Due
visioni del mondo alla prova
1.
Una valutazione sulle
conclusioni dell’assemblea dei movimenti del 5 Novembre in Vaticano
Chissà
cosa avranno provato le Guardie Svizzere presenti nella grande aula Paolo VI il
5 Novembre quando hanno visto (e udito!) levarsi in piedi centinaia di giovani
di fronte al Papa e al cardinal Tuckson per inneggiare a braccia alzate alla
libertà del Kurdistan! Ma questa era la straordinaria cifra dell’incontro tra
Francesco e i movimenti popolari provenienti da tutto il mondo. Una cifra
attinente alla liberazione, alla giustizia sociale, alla cura della casa comune
che affascina anche un mondo laico di
sinistra orfano di una traccia su cui riconoscersi mentre rincuora allo stesso
tempo i credenti delusi dall’assillo temporale e, perché no, dalla divisione
anacronistica delle loro chiese. Alla fine dell’incontro ho visto abbracciarsi
compagni di viaggio ritrovati, affaticati dalle vacuità di Renzi quanto
dall’esibizione di potere curiale dei vari Bertone, sideralmente lontani
dall’assemblea promossa da Francesco. E, mentre uscivamo ormai col buio, ci
siamo fatti promesse, riconoscendoci pur da diverse provenienze, di riprenderci
o - almeno, per quelli della mia età - di riconsegnare ai più giovani la
mancanza di futuro che soffoca intere platee del mondo, mentre la politica vive
solo l’assillante richiamo al presente di un gioco degli specchi. Un
illusionismo che occupa mille talk show, affanna cento leader mondiali a
presidio dei loro confini nazionali e infiamma solo i dieci direttori di
quotidiani che ad ogni svolta imprevista non sanno pentirsi di esserne stati i
promotori.
Per
la verità, è impressionante come un evento di questa portata non solo sia
sfuggito ai media, ma non sia stato messo al centro di una adeguata
discussione – almeno in Europa e nel nord del pianeta - da parte di quei
movimenti che alla svolta del millennio e a partire dalla pratica dei beni
comuni sembravano poter rappresentare la “seconda potenza mondiale”.
In effetti, per i celebranti dei fasti della globalizzazione, un’assemblea che riunisce le organizzazioni di persone ai margini della società - poveri, disoccupati, senza tetto, sfruttati e inoccupati o che hanno perso la loro terra agricola, "Las Tres T: Trabajo, Techo, Tierra" - è bene che rimanga senza voce e persino senza immagine, anche se trae origine da 92 movimenti popolari provenienti da 65 paesi; anche se è illustrata da presenze come quelle di Pepe Mujica, presidente dell'Uruguay 2010-2015, dell’indiana Vandhana Shiva o del leader dei Sem Terra Pedro Stedile; anche se non esibisce nessun aspetto di marginalità o di supplica caritativa e va diretta al cuore del cambiamento politico economico strutturale necessario alla sopravvivenza della civiltà e della specie umana.
Molti
hanno già commentato con assai più autorevolezza le promesse di questo
incontro: io qui sottolineo solo alcuni aspetti che nella mia esperienza laica
costituiscono motivo di profonda riflessione rispetto ad un messaggio che
oltrepassa la dimensione religiosa.
Nasce
ormai sotto questo papato una forma di autoorganizzazione che respinge la cultura dello scarto e del pensiero unico ed ha le caratteristiche
di incisività che, a mio avviso e senza esagerazioni, doveva avere nel contesto
di formazione della civiltà industriale il manifesto di Marx ed Engels del
1848. Non siamo ormai più alla pur nobilissima dimensione morale: la
commissione “Justitia et pax” – ha detto nella prolusione il cardinale
Tuckson - sarà sostituita da quella per uno “Sviluppo
umano integrale”. A mio giudizio si tratta di una svolta nella storia
della Chiesa, come lo è stata la piena riqualificazione della scienza rispetto
alla fede, accreditata definitivamente nella “Laudato Sì”
all’interpretazione della realtà e del mondo che ci circondano. Si parla
esplicitamente ormai di tirannia del denaro, indissolubilmente legata al sistema
e si dà una forma storica al sistema: “capitalismo”, che anche se non
direttamente nominato è richiamato nella sua contrapposizione insanabile ad una
“forma di vita austera al servizio del prossimo e del bene comune”. E’ così
conseguente l’analisi di Francesco sulla “frusta della paura, della violenza
economica sociale e militare” da ammettere che un sistema come quello che
predomina nelle sue aberrazioni genera terrorismo perché è
terrorista.
Mi
ha poi colpito l’intuizione più volta espressa che "nessuna tirannia
potrebbe essere sostenuta senza sfruttare le nostre paure”, alimentate e
manipolate”. Come negare che la paura -
oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte – ci
indebolisce e ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e
spirituali, ci intorpidisce di fronte alla povertà e, alla fine, ci rende politicamente crudeli?
