... E noi del
ponte
Spesso
e volentieri noi (chi impegnato nella cooperativa editoriale e chi nella
redazione) ci siamo interrogati sul senso di questa nostra rivista, se non
sia giunto il momento di chiuderla; molti gli argomenti a favore, cosi'
sintetizzabili: Siamo in campo dal '92 e sette anni sono stati tanti nel
pieno di una transizione politica italiana ancora in corso; non a caso
c'è stato un fiorire di riviste durate il tempo di una campagna
elettorale o poco più, nonostante avessero alle spalle gruppi di potere,
di ceto politico e di editori non sempre piccoli. Ma il vero motivo per
cui non ci sarebbe nulla di male se chiudessimo, sta nel fatto che il
nostro piccolo operare per tenere viva la prospettiva unitaria di una
sinistra moderna e rinnovata, critica e antagonista, in questi ultimi anni
- dallo scioglimento del Pci a oggi - è rimasta ferma, per non dire che
ha fatto sostanziali passi indietro; mentre qui, dove noi operiamo, la
sensazione è quella di un centro del nord ormai attestato, seduto e
conquistato dalla cultura neoliberista. Stucchevole pessimismo, dirà
qualcuno, di un pezzo di sinistra sparsa e ai margini dei vari percorsi
dei partiti della stessa; può darsi, rimane il dato politico ricordato;
ancor più crudo nel momento in cui a livello nazionale è in corso quella
che avrebbe dovuto essere l'occasione storica di una sinistra che nel suo
complesso affrontava la sfida del governo. Probabilmente, nonostante
tutto, riusciamo a trovare nuovi stimoli per continuare, incontriamo altri
come noi o potenziali esperienze in corso, accomunate da un voler stare
fuori dal gioco politico diretto e immediato, per cercare di influenzarlo
con il proprio lavoro quotidiano, ciascuno nel proprio ambito, sapendo
che, nel momento in cui si tocca il punto più basso di unità e lucidità
si mettono in moto reazioni e meccanismi contraddittori che vanno da una
certa "antipolitica di sinistra" allo scatto di nervi di una
sinistra diffusa nel sociale che dà per scontato per un certo periodo di
non poter contare sul livello politico. In ogni caso, con tutte le nostre
contraddizioni, non rinunceremo a riflettere e a far riflettere; ad
esempio chiediamo ai compagni della sinistra dei Ds, proprio perché
condividiamo le posizioni espresse su questioni importanti come la parità
scolastica, il referendum, la flessibilità, se non è arrivato il momento
da parte loro di riflettere sulla esperienza e influenza dentro una realtà
sempre più vuota di identità e militanti, unicamente riempita da gruppi
dirigenti divisi tra una prospettiva democratica e ulivista lacerante (la
crisi del rapporto tra Veltroni e Prodi) e l'altra di un D'Alema statista
autosufficiente dentro un centro-sinistra strategicamente condizionato non
tanto da un Cossiga, ma soprattutto dal rapporto con grande industria,
chiesa e altri che segnano il cammino del suo governo. Chiediamo ai
compagni di Rifondazione di ripensare l'approdo (l'isolamento) sul quale
si sono attestati, non per rientrare puramente nel gioco della tattica e
della visibilità, ma per farci capire non solo la loro prospettiva ma,
conseguentemente, anche quella di una parte importante della sinistra.
Quindi continueremo tenacemente con la nostra linea editoriale,
dell'approfondimento critico della società milanese-lombarda nelle sue
varie pieghe, dentro un contesto europeo e globalizzante che la pervade
profondamente, ma sopratutto delle potenzialità di un tessuto sociale e
culturale che non cede, di una rete associativa che copre i buchi della
sinistra politica senza per questo volersi contrapporre ma anzi
stimolando. E' questo il senso di un rapporto quasi naturale che abbiamo
costruito con i compagni del Forum milanese per un'alternativa al
liberismo , luogo di incontro per la sinistra sociale e politica che non
si adegua al pensiero unico. Lo stesso prendersi carico del ruolo non
formale di direttore da questo numero, da parte di Luigi Lusenti, socio
della cooperativa editoriale e collaboratore da anni della rivista ma
sopratutto uomo dell'associazionismo e del pacifismo milanese, va in
quella direzione e segna la volontà di rilancio de il ponte...

