma che i democratici hanno “vissuto in una bolla e non hanno fatto attenzione ai loro fratelli americani più disperati”. Non è del tutto così e risulta difficile dimenticarsi che Sanders aveva ottenuto un successo insperato e creato basi e movimenti sociali con una piattaforma in gran parte rispondente ai bisogni dei ceti in seguito attratti da presunte abilità "genetiche" nel condurre il business e rimestare nel torbido della guerra tra poveri, individuando gli immigrati come capro espiatorio. Sarebbe stato interessante assistere ad una sfida finale “socialismo” / “protezionismo” senza l’handicap di una identificazione con partiti che suscitavano entrambi la voglia di vendetta contro il sistema. A mio giudizio i sondaggi che davano a Sanders la vittoria su Trump erano assolutamente veritieri. L’accresciuto livello di diseguaglianza sociale, un lento ma costante declino nella creazione di nuovi lavori, il permanere di bassi livelli medi di reddito delle famiglie, hanno alimentato -come afferma Lucia Annunziata – “sfiducia nella competenza e nell'onestà della classe dirigente, rabbia nei confronti delle banche, disprezzo per l'incestuoso rapporto fra politici, intellettuali, e corporation”. Il profondo scontento del mondo del lavoro e il declino della classe media sono stati riportati dalla rivista “Foreign Affairs” con la mappatura degli stati industriali più esposti alle importazioni cinesi coincidenti con il voto a Trump e con a fianco la notazione esplicativa di una perdita complessiva di 2 milioni di posti di lavoro. Se non sei almeno socialista, meglio allora esporsi al confronto con il protezionismo come ricetta - che non mette in discussione la struttura ingiusta dell'economia e non prende in considerazione una redistribuzione del reddito che aumenti la domanda interna – anziché puntare nettamente sulla parità di salario fra uomini e donne, l’educazione libera da debiti, un aumento del salario minimo e un sistema sanitario che funzioni, come recitava la piattaforma del “socialista”, ma non della super-candidata democratica.

 Ora i problemi travalicheranno le  50 stelle degli stati federali: l'accordo sul clima di Parigi diventerà purtroppo carta straccia; la Nato avrà problemi inediti perché si vuole "garantire sicurezza" esclusivamente a chi paga di più in bilanci militari, gli accordi internazionali di commercio saranno risolti negli studi legali privati delle multinazionali.

L’analisi della componente sociale del voto e il pericolo di una scorciatoia attraverso la risposta autarchica riportano paradossalmente al centro della politica proprio il diritto della pace, la cooperazione internazionale e quel mondo del lavoro che in questi anni sono stati variamente sottovalutati se non abbandonati dai partiti tradizionali: in questo l’America scegliendo Donald ha ampiamente rigettato Hillary, con un messaggio dagli effetti non dissimili da quello di chi voterà NO alla riforma costituzionale renziana.

Piaccia o no, occorre tener conto che sia Sanders che Trump - quest’ultimo con più strumentalità e contraddizioni - hanno proposto una piattaforma contro la crisi dal basso, mentre la Clinton lo ha fatto molto meno. E non si liquida questo errore imperdonabile e infausto rinfacciando ai rivali di cedere all’andar di moda del populismo.