Dovremmo
darci pena non per cercare posti di lavoro,
ma per crearne, tenendo conto che se si parla di lavoro, il tetto, la terra, la
democrazia stanno incollati l’uno all’altro. Come afferma João Pedro
Stedile "abbiamo un capitalismo che esprime l'arretratezza, lo sfruttamento
e l'espulsione appropriandosi della natura e negando diritti universali, al
punto che il sistema democratico borghese della rivoluzione francese non
funziona più”.
Abbiamo una identità che non può
dissociarsi dalla natura in cui la vita ha preso corpo e in cui la rigenerazione
segue percorsi, relazioni e tempi ormai in conflitto con l’impiego di velocità
e tecnologie tanto innaturali quanto discriminanti sul piano ambientale e
sociale. Anche la politica è qualcosa di vivente ,perchè dalla nostra vita
emerge la necessità di articolare
la nostra domanda di futuro su basi partecipative e pluraliste, non sottopposte
alla corruzione e alle oligarchie. E, al riguardo, spicca nel discorso finale
del papa una ulteriore inedita riflessione: quale possa essere il
rapporto tra politica e movimenti. A
questi ultimi spetta il compito essenziale di impedire la formalizzazione di
regole di esclusione per imporre invece con il conflitto democratico e non
violento regole di dignità a carattere universale. E l’impegno a rimettere in
gioco un rapporto vivo tra popolo e democrazia, attualmente soggetto ad “un
divario che è imposto dall’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che
stanno dominando”. Un invito autorevolissimo a non fermarsi alle pratiche
sociali, ma a mettere in discussione la politica economica e l’ampiezza della
democrazia realizzata, che la politica tout court tende a restringere
irreversibilmente.
Dai
rapporti interpersonali, così vivi nella tradizione cattolica sociale, alle
“macrorelazioni”: questo sembra essere l’insistente invito del papa
argentino. E, dato che una democrazia che non escluda il popolo nella sua lotta
quotidiana per la costruzione del suo destino è tra i punti focali di questa
fase della storia mondiale, benvenuto ad un leader religioso di questo spessore
e alla convergenza di culture di diversa provenienza su questi obiettivi!
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2.
LA VITTORIA DI TRUMP DALLE DUE SPONDE ATLANTICHE
IL
PAESAGGIO CHE CELAVA IL SUCCESSO DI TRUMP
Avendo
seguito direttamente alcuni eventi della campagna elettorale nel Maryland e a
Washington prima della nomina di Trump e Hillary a sfidanti finali ed essendo in
continua comunicazione con un figlio che vive e lavora sulla costa atlantica in
un ambiente multiculturale e aperto alle relazioni, ho più volte esorcizzato
“razionalmente” le paure e i nessi che mi colpivano osservando gli operai
neri e bianchi con in mano i più sguaiati tabloid filo-trump o l’esibizione
di enormi pannelli sui grattacieli e alberghi in restauro di proprietà del
tycoon con le sequenze “DAVID” e “TRUMP” su sfondi a stelle e strisce, o
ancora i supermercati alimentari con i bancali vicino alle casse riempiti di
Winchester, proiettili e perfino granate. Ho pensato a quelle vicende degli
States che gli ambienti progressisti amano dissimulare come un po’ grotteschi
e curiosamente residuali, così come a loro risultano invisibili gli
innumerevoli homeless, disoccupati o veterani che incocci agli incroci di
entrata alle città, sfuggiti al presidio della polizia forse perché innalzano
le stesse strazianti e impotenti scritte su cartone degli zingari e degli
sciancati che incontri a Milano. Esempi ed episodi che ho fotografato con lo
spirito di cogliere anomalie o stranezze, eccentriche increspature in tessuti
urbani, paesaggi e società, che facilmente si “redimono” a fronte di un
consumismo esibito come opulenza diffusa, di
quasi tutte le abitazioni impreziosite di particolari e cure sulle
facciate e di alberi piantumati lungo i viali, di ogni spettacolo di tecnologia
sofisticata e costosa che accompagna la pratica generalizzata degli sport anche
più essenziali praticati da “amateur”. Fissate dall’obiettivo e nella
memoria mentre tutto appare in moto – “in trasporto” dentro una cornice di
“operosità condivisa” – sotto osservazione, in qualsiasi comunità ti
trovi, dei fregi solenni delle istituzioni riempite di telecamere e ammonito
dalla retorica dei monumenti antirazzisti come dei conquistatori, o, infine,
rassicurato dall’antimilitarismo delle canzoni di Bruce Springsteen, gridato
negli stadi per tournè di 140 giorni l’anno ed osannato dagli studenti dei
campus o dai trecentomila assiepati sull’erba del Mall nel “Veterans day”
di Novembre. Insomma, nessun Trump alla vista, mentre il libro di Spannaus
“Perché vince Trump” stampato da Mimesis e andato nelle librerie ad inizio
2016 raggiungeva a stento le 400 copie vendute.