...Che
stiamo sul ponte
Il
ponte della Lombardia entra nel suo ottavo anno di pubblicazione
mentre finisce il secolo e il secondo millennio passa la mano. Però non
è di questo che mena vanto la rivista, ma di esservi arrivata attraverso
l'autofinanziamento e senza aver mai fatto a meno della propria autonomia.
Che non è cosa da poco! Durante il suo settenato, Il ponte della
Lombardia ci ha raccontato piccoli e grandi fatti, turbamenti mondiali e
perturbazioni di casa nostra: la fine dell'Unione Sovietica e la guerra in
Jugoslavia, Tangentopoli e le pailletes berlusconiane, la vittoria
dell'Ulivo e l'approdo di D'Alema a Palazzo Chigi. E ancora: l'odissea del
popolo curdo e il leghismo nostrano, la divisione del partito comunista e
la nascita dei neo, dei post e degli ex comunisti, il diritto al lavoro e
il diritto all'ozio. Continuare a farlo, con lo stesso spirito, con la
voglia di stare a sinistra, con l'arma della critica e l'onesta
dell'autocritica, come è stata fino ad ora abitudine de Il Ponte della
Lombardia, è il primo impegno che mi sento di prendere da nuovo direttore
della rivista. Una continuità che è anche segno di stima e di fiducia,
oltre che di affetto, nei confronti del collettivo redazionale della cui
fatica il giornale è frutto.
"Il
passato, dice Vittorio Foa, non ci dà risposte. Consente solo di
formulare meglio le domande." Mentre scrivo, 3 gennaio, passano
monotonamente, in televisione e sui giornali, infiniti interrogativi sul
nostro futuro e sulla scadenza per cui si sprecano aggettivi epici, quella
del 2000. Perfino la moneta, lira, marco o franco che sia, non ha
avvenire, segnata nel destino dall'invadenza dell'euro. L'ultimo segmento
del ventesimo secolo, il 1999, appare cosi' come una semplice ritualità
burocratica, un fastidioso impegno da sbrigare in fretta e senza sforzi
significativi. Io, invece, vorrei proporre un gioco: mettere una di fianco
all'altra le copertine della nostra rivista, leggere i titoli di apertura
e quelli del sommario, rivisitare gli indici. Scopriremmo che non poco del
nostro bagaglio traslocherà nel duemila. Ci chiederemo ancora, fra meno
di cinquanta settimane, di che colore è la pelle del vicino di casa;
quanto c'è di mostruoso in un uomo che ama i bambini; se destra e
sinistra hanno ancora un senso; se la fine della storia non sia anch'essa
giunta al termine. Ci chiederemo quanto della nostra vita può essere
dedicato agli altri e se il sesso ha senso ormai solo nel mondo virtuale
di Internet e dei 144. Ce lo chiederemo forse come uomini di un altro
millennio collocati in un tempo che ci apparterrà sempre meno. Ma non sarà
l'età, l'anno in più che ognuno di noi avrà, a causare la perdita di
identificazione nel presente. Sarà, come dice il vecchio saggio che si
avvia a compiere i novant'anni, l'incapacità di porsi le domande nella
maniera giusta. "Porre le domande in maniera giusta": dovrebbe
essere, ma sappiamo tutti che non è cosi', il primo impegno di chi fa
comunicazione. Il più delle volte anzi si rifugge dall'interrogarsi come
fosse una pedante disciplina, un noioso bizantinismo. Come se la notizia
non fosse anch'essa un manufatto che va inteso, elaborato e rifinito.