L’ESTABLISHMENT GLOBALE E I CONTI CON LA DEMOCRAZIA

Occorre ormai prendere atto che l’eccellenza vissuta come perno della competitività gode di privilegi autoreferenziali e crea esclusione. Quello che si definisce establishment è un insieme di circoli politici tra loro compenetrati – compresi giornalisti, letterati, uomini di scienza, imprenditori – e formati nel sistema dell’eccellenza. Perfino Hawkings – mito culturale estraneo al potere politico - scrive, a proposito della sorpresa di Trump, di aver trascorso la sua vita nella tentazione di vedersi come un apogeo. Il popolarissimo astrofisico ammette di far pertanto parte di quelle élite che recentemente, in America e in Gran Bretagna, sono oggetto di un inequivocabile rigetto. “Tutti sembrano d’accordo – afferma a proposito delle recenti fasi elettorali - nel dire che è stato il momento in cui i dimenticati hanno parlato, trovando la voce per rigettare il consiglio e la guida degli esperti e delle élite di ogni latitudine”.
Eppure, la prima reazione delle élite è stata semplicemente di rigettare i risultati del voto popolare, liquidandoli come sfoghi di un populismo grossolano che non tiene in considerazione i fatti, cercando così di aggirare o circoscrivere le scelte che rappresentano. (Ci sono correnti di pensiero talmente “revisioniste” da arrivare addirittura a indicare possibili limitazioni al suffragio universale assegnando pesi predefiniti ai singoli voti!). Invece, le inquietudini che sono alla base di questi risultati elettorali e che concernono le conseguenze economiche della globalizzazione e dell’accelerazione del progresso tecnologico sono assolutamente comprensibili. L’automatizzazione delle fabbriche ha già decimato l’occupazione nell’industria tradizionale e l’ascesa dell’intelligenza artificiale probabilmente allargherà questa distruzione di posti di lavoro anche alle classi medie, lasciando in vita solo i lavori di assistenza personale, i ruoli più creativi o le mansioni di supervisione. Internet - e le piattaforme che rende possibili - consentono a gruppi molto ristretti di persone di ricavare profitti enormi con un numero di dipendenti ridottissimo. Mai come ora il progresso viene temuto come socialmente distruttivo. (Ne parlo ampiamente nel libro in uscita a Gennaio 2017: “Il mondo al tempo dei quanti” ed. Mimesis).
Non c’è da stupirsi che le popolazioni cerchino un nuovo sistema, e Trump e la Brexit possono dare l’impressione illusoria di offrirlo. Per i giovani, in particolare, è impossibile non tener conto che l’establishment della globalizzazione non affronta le spaventose sfide prossime future: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare, il sovrappopolamento, la decimazione di altre specie, le epidemie, l’acidificazione degli oceani. Così non c’è da stupirsi se si viene a creare ormai una differenziazione interna al voto popolare tra giovani e generazioni mature. I più anziani si sentono spesso tutelati dall’estendersi del presente al loro “corto” futuro, mentre alle nuove generazioni non interessa una redistribuzione del potere tutto interno alle classi dirigenti, che bucano le promesse di ogni tornata elettorale. Vanno altrove, dove non c’è odore di establishment, senza tener conto dei confini di destra e sinistra. La teoria del “meno peggio”, che ha tenuto banco anche da noi nell’Europa “sociale per antonomasia”, ormai non regge più.

 E la caduta di consenso verso il potere si esplica tanto a destra come a sinistra e negli Stati Uniti ha condizionato certamente su entrambi i lati la campagna elettorale L’ondata di protesta iniziata nel 2009 per ragioni anzitutto economiche ha visto prima nel movimento dei Tea Party e poi di Occupy Wall Street la sua massima espressione organizzata. Una protesta, questa, venata da populismo che ha progressivamente penetrato partiti e istituzioni. Il rapporto di fiducia tra elettorato e classe dirigente si è così incrinato che una nuova polarizzazione della vita politica statunitense è diventata lo specchio di una crisi ben più profonda, che attraversa trasversalmente il paese e si propaga nel mondo. Oltretutto è difficile continuare a ragionare attorno all’establishment come qualcosa di omogeneo e tutto occidentale. Il vecchio sistema transatlantico deve ormai competere con la crescita di un nuovo paradigma, quello della Nuova Via della Seta, basato sulla mobilitazione politica “win-win” (mutuo sviluppo) del Presidente cinese Xi Jinping, che gode del sostegno del Presidente Putin in Russia, del favore della Malesia, di buona attenzione dei Paesi Baltici e perfino della Germania e punta a ridurre l’egemonia di Wall Street e della City di Londra. Se solo se ne tiene minimamente conto, risulta più doveroso per i governi rifare i bilanci in casa propria, non scommettere solo sull’egemonia militare, cercare di governare la spinta transnazionale della finanza. Trump e Sanders se ne sono accorti assai prima della Clinton – come detto, per strade diverse e con strumentalità e sincerità opposte - e nelle loro campagne si sono smarcati con diversa intensità dall’ombra del mondo delle banche e delle armi. E’ verificabile come il pacifismo di Bernie sottostava ad un’idea geopolitica di fondo più vicina ad Obama di quanto lo fosse quella di Hillary. E non deve sorprendere se Trump oggi soprassiede all’accordo TPP, lasciando fette di mercato asiatico alla Cina, ma affermando per questa via di recuperare produzione in patria.