Dopo
il risultato a favore di Trump, ho preso atto che spesso in
politica c’è un’eterogenesi dei fini. Per calcoli sbagliati, o incauti,
o per la distanza creatasi tra la vita degli opinionisti e la società reale o
perfino per un’insufficiente etica pubblica, si può aprire la strada a esiti
non voluti. Negli Usa i democratici anche più convinti non hanno fatto ricorso
ad un principio di precauzione, che avrebbe svelato loro che cosa succede quando
a governare sono le banche e il denaro e il popolo che vota cerca un’altra
offerta politica. Quei soggetti che osservavo come marginali, vanno invece
considerati con diversa attenzione e messi sotto la lente dei processi
democratici nella società in cui tempo e spazio sono stati stravolti dalla
quasi simultaneità della informazione, che mentre mostra a chiunque le due
facce della medaglia prodotta dall’ineguaglianza, svela anche che la riduzione
di rappresentanza democratica trasferita ai soloni dei
talk show (sempre gli stessi per giorni e giorni!) e umiliata dal
pettegolezzo sulla moralità privata dei candidati (sempre a cura della stessa
columnist sulla seconda pagina del quotidiano di prestigio politically correct)
costringe le alternative a configurarsi comunque solo nei programmi strillati da
super-ricchi finanziati dalle lobby.
Sanders
ha colto queste sfasature ed ha ripetuto (l’ho ascoltato in uno stadio
di hockey stracolmo - che
l’errore di Hillary stava nell’essere “contro e non per” e di sparare
ripetutamente su Trump per gli scandali sessuali, invece di sottolineare e
semmai contestare le sue proposte in favore dei settori popolari che lei
confondeva con la classe media più stereotipata. Insomma, la rimproverava di
“essere dichiaratamente e fisiologicamente donna, senza però sentire le
spinte a rigenerare, ferma sulla difesa di uno status quo indifendibile di cui
faceva parte consustanzialmente”.
Purtroppo
la personalizzazione del sistema americano tende a minimizzare le analisi
socioeconomiche che stanno al fondo anche dei processi di selezione della classe
dirigente, ma, essendo invece le appartenze sociali risultate almeno da due
presidenziali decisive, qui insisteremo soprattutto su di esse. La Clinton,
possiamo dirlo con il senno del poi, era la peggior candidata che i democratici
USA avrebbero potuto scegliere: complice di Wall Street, incapace di parlare
all'America ferita da speculazione, deindustrializzazione e delocalizzazione:
quella che nonostante i "buoni risultati" dell'economia americana si
trova sempre più impoverita (ormai è chiaro che sarebbe stato meglio Sanders
al suo posto). Le élites anche in Europa dovranno pur fare una riflessione sul
disagio e la disaffezione che provocano queste economie che vedono il PIL
crescere, i bilanci pubblici andare in pareggio, ma in cui la gente si trova
sempre più indebitata quando non precarizzata e disoccupata.
PARTITI
TRADIZIONALI E CRISI DI SISTEMA
Noi
che proviamo a commentare con un po’ di presunzione i fatti, frequentiamo
prevalentemente e costantemente i nostri amici: la società è ormai fatta da
circoli concentrici ma paralleli. Crediamo spesso che l’osservazione di un
professore universitario abbia più valore di quella di un disoccupato. Quindi,
non abbiamo una visione completa della società in cui viviamo.
Pur
non tenendo conto degli esempi referendari (Inghilterra, Italia e Austria – le
due ultime in corso mentre scrivo), siamo di fronte da tempo dalla fuoriuscita
del consenso dai partiti tradizionali. Ma il voto americano vi inserisce un
segno in più: la vittoria di Trump è la prima affermazione di un movimento
antisistema che porta un suo leader direttamente al vertice,
istituzionalizzando nel punto più alto del sistema un rifiuto che le classi
dirigenti hanno sempre ridicolizzato. Ben oltre la vicenda di Berlusconi, visto
che a quel tempo la base elettorale prevalente
era riconducibile ad uno schieramento conservatore tutto sommato
tradizionale.
Michael
Moore afferma che i democratici hanno “vissuto in una bolla e non hanno fatto
attenzione ai loro fratelli americani più disperati”. Non è del tutto così
e risulta difficile dimenticarsi che Sanders aveva ottenuto un successo
insperato e creato basi e movimenti sociali con una piattaforma in gran parte
rispondente ai bisogni dei ceti in seguito attratti da presunte abilità
"genetiche" nel condurre il business e rimestare nel torbido della
guerra tra poveri, individuando gli immigrati come capro espiatorio. Sarebbe
stato interessante assistere ad una sfida finale “socialismo” / “protezionismo” senza l’handicap di una
identificazione con partiti che suscitavano entrambi la voglia di vendetta
contro il sistema. A mio giudizio i sondaggi che davano a Sanders la vittoria su
Trump erano assolutamente veritieri. L’accresciuto livello di diseguaglianza
sociale, un lento ma costante declino nella creazione di nuovi lavori, il
permanere di bassi livelli medi di reddito delle famiglie, hanno alimentato
-come afferma Lucia Annunziata – “sfiducia nella competenza e nell'onestà
della classe dirigente, rabbia nei confronti delle banche, disprezzo per
l'incestuoso rapporto fra politici, intellettuali, e corporation”. Il profondo
scontento del mondo del lavoro e il declino della classe media sono stati
riportati dalla rivista “Foreign Affairs” con la mappatura degli stati
industriali più esposti alle importazioni cinesi coincidenti con il voto a
Trump e con a fianco la notazione esplicativa di una perdita complessiva di 2
milioni di posti di lavoro. Se non sei almeno socialista, meglio allora esporsi
al confronto con il protezionismo come ricetta - che non mette in discussione la
struttura ingiusta dell'economia e non prende in considerazione una
redistribuzione del reddito che aumenti la domanda interna – anziché puntare
nettamente sulla parità di salario fra uomini e donne, l’educazione libera da
debiti, un aumento del salario minimo e un sistema sanitario che funzioni, come
recitava la piattaforma del “socialista”, ma non della super-candidata
democratica.