L'enorme mole di notizie alla quale siamo abituati più che orientare
disorienta, atrofizza la nostra capacità critica. Tanto, in questo caso,
è sinonimo di nulla. Il risultato è una montagna di fatti e di
conoscenze che, con la stessa velocità, svanisce, consumando se stessa e
l'attenzione del lettore.
Il
ponte della Lombardia opera invece in modo diverso. Alla ricerca
spasmodica della notizia spettacolo, del lancio morbosamente gettato verso
il lettore, preferisce la sostanza del reale, la ricerca e l'attenzione
delle fonti essenza stessa dell'informazione. Gli eventi sono raccontati
molte volte dagli stessi protagonisti, spiegati all'interno
dell'esperienza sociale che rappresentano, interpretati nelle condizioni e
nei movimenti che li determinano. Alla totalità generica e livellatrice
preferisce la parzialità delle differenze, al pensiero unico l'eresia del
pensiero sovversivo, al glamour dell'opera perfetta le "idee che
fluttuano nell'aria", la sperimentazione e il senso del divenire.
Sarà
per questo che il ponte della Lombardia è cosi' attento alle persone,
agli uomini e alle donne nella loro quotidianità, non nell'immaginazione
virtuale degli spot pubblicitari o delle trasmissioni a premi. Sarà per
questo che il ponte della Lombardia osserva con interesse alle loro
costruzioni quotidiane, alle loro espressioni politiche, culturali,
sociali e di costume: i partiti, il movimento sindacale,
l'associazionismo. Ma non solo. Guarda ai fenomeni nuovi, di massa e di élite,
cercando di cogliere, come diceva Vico, anche in quello che sembra porsi
di traverso, opportunità che diano senso al presente e al futuro.
Coscienti che l'ultima pagina che scriviamo è anche la prima, oggi come
ieri.

Brescia:
costituito il FORUM
Abbiamo
scelto di intitolare il Forum "per una alternativa al
liberismo", in quanto pensiamo che l'organizzazione sociale generata
dal dominio assoluto del mercato sulla vita degli esseri umani stia
producendo, ormai in tutto il pineta, guasti gravissimi. Nell'appello
diciamo: tutto, della nostra vita, è sovradeterminato dal circuito
produzione - consumo; tutto, le relazioni umane, gli stili di vita, i
modelli di comportamento sono scanditi dai ritmi, dalle esigenze, dalle
compatibilità dettati dalla produzione delle merci. Un solo valore si
propone come assoluto: la competitività. La concorrenza sul mercato delle
merci fa premio su tutto, ogni cosa si relativizza al suo cospetto e ne
viene condizionata, coartata: la sicurezza nel lavoro, i diritti nel
lavoro, le condizioni di lavoro. Cosi' si produce il sequestro del tempo,
l'uso dissennato della natura (intesa solo come risorsa per la
produzione). Ma è in generale tutta la vita comunitaria ad essere
penetrata da questo modello perverso che riduce le stesse relazioni
sociali a relazioni mercantili, dove trionfa il primato del denaro. È il
denaro lo strumento e l'obiettivo dell'emancipazione: esso può dare
tutto, è la protesi, il pass par tout universale che può aprire ogni
porta, con il quale si possono comprare non soltanto oggetti, ma anche
tutto ciò che non si è: dignità, status, persino affettività. Ecco
allora che quella competitività che regola i rapporti economici diviene
legge fondamentale della società, diviene cioè competizione ad oltranza
fra gli individui, gli uni con i piedi sulla testa degli altri, in lotta
perenne per l'appropriazione privata, per tracciare confini, innalzare
steccati. Cos'è, in definitiva, la deriva secessionistica se non la
plastica rappresentazione della divisione dei ricchi dai poveri, dei
garantiti dagli emarginati, l'esibizione tracotante della separatezza,
dell'egoismo in luogo della comunità solidale. Basta mettere insieme gli
scampoli della nostra vita e della nostra esperienza quotidiana per capire