UN ESAME DEI DATI ELETTORALI: LE FRATTURE

Mentre le borse hanno ripreso a salire smentendo le previsioni di panico, è il caso di sviluppare un’analisi coerente sui dati. Hillary Clinton con 59.646.983 voti rispetto ai 59.436.948 di Trump ottiene la maggioranza dei voti popolari, raccolti prevalentemente nei grandi centri. L’astensione ha colpito in particolare il campo democratico. Si rifletta sul dato di Obama nel 2008 (69.498.516 voti): ciò significa che complessivamente in 8 anni i democratici hanno subito un salasso di 9.699.538 voti, anche se si deve affermare che un punto di caduta del tracollo democratico si era già avuto tra la prima e la seconda elezione di Obama. Al contrario, i repubblicani nelle ultime tre tornate elettorali si sono limitati a variazioni molto parziali rispetto al loro normale plafond.

Dal crollo della Clinton, dalle astensioni e dalla tenuta di Trump rispetto ai livelli repubblicani consolidati si può partire per capire quanto riprendano il loro posto le fratture “principali” che frettolosamente erano state considerate obsolete nella società americana. Genere e lavoro sembrano aver avuto più influenza del volgare approccio alla pancia con l’allestimento del muro al confine americano e gli insulti razzisti.

Cominciamo col rilevare che dopo dichiarazioni e manifestazioni di tutte le organizzazioni femminili del mondo artistico, economico e culturale, il 53% delle donne americane ha votato Trump: si tratta di un duro colpo per tutta la società civile, e per coloro che più vi si impegnano. Una sorpresa solo se si continua a pensare esclusivamente all’elettorato che risiede nelle città.

Sorpresa anche per il lavoro, non solo “bianco”, come da noi si ripete per sommi capi, dato che è materia difficile da esaminare dal di fuori (chi parla più con lavoratrici e lavoratori se non i borsisti e i ricercatori universitari?). Il lavoro – edile in particolare – è visibilissimo nelle metropoli statunitensi. A qualsiasi ora e in qualsiasi giorno: 24 ore su sette giorni come per i grandi magazzini, le consegne, i trasporti su camion senza limitazioni stradali alle loro corse nemmeno nei weekend. La manodopera dei centri commerciali è concentrata in grandi aggregati nei sobborghi, immancabilmente “in divisa”, legata alle catene di appartenenza da contratti, orari e ritmi che contemplano una fedeltà totale all’impresa e una “complicità” con la clientela che integra a discrezione a seconda della dedizione le loro remunerazioni. Più difficile è invece percepire sul territorio il lavoro manifatturiero e della grande industria, confinato quest’ultimo in periferie urbane mal servite, lontane molte miglia dalla vita dei centri. Le ex aree produttive interne alle metropoli sono ormai tutte ridestinate a abitazioni di lusso o a locali sfavillanti per il commercio di grandi marchi, non solo di abbigliamento e arredamento, ma di sport, elettronica specializzata, cura del benessere del corpo. Cresce, ma si vede poco, la diffusione delle medie e piccole imprese manifatturiere, per molti dei nuovi settori spezzettate nelle aree riconvertite delle ex centrali, dei macelli, dei mercati e servizi pubblici, contigue alle università, ma non integrate nei loro servizi e separate nella loro composizione intellettuale (quasi tutta bianca) da quella manuale (nera e in parte minore bianca e ispanica). Se si pensa ad un settore in declino, uno dei gruppi di sostenitori che ha contribuito a determinare la vittoria di Trump è stato quello dei minatori. Nonostante gli Stati interessati dalle attività minerarie siano a tradizione democratica e nonostante la storica vicinanza tra il sindacato dei minatori e il partito democratico, nel corso della campagna presidenziale l'appoggio della categoria si è massicciamente spostato verso il magnate repubblicano, sostenitore ad oltranza del carbone e degli incentivi alle materie prime di provenienza nazionale.