Ora
i problemi travalicheranno le 50
stelle degli stati federali: l'accordo sul clima di Parigi diventerà purtroppo
carta straccia; la Nato avrà problemi inediti perché si vuole "garantire
sicurezza" esclusivamente a chi paga di più in bilanci militari, gli
accordi internazionali di commercio saranno risolti negli studi legali privati
delle multinazionali.
L’analisi
della componente sociale del voto e il pericolo di una scorciatoia attraverso la
risposta autarchica riportano paradossalmente al centro della politica proprio
il diritto della pace, la cooperazione internazionale e quel mondo del lavoro
che in questi anni sono stati variamente sottovalutati se non abbandonati dai
partiti tradizionali: in questo l’America scegliendo Donald ha ampiamente
rigettato Hillary, con un messaggio dagli effetti non dissimili da quello di chi
voterà NO alla riforma costituzionale renziana.
Piaccia
o no, occorre tener conto che sia Sanders che Trump - quest’ultimo con più
strumentalità e contraddizioni - hanno proposto una piattaforma contro la crisi
dal basso, mentre la Clinton lo ha fatto molto meno. E non si liquida questo
errore imperdonabile e infausto rinfacciando ai rivali di cedere all’andar di
moda del populismo.
L’ESTABLISHMENT
GLOBALE E I CONTI CON LA DEMOCRAZIA
Occorre
ormai prendere atto che l’eccellenza vissuta come perno della competitività
gode di privilegi autoreferenziali e crea esclusione. Quello che si definisce
establishment è un insieme di circoli politici tra loro compenetrati –
compresi giornalisti, letterati, uomini di scienza, imprenditori – e formati
nel sistema dell’eccellenza. Perfino
Hawkings – mito culturale estraneo al potere politico - scrive, a proposito
della sorpresa di Trump, di aver trascorso la sua vita nella tentazione di
vedersi come un apogeo. Il popolarissimo astrofisico ammette di far pertanto
parte di quelle élite che recentemente, in America e in Gran Bretagna, sono
oggetto di un inequivocabile rigetto. “Tutti sembrano d’accordo – afferma
a proposito delle recenti fasi elettorali - nel dire che è stato il momento in
cui i dimenticati hanno parlato, trovando la voce per rigettare il consiglio e
la guida degli esperti e delle élite di ogni latitudine”.
Eppure, la prima reazione delle élite è stata semplicemente di rigettare i
risultati del voto popolare, liquidandoli come sfoghi di un populismo grossolano
che non tiene in considerazione i fatti, cercando così di aggirare o
circoscrivere le scelte che rappresentano. (Ci sono correnti di pensiero
talmente “revisioniste” da arrivare addirittura a indicare possibili
limitazioni al suffragio universale assegnando pesi predefiniti ai singoli
voti!). Invece, le inquietudini che sono alla base di questi risultati
elettorali e che concernono le conseguenze economiche della globalizzazione e
dell’accelerazione del progresso tecnologico sono assolutamente comprensibili.
L’automatizzazione delle fabbriche ha già decimato l’occupazione
nell’industria tradizionale e l’ascesa dell’intelligenza artificiale
probabilmente allargherà questa distruzione di posti di lavoro anche alle
classi medie, lasciando in vita solo i lavori di assistenza personale, i ruoli
più creativi o le mansioni di supervisione. Internet - e le piattaforme che
rende possibili - consentono a gruppi molto ristretti di persone di ricavare
profitti enormi con un numero di dipendenti ridottissimo. Mai come ora il
progresso viene temuto come socialmente distruttivo. (Ne parlo ampiamente nel
libro in uscita a Gennaio 2017: “Il
mondo al tempo dei quanti” ed. Mimesis).
Non c’è da stupirsi che le popolazioni cerchino un nuovo sistema, e Trump e
la Brexit possono dare l’impressione illusoria di offrirlo. Per i giovani, in
particolare, è impossibile non tener conto che l’establishment della
globalizzazione non affronta le spaventose sfide prossime future: i cambiamenti
climatici, la produzione alimentare, il sovrappopolamento, la decimazione di
altre specie, le epidemie, l’acidificazione degli oceani. Così non c’è da
stupirsi se si viene a creare ormai una differenziazione interna al voto
popolare tra giovani e generazioni mature. I più anziani si sentono spesso
tutelati dall’estendersi del presente al loro “corto” futuro, mentre alle
nuove generazioni non interessa una redistribuzione del potere tutto interno
alle classi dirigenti, che bucano le promesse di ogni tornata elettorale. Vanno
altrove, dove non c’è odore di establishment, senza tener conto dei confini
di destra e sinistra. La teoria del “meno peggio”, che ha tenuto banco anche
da noi nell’Europa “sociale per antonomasia”, ormai non regge più.