che viviamo in un mondo rovesciato: -se duecento persone sono proprietarie
di più della metà della ricchezza del pianeta, mentre tre miliardi di
esseri umani vivono sotto la soglia della sussistenza e mentre trecento
milioni di bambini muoiono di fame ogni anno; -se quando una società
quotata in borsa licenzia, il valore dei suoi titoli cresce; -se in un
organismo mondiale come l'OSCE si lavora ad un accordo che consenta alle
imprese multinazionali di proteggere i loro investimenti subordinando ad
essi persino le costruzioni nazionali e le sovranità dei governi; -se la
questione curda, imposta all'attenzione generale dal caso Ocalan, si
misura in termini di quote di mercato perso e in affari italiani
compromessi in Turchia; -se il diritto al lavoro, alla sicurezza, alla
salute, alla previdenza, all'istruzione non sono degni di un aumento del
PIL, perché l'unica cosa che conta sul serio è la remunerazione del
capitale investito;
Allora,
con Alex Zanotelli, diciamo "se l'economia distrugge la vita, vuol
dire che bisogna cambiare strada" e rifiutiamo questa espoliazione di
senso della vita. La politica è distratta, distante, piegata ad una sorta
di vassallaggio verso questa ideologia onnivora dell'impresa. Occorre
riaffermare un'idea della politica come governo della società umana
sull'economia, come riappropriazione dei fini. Se ci pensate: la
globalizzazione collega in tempo reale ogni punto del mondo, abolisce
distanze, eppure mai gli individui sono apparsi cosi' isolati, atomizzati,
omologati; individui astratti perché deprivati della propria individualità:
altro che libertà. Quanto, di questa rappresentazione, è percepibile
nella nostra città, nella nostra concreta esperienza?
-Una
città che non riesce ad aprirsi al fenomeno migratorio, che lo vive con
angoscia crepuscolare, decadente, anziché coglierne le opportunità e
produrre accoglienza. -Una città ed un'intera campagna elettorale miope,
avvitata sulle misure d'ordine, sull'enfatizzazione dei sentimenti di
paura, e spesso sconfinata nell'intolleranza e nel pregiudizio razziale.
-Una città ricca, il cui apparato industriale supera i quarantamila
miliardi di PIL, ma che produce anche settanta morti e ventitremila
infortuni sul lavoro all'anno, dove si può morire in fabbrica a ventidue
anni lavorando come si lavorava agli albori dell'industrializzazione; -Una
città nella quale l'amministrazione della giustizia si ferma quando deve
contrastare i poteri forti e quando la parte lesa coincide con quella più
debole, con i lavoratori e i cittadini senza tutela. -Una città che sta
conoscendo un preoccupante fenomeno di descolarizzazione, dove gli
adolescenti vanno al lavoro e dove gli invalidi ne restano esclusi perché
le imprese non li vogliono. -Una città piena di barriere architettoniche.
-Una città dove non si ricicla un solo metrocubo d'acqua consumato per
scopi industriali e dove l'inquinamento dell'aria e del suolo ha raggiunto
limiti insostenibili.
Ecco,
l'appello dice: rimettere al centro quel che è divenuto eccentrico, le
persone, le relazioni umane, il rapporto con la natura. Cioè rompere
con la rassegnazione, la passività, l'assuefazione, l'atteggiamento
adattativo che consegnano all'inazione. Ricostruire un pensiero critico,
non piegato alle mode, dare visibilità ad un'altra e diversa azione
politica e sociale capace di scuotere la città dal suo torpore, tentare
di coinvolgere le energie migliori.
Cosa
possiamo fare? Molti di noi fanno già qualcosa: non c'è il deserto.
Questo avviene in ambiti diversi: nei movimenti pacifisti, ambientalisti,
ecologisti, nelle associazioni del volontariato, nel sindacato. Ci sono
persone che mettono la propria concezione etica nell'ambito professionale
e li' vive il loro impegno civile. È certo importante, ma forse non
basta.
