Partito dei  Comunisti  Italiani  -   Federazione  Metropolitana  di  Milano

 

Per una Milano dell'ecosviluppo e della cura

 

Maria Carla Baroni

 

- maggio 2006 -

 

                                                           

         Penso sia meglio non dedicare troppo tempo a elencare le malefatte della destra e i guasti che ha prodotto in questa città in quindici anni di gestione, in quanto tutti e tutte noi, abitando e/o operando a Milano, li conosciamo benissimo e ne patiamo quotidianamente le conseguenze.

         Mi pare però indispensabile sottolineare il denominatore comune dei fenomeni, in parte mondiali e in parte locali, che hanno portato alla situazione attuale, e cioè la progressiva perdita di ruolo e di senso dell’approccio pubblico nel governare la vita associata, ovvero dell’interesse collettivo o generale che dir si voglia.

         I fenomeni mondiali sono stati prima le modificazioni tecnologiche e produttive dei decenni ’70 e ’80, che hanno trasformato Milano da città industriale a città terziaria, e poi (dalla metà degli anni ’80) quel complesso di fattori che chiamiamo globalizzazione neoliberista e che hanno generato un fenomeno particolarmente grave per la vita delle persone: la precarizzazione del lavoro, in Italia non solo consentita ma anche incentivata dalle leggi di questi ultimi anni, prima il “pacchetto Treu” e poi la terribile legge 30/2003.

         A seguito di tutto ciò Milano è diventata emblematica del passaggio da una realtà produttiva in cui era egemone l’essere e il pensarsi al lavoro in forma collettiva e stabile, a una situazione - largamente prevalente - di piccole e piccolissime unità produttive in cui si è al lavoro in forma individuale e, sempre più spesso, precaria.

         Parallelamente hanno agito a livello locale (lombardo e milanese) altri  fenomeni tenacemente perseguiti dalla destra. In primo luogo sono stati portati avanti il depauperamento quantitativo e qualitativo dell’insieme dei servizi pubblici e l’ impostazione privatistica sul piano degli obiettivi, dei destinatari e degli strumenti delle politiche formalmente rimaste pubbliche, con particolare evidenza e con effetti particolarmente devastanti nell’ambito dei servizi sociali, sanitari ed educativi. L’impostazione secondo cui ai bisogni di tutti e di tutte si rispondeva con servizi pubblici collettivi, a qualità costante e abbastanza garantita, è stata sostituita dalla logica individualistica, abolendo i servizi di prevenzione e trasformando diritti e servizi in assistenza ai/alle più bisognosi/e e in prestazioni che occorre trovarsi da sè , e restringendo progressivamente anche l’area delle opportunità formative e culturali di cui questa città, un tempo, andava fiera.

         Questo processo è stato accompagnato da una ideologia che per un verso enfatizza tutto ciò che è privato (anche se il privato significa peggioramento dei servizi  e delle condizioni di lavoro e aumento dei prezzi per l’utenza), e per l’altro verso svilisce, come inefficiente e marginale, tutto ciò che è pubblico.

         E in effetti durante i due mandati del sindaco Albertini sono stati privatizzati enti  gestori di servizi a rete, che un tempo contribuivano efficacemente a pagare servizi comunali di base di buon livello, mentre ora generano profitti da giocare in Borsa, ed è stata privatizzata una gamma sempre più estesa di attività e di servizi che per molti decenni ci eravamo abituati/e a considerare pubblici: privatizzazione che i soggetti politici milanesi e la popolazione hanno contrastato solo in forma  sporadica e debolissima, sottovalutando la gravità di una trasformazione che a poco a poco modificava non solo assetti di potere, ma anche comportamenti e mentalità, e peggiorava le condizioni di vita dei più.

         Come risultato di tutti questi processi e fenomeni, l’aspirazione diffusa al benessere collettivo e a una certa socialità è stata sostituita dal cercare di cavarsela da sé come meglio si può , per molti come ricerca di sopravvivenza e per molti altri come ossessione della sicurezza individuale rispetto alla piccola criminalità, fino ad arrivare, talora, a farsi giustizia da sé.

         Da Milano è partita (insieme alle controriforme privatistiche della sanità e della scuola), anche la distruzione di un principio ritenuto basilare fin dalla legge urbanistica nazionale del 1942 e cioè che fosse, e dovesse essere,  pubblico il governo dell’uso del suolo, che è elemento primario e fondante in quanto contenitore di tutte le attività umane; e anche se in Parlamento non è definitivamente passato (per la fine della legislatura) il progetto di legge Lupi (onorevole di Forza Italia ex assessore milanese all’urbanistica), noi ci troviamo tuttora  sul gobbo la legge regionale 12/2005, che ha fatto saltare quel patto tra interessi collettivi e interessi privati in merito all’uso del suolo che era il Piano Regolatore Generale, ora sostituito – in Lombardia - da uno strumento che, nonostante sia denominato Piano di Governo del Territorio, non è affatto un piano.