E
la caduta di consenso verso il potere si esplica tanto a destra come a sinistra
e negli Stati Uniti ha condizionato certamente su entrambi i lati la campagna
elettorale L’ondata di protesta iniziata nel 2009 per ragioni anzitutto
economiche ha visto prima nel movimento dei Tea
Party e poi di Occupy Wall Street la sua massima espressione organizzata.
Una protesta, questa, venata da populismo che ha progressivamente penetrato
partiti e istituzioni. Il rapporto di fiducia tra elettorato e classe dirigente
si è così incrinato che una nuova polarizzazione della vita politica
statunitense è diventata lo specchio di una crisi ben più profonda, che
attraversa trasversalmente il paese e si propaga nel mondo. Oltretutto è
difficile continuare a ragionare attorno all’establishment come qualcosa di
omogeneo e tutto occidentale. Il
vecchio sistema transatlantico
deve ormai competere con la crescita di un
nuovo paradigma, quello della Nuova
Via della Seta,
basato sulla mobilitazione politica
“win-win” (mutuo sviluppo) del Presidente cinese Xi Jinping, che gode del
sostegno del Presidente
Putin in Russia, del favore della
Malesia, di buona attenzione dei Paesi Baltici e perfino della Germania
e punta a ridurre l’egemonia di Wall Street
e della City di Londra.
Se solo se ne tiene minimamente conto, risulta più doveroso per i governi
rifare i bilanci in casa propria, non scommettere solo sull’egemonia militare,
cercare di governare la spinta transnazionale della finanza. Trump e Sanders se
ne sono accorti assai prima della Clinton – come detto, per strade diverse e
con strumentalità e sincerità opposte - e nelle loro campagne si sono smarcati
con diversa intensità dall’ombra del mondo delle banche e delle armi. E’
verificabile come il pacifismo di Bernie sottostava ad un’idea geopolitica di
fondo più vicina ad Obama di quanto lo fosse quella di Hillary. E non deve
sorprendere se Trump oggi soprassiede all’accordo TPP, lasciando fette di
mercato asiatico alla Cina, ma affermando per questa via di recuperare
produzione in patria.
UN
ESAME DEI DATI ELETTORALI: LE FRATTURE
Mentre le borse hanno ripreso a salire smentendo le
previsioni di panico, è il caso di sviluppare un’analisi coerente sui
dati. Hillary
Clinton con 59.646.983 voti rispetto ai 59.436.948 di Trump
ottiene la maggioranza dei voti
popolari, raccolti prevalentemente nei grandi centri. L’astensione ha colpito
in particolare il campo democratico. Si rifletta sul dato di Obama nel 2008 (69.498.516
voti): ciò significa che
complessivamente in
8 anni i democratici hanno subito un salasso di 9.699.538 voti, anche se si deve
affermare che un
punto di caduta del tracollo democratico si era già avuto tra la prima e la
seconda elezione di Obama. Al
contrario, i repubblicani nelle
ultime tre tornate elettorali si sono limitati a variazioni molto
parziali rispetto al loro normale plafond.
Dal
crollo della Clinton, dalle astensioni e dalla tenuta di Trump rispetto ai
livelli repubblicani consolidati si può partire per capire quanto riprendano
il loro posto le fratture “principali” che frettolosamente erano state
considerate obsolete nella società
americana.
Genere e lavoro sembrano aver avuto più influenza del volgare approccio alla
pancia con l’allestimento del muro al confine americano e gli insulti
razzisti.
Cominciamo
col rilevare che dopo dichiarazioni e manifestazioni di tutte le
organizzazioni femminili del mondo artistico, economico e culturale, il 53%
delle donne americane ha votato Trump:
si tratta di un
duro colpo per tutta la società civile, e per coloro che più vi si impegnano. Una sorpresa solo se si continua a pensare esclusivamente
all’elettorato che risiede nelle città.