Il Partito democratico e Hillary Clinton non sono sembrati in alcun modo interessati a rivolgersi a questa fetta salariata della popolazione statunitense, già di per sé disarticolata temporalmente e spazialmente e poco rappresentata organizzativamente. Il partito democratico ha smesso da molto tempo di considerare i lavoratori la propria base elettorale e ha contribuito a rendere più deboli e subalterne le loro organizzazioni. Sulla scorta di un’inchiesta condotta dal sindacato Afl-Cio - e commentata da Portelli sul Manifesto - tra alcune migliaia di lavoratori bianchi della zona di Cleveland e Pittsburgh, spesso ex elettori democratici, emerge come le priorità per chi si diceva pronto a votare per Trump siano riassunti dalla promessa di «buoni» posti di lavoro, identificati con quelli che le imprese locali avevano portato all’estero. C’è tra lavoratrici e lavoratori un risentimento per la valorizzazione esclusiva dell’industria del sapere, la new economy e il libero scambio. (Ho partecipato di persona a manifestazioni contro la firma del TTIP con operai in tuta e casco). Gli intervistati evocano debolmente, anche dove forti sono le comunità evangeliche battiste e metodiste, una serie di temi come la difesa della famiglia tradizionale, la lotta all’aborto, i «valori religiosi» che nei commenti di prima mano hanno assunto peso elevato, forse per le provocazioni che il candidato presidente lanciava a bella posta per platee diverse da quelle istruite ad un minimo di pratica solidale . Non c’è quasi traccia di razzismo o demonizzazione per l’immigrazione. Oggi possiamo capire meglio  perché i sondaggi mostravano che almeno una parte degli elettori di Trump sarebbe stata disponibile a votare per Sanders, che ha avuto comunque 10 milioni di voti e che, se non altro, dava l’impressione di parlare anche a loro e gli diceva cose molto diverse da Trump, ma più vicine alla storia delle loro famiglie e dei loro miti (Ho ascoltato le chiusure dei comizi al canto di canzoni popolari del lavoro).

DOVE SI DIRIGE TRUMP PRESIDENTE?

L’abilità con cui è stata condotta la campagna elettorale e la “riconversione” post elezioni non devono illudere: non lasceranno posto - a mio giudizio -  ad una presidenza meno che reazionaria. Adesso ci si chiede meccanicamente se Trump farà davvero un muro con il Messico, se porterà l'America a un nuovo accordo con la Russia di Putin; se allenterà il suo rapporto con gli europei e proporrà una diminuzione di ruolo degli Usa nella Nato.  Credo che, al di là delle esternazioni roboanti, debba preoccupare una quasi certezza: ripiegherà sulla sua visione autarchica della economia americana ritornando a un severo protezionismo, al consolidamento dell’apparato industrial-militare e al rilancio della produzione “sporca”, per rinnovare profitti, soprusi e illegalità delle multinazionali e per giustificare con una “great America” da guerra civile il suo vigore antisindacale e il disprezzo per i diritti civili, sociali e ambientali. Continuerà a sostenere posizioni istintive, che possano sedurre i ceti sociali più indifesi, come quando definisce il cambiamento climatico un concetto «creato da e per i cinesi, al fine di rendere il settore manifatturiero statunitense meno competitivo» o come quando contro l’arroganza di Wall Street, propone di aumentare in modo significativo le tasse sui mediatori di hedge fund che guadagnano fortune alla velocità della luce sull’opera delle mani dei sottopagati, tremendamente lente al confronto.

L’irruzione del miliardario Donald Trump alla Casa Bianca costituirà, temo, una rivoluzione elettorale che nessun analista legato alla bicefalia tra democratici e repubblicani ha saputo prevedere. Bisogna precisare che il messaggio di Trump per quel che ne hocapito leggendo news e ascoltando la TV, non è similare a quello di un partito neofascista europeo. Non si tratta di un’estrema destra convenzionale. Lui stesso si definisce in una intervista al Wall Street Journal come un «conservatore dal senso comune» e la sua posizione nella gamma della politica, si colloca alla destra della destra. Come scrive Raimonet “non censura il modello politico in sé, ai cui vertici ha puntato, ma i politici che lo stanno guidando, inondandoli di accuse spregevoli”.