Tra
queste schegge di iniziativa sociale, di "resistenza" civile non
c'è comunicazione. Sono esperienze importanti, probabilmente
insostituibili, ma inevitabilmente consegnate alla parzialità, talvolta
solo testimonianze individuali. Occorre unire quelli che non si
rassegnano: costruire un luogo dove le esperienze e le culture diverse si
incontrino, si contaminino e concorrano a lavorare ad un progetto, a più
progetti che diano il senso di una vera e propria rinascita. Non si tratta
di dare vita ad un impossibile cartello di forze o associazioni: deposti
simboli, insegne e gradi, ogni persona aderisce al Forum a titolo
personale, porta in dote solo se stesso, la propria intelligenza, la
propria esperienza, la propria passione, con la disponibilità a mettersi
in discussione, a dire e ad ascoltare, mettendo al bando pregiudizi,
settarismo, fondamentalismi di ogni sorta. Oggi ci sono qui operai,
impiegati, professionisti dei più diversi rami, sacerdoti, sindacalisti.
Persone davvero diverse per storia personale, formazione, cultura, ambiti
dell'impegno. A nessuno chiediamo di rinunciare a fare ciò che fa nelle
organizzazioni o associazioni che ognuno ha scelto. Nessuna "reductio
ad unum" ma uno sforzo per andare oltre, perché nessuno ce la fa da
solo e la realtà sotto i nostri occhi ne è la dimostrazione.
Cosa
si può fare? Ci sono cose che potremo fare direttamente come Forum, poi
ci saranno le ricadute che il lavoro comune determineranno in ciascuno e
che ognuno di noi porterà con sé come arricchimento quando tornerà a
svolgere il proprio lavoro. Insomma, è un mettersi in rete. Sul piano
operativo: poiché non si può chiedere a tutti di occuparsi di tutto,
costituiremo dei gruppi di lavoro o, per meglio dire, delle aree
tematiche. Con una precauzione: quella di evitare raggruppamenti
verticali, omogenei, per cui i sindacalisti si occuperanno del lavoro, gli
ecologisti dell'ambiente, i pacifisti della pace, gli immigrati
dell'immigrazione, e via dicendo. Se seguissimo questa strada finiremmo
per rigenerare quella separatezza, quella parzialità, quello specialismo
che è nostro intendimento superare proprio attraverso l'incrocio di
esperienze e culture diverse. Tenteremo anche di contribuire a
sprovincializzare il dibattito cittadino, ad aprire qualche finestra, a
tessere collegamenti, favorire incontri. Affronteremo temi locali.
Affrontare questioni locali non vuole dire affatto "volare
basso". Si possono fare localmente cose che parlano un linguaggio
universale. L'impegno concreto - ed il nostro vuole esserlo - si esercita
sempre in una realtà determinata, ossia locale, altrimenti diventa
astratta retorica e accademia. In questo senso si esprimeva Alce Nero,
guerriero Sioux e grande poeta quando diceva che "ogni luogo può
essere il centro del mondo". Non esiste prospettiva che dia senso ad
un lavoro se non quella che ti fa sentire, mentre operi nel tuo quartiere,
cittadino di tutto il tuo paese, dell'Europa, del mondo, verso i quali sei
responsabile.
Fare
cultura - scrive Claudio Magris - significa sempre sentire e pensare in
grande, avere il senso dell'unità al di sopra delle differenze, rendersi
conto che l'amore per il paesaggio che si vede dalla propria finestra è
vivo solo se si apre al confronto col mondo, se si unisce spontaneamente
in una realtà più grande, come l'onda nel mare e l'albero nel bosco.
Proviamoci!

Il
dovere della memoria
Potrebbe sembrare una
normale e forse banale lezione di storia. Ed alcuni dei giovani che
siedono in platea ritengono sia cosi', perché abbozzano qualche lazzo,
tentano una risata. Invece l'uomo con i capelli bianchi che ha appena
iniziato a parlare al microfono si blocca e con grande durezza richiama
l'attenzione di tutti su quello che è venuto a dire, sulla sua
testimonianza che lo costringe ogni volta a soffrire di nuovo ed a
rivivere nello spazio di poche ore l'intera sua drammatica esperienza.