Sorpresa
anche per il lavoro, non solo
“bianco”, come da noi si ripete per sommi capi, dato che è materia
difficile da esaminare dal di fuori (chi parla più con lavoratrici e lavoratori
se non i borsisti e i ricercatori universitari?). Il lavoro – edile in
particolare – è visibilissimo nelle metropoli statunitensi. A qualsiasi ora e
in qualsiasi giorno: 24 ore su sette giorni come per i grandi magazzini, le
consegne, i trasporti su camion senza limitazioni stradali alle loro corse
nemmeno nei weekend. La manodopera dei centri commerciali è concentrata in
grandi aggregati nei sobborghi, immancabilmente “in divisa”, legata alle
catene di appartenenza da contratti, orari e ritmi che contemplano una fedeltà
totale all’impresa e una “complicità” con la clientela che integra a
discrezione a seconda della dedizione le loro remunerazioni. Più difficile è
invece percepire sul territorio il lavoro manifatturiero e della grande
industria, confinato quest’ultimo in periferie urbane mal servite, lontane
molte miglia dalla vita dei centri. Le ex aree produttive interne alle metropoli
sono ormai tutte ridestinate a abitazioni di lusso o a locali sfavillanti per il
commercio di grandi marchi, non solo di abbigliamento e arredamento, ma di
sport, elettronica specializzata, cura del benessere del corpo. Cresce, ma si
vede poco, la diffusione delle medie e piccole imprese manifatturiere, per molti
dei nuovi settori spezzettate nelle aree riconvertite delle ex centrali, dei
macelli, dei mercati e servizi pubblici, contigue alle università, ma non
integrate nei loro servizi e separate nella loro composizione intellettuale
(quasi tutta bianca) da quella manuale (nera e in parte minore bianca e
ispanica). Se si pensa ad un settore in declino, uno dei gruppi di sostenitori
che ha contribuito a determinare la vittoria di Trump è stato quello dei
minatori. Nonostante gli Stati interessati dalle attività minerarie siano a
tradizione democratica e nonostante la storica vicinanza tra il sindacato dei
minatori e il partito democratico, nel corso della campagna presidenziale
l'appoggio della categoria si è massicciamente spostato verso il magnate
repubblicano, sostenitore ad oltranza del carbone e degli incentivi alle materie
prime di provenienza nazionale.
Il
Partito democratico e Hillary Clinton non sono sembrati in alcun modo
interessati a rivolgersi a questa fetta salariata della popolazione
statunitense, già di per sé disarticolata temporalmente e spazialmente e poco
rappresentata organizzativamente. Il partito democratico ha smesso da molto
tempo di considerare i lavoratori la propria base elettorale e ha contribuito a
rendere più deboli e subalterne le loro organizzazioni. Sulla scorta di
un’inchiesta condotta dal sindacato Afl-Cio - e commentata da Portelli sul
Manifesto - tra alcune migliaia di lavoratori bianchi della zona di Cleveland e
Pittsburgh, spesso ex elettori democratici, emerge come le priorità per chi si
diceva pronto a votare per Trump siano riassunti dalla promessa di «buoni»
posti di lavoro, identificati con quelli che le imprese locali avevano portato
all’estero. C’è tra lavoratrici e lavoratori un risentimento per la
valorizzazione esclusiva dell’industria del sapere, la new economy e il libero
scambio. (Ho partecipato di persona a manifestazioni contro la firma del TTIP
con operai in tuta e casco). Gli intervistati evocano debolmente, anche dove
forti sono le comunità evangeliche battiste e metodiste, una serie di temi come
la difesa della famiglia tradizionale, la lotta all’aborto, i «valori
religiosi» che nei commenti di prima mano hanno assunto peso elevato, forse per
le provocazioni che il candidato presidente lanciava a bella posta per platee
diverse da quelle istruite ad un minimo di pratica solidale . Non c’è quasi
traccia di razzismo o demonizzazione per l’immigrazione. Oggi possiamo capire
meglio perché i sondaggi
mostravano che almeno una parte degli elettori di Trump sarebbe stata
disponibile a votare per Sanders, che ha avuto comunque 10 milioni di voti e
che, se non altro, dava l’impressione di parlare anche a loro e gli diceva
cose molto diverse da Trump, ma più vicine alla storia delle loro famiglie e
dei loro miti (Ho ascoltato le chiusure dei comizi al canto di canzoni popolari
del lavoro).
DOVE
SI DIRIGE TRUMP PRESIDENTE?
L’abilità
con cui è stata condotta la campagna elettorale e la “riconversione” post
elezioni non devono illudere: non lasceranno posto - a mio giudizio -
ad una presidenza meno che reazionaria.
Adesso ci si chiede meccanicamente se Trump farà davvero un muro con il
Messico, se porterà l'America a un nuovo accordo con la Russia di Putin; se
allenterà il suo rapporto con gli europei e proporrà una diminuzione di ruolo
degli Usa nella Nato. Credo che, al
di là delle esternazioni roboanti, debba preoccupare una quasi certezza:
ripiegherà sulla sua visione autarchica della economia americana ritornando a
un severo protezionismo, al consolidamento dell’apparato industrial-militare e
al rilancio della produzione “sporca”, per rinnovare profitti, soprusi e
illegalità delle multinazionali e per giustificare con una “great America”
da guerra civile il suo vigore antisindacale e il disprezzo per i diritti
civili, sociali e ambientali. Continuerà a sostenere posizioni istintive, che
possano sedurre i ceti sociali più indifesi, come quando definisce il
cambiamento climatico un concetto «creato
da e per i cinesi, al fine di rendere il settore manifatturiero statunitense
meno competitivo» o come quando contro l’arroganza di Wall Street, propone di
aumentare in modo significativo le tasse sui mediatori di hedge fund che
guadagnano fortune alla velocità della luce sull’opera delle mani dei
sottopagati, tremendamente lente al confronto.