Allo stato attuale delle nomine del suo governo possiamo già trarre bilanci sulla dislocazione di censo e di classe e sulla direzione di marcia: sta formando un governo di paperoni. che si profila come il più ricco della storia moderna americana. La squadra di Bush nel 2001- la più ricca della storia finora - vantava un patrimonio complessivo stimato in circa 250 milioni di dollari, pari ad appena un decimo della ricchezza del solo Wilbur Ross, detto “il re della bancarotta”, il ministro del Commercio scelto da Trump e che, secondo Forbes, ha un patrimonio di 2,5 miliardi di dollari. Todd Ricketts, il vice designato di Ross al Commercio è figlio di un miliardario ed è comproprietario dei “Chicago Cubs", mentre Steven Mnuchin che Trump ha nominato per guidare il dipartimento del Tesoro, è un ex manager di Goldman Sachs, executive di un fondo speculativo e finanziatore di Hollywood. Miliardaria anche Betsy DeVos, nota per aver introdotto sostanziosi buoni scuola a sostegno delle scuole private, selezionata come futuro ministro dell'Istruzione: la ricchezza della sua famiglia ammonta a 1,5 miliardi di dollari, mentre Elaine Chao, prossimo ministro dei Trasporti, è la figlia di un maggiorente delle spedizioni marittime. Harold Hamm, papabile ministro dell'Energia, è un magnate del petrolio che si è fatto da solo e che figura al 30esimo posto nella classifica di Forbes sui 400 uomini piu' ricchi d'America. Rex Tillerson, ceo del gigante energetico Exxon, che diventerà segretario al Dipartimento di Stato è il manager più pagato e avrà una super liquidazione da capogiro. Se si stima che la ricchezza del presidente eletto Donald Trump si valuta sui 3,7 miliardi di dollari, si può calcolare che i patrimoni del governo che entra in carica valgono più del PIL delle ultime 120 nazioni.

E poi ci sono i militari antiObama: James Mattis, segretario alla difesa ex generale dei Marines, guiderà il Pentagono. Mattis è sempre stato critico nei confronti dell’amministrazione precedente, in particolare riguardo all’accordo sul nucleare con l’Iran; Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale, con alle spalle la guida della Nato in Afghanistan e Iraq, era in profondo dissenso con l’ex presidente che lo rimosse dalla DIA.
Ci sono infine quattro casi clamorosi, oserei dire spudorati: le prime due riguardano la nomina di Jeff Sessions a ministro della giustizia: in passato Sessions ha mostrato simpatie per il Ku Klux Klan e ha sminuito colleghi di colore e quella di Tom Price, ministro della salute, nominato principalmente per via della sua forte opposizione all’Affordable Care Act (Aca), la riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. Ma le più provocatorie tra le designazioni sono state catapultate al lavoro e all’ambiente.
Al Lavoro viene indicato l’imprenditore dei fast food anti-sindacato, Andy Puzder,  un magnate degli hamburger, amministratore delle catene di fast food Hardee’s e Carl’s Jr, noto per le battaglie contro i contributi sanitari e l’aumento del minimo sindacale. Il prossimo ministro del Lavoro ha recentemente parlato dei vantaggi di una catena di ristoro interamente automatizzata poiché i robot «sono sempre cortesi, non vanno mai in vacanza, non arrivano in ritardo, non si fanno male e non intentano cause per discriminazione». Si delinea quindi un progetto economico basato su deregulation, demolizione dello Stato sociale, e smantellamento delle garanzie sul lavoro, sgravi alle imprese e finanziarizzazione, ancora più duro di quello che dopo otto anni di Bush portò alla bolla subprime. Infine, all’Ambiente, a capo dell’Environmental Protection Agency (EPA) è andato Scott Pruitt, avvocato delle compagnie petrolifere contro le norme ambientali, protettore del petrolio e negazionista. Pruitt è stato anche attivo in gruppi religiosi con il ruolo di diacono della Prima Chiesa Battista di Broken Arrow ed è stato procuratore generale dell’Oklahoma, al quinto posto nella produzione di petrolio greggio, con cinque raffinerie di petrolio, e ospitante di Cushing, il gigante di stoccaggio di petrolio da fracking. Questo dipendente pubblico ha unito una coalizione di procuratori generali per citare in giudizio il Clean Power ACT dell'EPA, l’atto principale di Obama per la riduzione delle emissioni di gas serra degli Stati Uniti.  Ha anche difeso la ExxonMobil del su amico Tillerson per non aver rivelato informazioni rilevanti sui cambiamenti climatici. I gruppi ambientalisti hanno reagito con allarme. Alla sua nomina gli incentivi per l’utilizzo di etanolo come biocombustibile sono crollati del 7%. E’ chiaro come il neo Presidente intenda rilanciare lo shale oil americano, tenendo conto che in seguito all’accordo da poco raggiunto dall’Opec sul taglio della produzione, il prezzo del petrolio sta aumentando, a vantaggio della ripresa dell’olio da scisto canadese e americano. Ma, in particolare, l’apoggio all’accordo di Parigi per il contenimento dei gas serra e per la sostituzione del carbone con le rinnovabili subirà una dura battuta d’arresto.