Bastano pochi minuti per ritrovare una sala immobile e attenta, che senza
nessuna eccezione accompagnerà silenziosamente il testimone fino alla
fine del racconto. Cosi' Nedo Fiano deportato ad Auschwitz e passato
per altri sei campi nazisti prima di essere liberato nel marzo '45 a
Buchenwald con la sua giacca stinta dalle righe azzurrine appoggiata
come un simbolo sul tavolino carico di appunti, conduce per mano quasi
duecento studenti liceali vogheresi nel lungo tunnel della discriminazione
e della persecuzione contro gli ebrei. Discriminazione iniziata nel nostro
paese con le infami leggi razziste del 1938: cacciato a 13 anni dalla
scuola come altre migliaia di giovani ed insegnanti ebrei. Evitato dai
suoi ex compagni, indicato dalla gente per strada, conosce il significato
delle parole "indifferenza" e "pregiudizio". Il passo
successivo, alcuni anni dopo è la deportazione. Con 11 dei suoi
famigliari, tra i quali la madre. Nessuno di loro farà ritorno dal lager.
Sette giorni e sei notti per arrivare ad Auschwitz: di un convoglio di
circa 900 uomini e donne, quasi 800 finiranno nei forni crematori. Il
vagone piombato, usato per una dozzina di cavalli, trasporta invece dalle
45 alle 50 persone. In pratica i posti a sedere ogni due, tre ore venivano
scambiati, offerti ai più deboli ed anziani. La destinazione è ignota,
le persone accalcate fino a soffocare e e animate da tensioni, paure,
ottimismo, speranze, ansieÉ Una umanità che viene scaraventata giù dal
vagone, divisa tra uomini e donne, lacerata negli affetti, con lo sfondo
delle lingue di fuoco dei forni che già stavano spegnendo i loro amici, i
loro compagni. L'ultimo abbraccio con la madre, che perderà la vita due
settimane prima dello sbarco in Normandia. Una commozione intatta e non
trattenuta nel lucidissimo racconto di Fiano, a dimostrazione di come il
tempo non serve a lenire ferite e dolori. Nedo è giovane, forte, conosce
la lingua degli aguzzini una mano lo spinge in avanti di fronte alle
richieste delle SS e cosi' si salva. Il sottufficiale nazista, saputo che
viene da Firenze si entusiasma e lo sconvolge con un monologo sull'arte ed
i monumenti. Entra nel gruppo destinato a svuotare i vagoni dopo gli
arrivi. È testimone di moltissimi episodi strazianti. Tra i tanti resta
incancellabile l'immagine del gruppo di piccoli ebrei che si avviano verso
la morte tenendo stretti i loro giocattoli, mentre un raggio di luce
attraversa i capelli di una bimba. Non sono pochi i presenti che
sobbalzano sulla sedia quando Fiano ripete, urlando nel microfono,
l'ordine di alzarsi, impartito ogni mattina, cosi' come gli altri comandi
che scandivano la vita del lager e decidevano anche della vita o della
morte del deportato.
Auschwitz
come fine della storia, dei suoi cari, di tutto quello che esiste di
umano. Auschwitz meta finale di oltre un milione di persone assassinate:
ebrei, partigiani, omosessuali, zingari. É La conclusione di una
grandissima lezione civile viene riassunta nell'imperativo di Primo Levi a
non dimenticare. L'appello di Fiano è invece un ripetuto richiamo al
senso di responsabilità, al non voltare le spalle a chi, specie se
minoranza, è colpito, a contrapporre all'indifferenza la solidarietà.
Parole che ci chiamano in causa, tutti, in questo triste presente per
difendere la memoria e non cancellare il passato.