L’irruzione del miliardario Donald
Trump alla Casa Bianca costituirà, temo, una rivoluzione elettorale che nessun
analista legato alla bicefalia tra democratici e repubblicani ha saputo
prevedere. Bisogna precisare che il messaggio di Trump per quel che ne hocapito
leggendo news e ascoltando la TV, non è similare a quello di un partito
neofascista europeo. Non si tratta di un’estrema destra convenzionale. Lui
stesso si definisce in una intervista al Wall Street Journal come un «conservatore
dal senso comune» e la sua posizione nella gamma della politica, si colloca
alla destra della destra. Come scrive Raimonet “non censura il modello
politico in sé, ai cui vertici ha puntato, ma i politici che lo stanno
guidando, inondandoli di accuse spregevoli”.
Allo stato attuale delle nomine del suo governo possiamo già
trarre bilanci sulla dislocazione di censo e di classe e sulla direzione di
marcia: sta formando un governo di paperoni. che si profila come il più ricco
della storia moderna americana. La squadra di Bush nel 2001- la più ricca della
storia finora - vantava un patrimonio complessivo stimato in circa 250 milioni
di dollari, pari ad appena un decimo della ricchezza del solo Wilbur Ross,
detto “il re della bancarotta”, il ministro del Commercio scelto da Trump e
che, secondo Forbes, ha un patrimonio di 2,5 miliardi di dollari. Todd
Ricketts, il vice designato di Ross al Commercio è figlio di un miliardario
ed è comproprietario dei “Chicago Cubs", mentre Steven Mnuchin
che Trump ha nominato per guidare il dipartimento del Tesoro, è un ex manager
di Goldman Sachs, executive di un fondo speculativo e finanziatore di Hollywood.
Miliardaria anche Betsy DeVos, nota per aver introdotto sostanziosi buoni
scuola a sostegno delle scuole private, selezionata come futuro ministro
dell'Istruzione: la ricchezza della sua famiglia ammonta a 1,5 miliardi di
dollari, mentre Elaine Chao, prossimo ministro dei Trasporti, è la
figlia di un maggiorente delle spedizioni marittime. Harold Hamm,
papabile ministro dell'Energia, è un magnate del petrolio che si è fatto da
solo e che figura al 30esimo posto nella classifica di Forbes sui 400 uomini
piu' ricchi d'America. Rex Tillerson, ceo del gigante energetico Exxon,
che diventerà segretario al Dipartimento di Stato è il manager più pagato e
avrà una super liquidazione da capogiro. Se si stima che la ricchezza del
presidente eletto Donald Trump si valuta sui 3,7 miliardi di dollari, si può
calcolare che i patrimoni del governo che entra in carica valgono più
del PIL delle ultime 120 nazioni.
E poi ci sono i militari antiObama: James Mattis,
segretario alla difesa ex generale dei Marines, guiderà il Pentagono.
Mattis è sempre stato critico nei confronti dell’amministrazione precedente,
in particolare riguardo all’accordo sul nucleare con l’Iran; Michael
Flynn,
consigliere per la sicurezza nazionale, con alle spalle la guida della Nato in
Afghanistan e Iraq, era in profondo dissenso con l’ex presidente che lo
rimosse dalla DIA.
Ci sono infine quattro casi clamorosi, oserei dire spudorati: le prime due
riguardano la nomina di Jeff Sessions
a ministro della giustizia: in passato Sessions ha mostrato simpatie per
il Ku Klux Klan e ha sminuito colleghi di colore e quella di Tom
Price, ministro della salute,
nominato principalmente per via della sua forte opposizione all’Affordable
Care Act (Aca), la riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. Ma le più
provocatorie tra le designazioni sono state catapultate al lavoro e
all’ambiente. Al Lavoro viene
indicato l’imprenditore dei fast food anti-sindacato, Andy
Puzder,
un
magnate degli hamburger, amministratore delle catene di fast food
Hardee’s e Carl’s Jr, noto per le battaglie
contro i contributi sanitari e l’aumento del minimo
sindacale.
Il prossimo ministro del Lavoro ha recentemente
parlato dei vantaggi di una catena di ristoro
interamente automatizzata poiché i robot «sono
sempre cortesi, non vanno mai in vacanza, non
arrivano in ritardo, non si fanno male e non
intentano cause per discriminazione». Si delinea quindi un
progetto economico basato su deregulation, demolizione dello
Stato sociale, e smantellamento delle garanzie sul
lavoro, sgravi alle
imprese e finanziarizzazione, ancora
più duro di quello che dopo otto anni di Bush portò alla bolla
subprime.