QUALCHE CONSIDERAZIONE SUL “NEW NORMAL” E IL SUO FUTURO

Nel 1980, l’inaspettata vittoria di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti fece entrare l’intero pianeta in un ciclo di quarant’anni di neoliberismo e di globalizzazione finanziaria. La vittoria di oggi di Donald Trump per può farci entrare in un nuovo ciclo geopolitico la cui pericolosa caratteristica ideologica principale – che vediamo sorgere ovunque, in particolare in Francia con Marine Le Pen – è l’autoritarismo identitario. “New Normal” viene definito il ritorno degli Stati Uniti al comando assoluto. Lo stesso vincitore non potrà riscrivere come pretende l’agenda americana e mondiale: essa sarà riscritta anche dai contropoteri e dalle burocrazie USA, oltre che dal nuovo ambiente geopolitico socioeconomico culturale e ambientale mondiale. (si è visto subito con l’incidente Cina-Taiwan, e le reazioni di Marrakesh alla svolta nella politica climatica). La durata di questa svolta culturale è imprevedibile, in assenza di una sinistra organizzata e dentro l’impeto di ottenere soddisfazioni così a lungo represse senza che prendano la forma stabile dei diritti nella loro accezione di universalità. Con gli “Stati Disuniti D’america” sparisce anche quella comunità di aspirazioni e doveri che poteva rendere praticabile e duratura una lotta collettiva a carattere generale. Occorre saper togliere dalle mani dei magnati la categoria del rifiuto – per torcerla in diritto alla giustizia sociale e alla sopravvivenza.

Purtroppo non sembra che nell’America odierna la crisi politica e di democrazia, di società e di prospettive, venga assunta e metabolizzata dalla classe politica al potere. Forse bisogna ripartire con ottimismo dal lascito di Sanders fin che si è in tempo e dalle estese battaglie sul territorio che attraversano come rigagnoli e non come fiumi dall’una all’altra costa. Pessimisticamente vedo un successivo sgretolarsi del sistema, e che la crisi in atto (che non sarà risolta dal populismo e dal nazionalismo) finirà per rendere impossibile governare un necessario cambiamento. Per fare un esempio, la delusione per la cancellazione – politica - dell’accordo di Parigi ottenuta non sotto tortura ma con un’elezione è per me un segnale devastante: non abbiamo più tempo! Nelle grandi democrazie nonostante tutto le decisioni sono ancora preda di una piccola élite economica, il cui interesse non è quello di salvare la specie, ma di massimizzare i loro profitti.

L’Europa potrebbe rendersi conto del baratro in cui essa stessa sta precipitando. Non c'è niente nei nostri paesi di simile al movimento suprematista bianco. Essi ritengono che il movimento femminista abbia portato via il loro ruolo nelle famiglie patriarcali. Il fanatismo per le armi dimostra loro che sono veri uomini, ma uomini isolati: al lavoro, per strada dove stringonouno smartphone, nei pub dove ognuno è seduto davanti ad uno schermo (ne ho contati 26 sulla parete del bancone circolare di un Barcellona Inn con una sola barista). In questo clima non è difficile stimolare le paure e incitare la rabbia e l'odio nei confronti degli immigrati, nei confronti delle altre minoranze e verso il governo. E questa onda, se travalica l’Atlantico, questa volta ci trova assai mal messi.

Con Trump tutti e due i partiti si sono suicidati, ma sarà più facile per i repubblicani fare come se niente fosse successo, agitando la paura della paura che non sta a destra o a sinistra ma in uno spazio politico vuoto.

La situazione è così cruda che questa volta le risposte non staranno solo a Washington. Prepariamoci ad un periodo ancora peggiore, ma spostiamo rapidamente il tiro – tutti e di qualunque area del mondo – da un angoscioso presente senza futuro alla cura per la sopravvivenza della civiltà, della pace, della casa comune. Abbiamo una speranza e una certezza: i nostri nipoti, se ci saranno perché si rivitalizzerà la democrazia, saranno assai meglio di Trump, Hillary, Renzi, Rajoy, Mayer, Schulz, Modi, Putin, Nemer: senz’altro la peggior congenie del dopoguerra.

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