Infine, all’Ambiente, a capo dell’Environmental Protection
Agency (EPA) è andato Scott
Pruitt, avvocato delle compagnie petrolifere contro le
norme ambientali, protettore del petrolio e negazionista. Pruitt è stato anche attivo in gruppi religiosi con il ruolo di diacono della
Prima Chiesa Battista di Broken Arrow ed è stato procuratore generale
dell’Oklahoma, al quinto posto nella
produzione di petrolio greggio, con cinque raffinerie di petrolio, e ospitante
di Cushing, il gigante di stoccaggio di petrolio da fracking. Questo dipendente
pubblico ha unito una coalizione di procuratori generali per citare in giudizio
il Clean Power ACT dell'EPA, l’atto principale di Obama per la
riduzione delle emissioni di gas serra degli Stati Uniti. Ha anche difeso la ExxonMobil del su amico Tillerson
per non aver rivelato informazioni rilevanti sui cambiamenti climatici. I gruppi
ambientalisti hanno reagito con allarme. Alla
sua nomina gli incentivi per l’utilizzo di etanolo come biocombustibile sono
crollati del 7%. E’ chiaro come il neo Presidente intenda rilanciare lo shale
oil americano, tenendo conto che in seguito all’accordo da poco raggiunto
dall’Opec sul taglio della produzione, il prezzo del petrolio sta aumentando,
a vantaggio della ripresa dell’olio da scisto canadese e americano. Ma, in
particolare, l’apoggio all’accordo di Parigi per il contenimento dei gas
serra e per la sostituzione del carbone con le rinnovabili subirà una dura
battuta d’arresto.
QUALCHE
CONSIDERAZIONE SUL “NEW NORMAL” E IL SUO FUTURO
Nel 1980, l’inaspettata vittoria di
Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti fece entrare l’intero pianeta
in un ciclo di quarant’anni di neoliberismo e di globalizzazione finanziaria.
La vittoria di oggi di Donald Trump per può farci entrare in un nuovo ciclo
geopolitico la cui pericolosa caratteristica ideologica principale – che
vediamo sorgere ovunque, in particolare in Francia con Marine Le Pen – è l’autoritarismo
identitario. “New Normal” viene definito il ritorno degli Stati Uniti al
comando assoluto. Lo stesso vincitore non potrà riscrivere come pretende
l’agenda americana e mondiale: essa sarà riscritta anche dai contropoteri e
dalle burocrazie USA, oltre che dal nuovo ambiente geopolitico socioeconomico
culturale e ambientale mondiale. (si è visto subito con l’incidente
Cina-Taiwan, e le reazioni di Marrakesh alla svolta nella politica climatica).
La durata di questa svolta culturale è imprevedibile, in assenza di una
sinistra organizzata e dentro l’impeto di ottenere soddisfazioni così a lungo
represse senza che prendano la forma stabile dei diritti nella loro accezione di
universalità. Con gli “Stati Disuniti D’america” sparisce anche quella
comunità di aspirazioni e doveri che poteva rendere praticabile e duratura una
lotta collettiva a carattere generale. Occorre saper togliere dalle mani dei
magnati la categoria del rifiuto – per torcerla in diritto alla giustizia
sociale e alla sopravvivenza.
Purtroppo non sembra che
nell’America odierna la crisi politica e di democrazia, di società e di
prospettive, venga assunta e metabolizzata dalla classe politica al potere.
Forse bisogna ripartire con ottimismo dal lascito di Sanders fin che si è in
tempo e dalle estese battaglie sul territorio che attraversano come rigagnoli e
non come fiumi dall’una all’altra costa. Pessimisticamente vedo un
successivo sgretolarsi del sistema, e che la crisi in atto (che non sarà
risolta dal populismo e dal nazionalismo) finirà per rendere impossibile
governare un necessario cambiamento. Per fare un esempio, la delusione per la
cancellazione – politica - dell’accordo di Parigi ottenuta non sotto tortura
ma con un’elezione è per me un segnale devastante: non abbiamo più tempo!
Nelle grandi democrazie nonostante tutto le decisioni sono ancora preda di una
piccola élite economica, il cui interesse non è quello di salvare la specie,
ma di massimizzare i loro profitti.
L’Europa potrebbe rendersi conto
del baratro in cui essa stessa sta precipitando. Non c'è niente nei nostri
paesi di simile al movimento suprematista bianco. Essi ritengono che il
movimento femminista abbia portato via il loro ruolo nelle famiglie patriarcali.
Il fanatismo per le armi dimostra loro che sono veri uomini, ma uomini isolati:
al lavoro, per strada dove stringonouno smartphone, nei pub dove ognuno è
seduto davanti ad uno schermo (ne ho contati 26 sulla parete del bancone
circolare di un Barcellona Inn con una sola barista). In questo clima non è
difficile stimolare le paure e incitare la rabbia e l'odio nei confronti degli
immigrati, nei confronti delle altre minoranze e verso il governo. E questa
onda, se travalica l’Atlantico, questa volta ci trova assai mal messi.
Con Trump tutti e due i partiti si
sono suicidati, ma sarà più facile per i repubblicani fare come se niente
fosse successo, agitando la paura della paura che non sta a destra o a sinistra
ma in uno spazio politico vuoto.
La situazione è così cruda che
questa volta le risposte non staranno solo a Washington. Prepariamoci ad un
periodo ancora peggiore, ma spostiamo rapidamente il tiro – tutti e di
qualunque area del mondo – da un angoscioso presente senza futuro alla cura
per la sopravvivenza della civiltà, della pace, della casa comune. Abbiamo una
speranza e una certezza: i nostri nipoti, se ci saranno perché si rivitalizzerà
la democrazia, saranno assai meglio di Trump, Hillary, Renzi, Rajoy, Mayer,
Schulz, Modi, Putin, Nemer: senz’altro la peggior congenie del dopoguerra.
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