         Vediamo dunque, in estrema sintesi, la condizione attuale di Milano.

         L’occasione storica del riuso delle aree industriali dismesse (alla fine degli anni ’80 oltre 9 milioni di metri quadrati) è stata quasi interamente, e volutamente, sprecata a favore di edilizia libera (con la quale sono stati realizzati pezzi di città senza servizi, né spazi di aggregazione, né anima e, per di più, recintati) e verde condominiale; la casa per i ceti a basso reddito e per i giovani e le giovani coppie è un problema gravissimo e lo diventa sempre più anche per i ceti medi; la mobilità è basata, ancora e sempre, sull’uso individuale dell’auto privata e sulle grandi opere viarie, in controtendenza rispetto a tutte le grandi città del pianeta e alle stesse indicazioni dell’Unione Europea; il pochissimo verde esistente nella città consolidata e gli edifici e i luoghi di maggior pregio storico-artistico-culturale  sono minacciati o addirittura distrutti da interventi inconsulti; il capitale finanziario e la rendita immobiliare si sono rafforzati rispetto alle attività industriali e al profitto e si è fortemente attenuata quella diversificazione produttiva che era stata per molti decenni il cardine della  forza economica della città; lo spostamento all’estero di attività di ricerca, progettazione e sviluppo da parte di gruppi multinazionali; il degrado non solo edilizio ma anche sociale dei quartieri di edilizia popolare,  la desertificazione delle periferie con la rarefazione dei servizi pubblici di base e con la sparizione progressiva di negozi e artigiani (causata dall’eccesso di grande distribuzione commerciale e da affitti spropositati), e l’aumento delle persone povere (150.000 persone,  tra vecchie e nuove povertà), completano il quadro. Milano e la pianura padana sono tra le aree più inquinate del pianeta e Milano è la città più vecchia d’Europa, oltre a essere diventata, nel 2004, la più cara, senza avere il livello di servizi che caratterizza ad esempio Londra, Parigi e Berlino.

         Questa è la città “privatizzata” che la destra ci consegna; questa è la città generata dal libero andamento dell’economia, del mercato e della rendita finanziaria e immobiliare, mentre la giunta comunale è stata a guardare, compiaciuta, i progetti urbanistici dalle volumetrie spropositate e peggiorativi delle condizioni di vita urbana (City Life alla Fiera, Garibaldi-Repubblica- Isola-DeCastillia, Quartiere Adriano, ecc.), ha costruito megastrutture viarie (come il sovrappasso multipiano di piazza Maggi) e avviato la realizzazione di autostrade urbane (Gronda Nord) e di  megaparcheggi a rotazione in centro (Darsena, piazza S.Ambrogio, piazza Meda, ecc.) e il taglio degli alberi (Bosco di Gioia, piazza Napoli, piazzale Accursio, via Vittadini, piazzale Novelli, ecc.ecc.).

         Parlo di città “privatizzata” in quanto la destra non si è limitata a privatizzare enti, attività e servizi, ma ha cominciato a costruire un modello di città in cui il ben essere degli abitanti non conta nulla e i problemi sociali e umani non vengono affrontati con l’intento di risolverli, ma separati, in modo da non disturbare i privilegiati: questo è il senso dei quartieri di edilizia libera, spesso di lusso, recintati (a cominciare da Milano 2 della Edilnord negli anni ‘60): recintati  quasi come i  ghetti per ricchi delle metropoli USA e delle megalopoli del Sud del mondo. E questo è il senso della cancellata di piazza Vetra, fatta, per separare i tossicodipendenti dai benestanti abitatori del centro, nonostante l’opposizione e la lotta dei comitati degli abitanti. E questo è il senso  del tener vuoto e del tentare di vendere lo stabile di piazzale Dateo, troppo bello per chi ha bisogno di edilizia popolare…  Non dimentichiamo che “privato” significa proprio che è stato privato, e quindi è privo, della dimensione pubblica.

         Nel dibattito avvenuto in questi ultimi mesi all’interno del Cantiere dell’Unione di centrosinistra si è spesso sostenuto che non dobbiamo essere catastrofici e che a Milano ci sono anche situazioni di eccellenza: è vero, ma se non si guarda in faccia alla realtà, lucidamente e a tutto campo, come e dove trovare obiettivi, strumenti e risorse per cambiare rotta? Se la diagnosi dei mali della città non è fatta connettendo tra loro i vari fenomeni, e, soprattutto, se non si coglie la causa di fondo che accomuna tutte le forme di peggioramento della vita urbana milanese, e cioè il prevalere dei grandi interessi privati sempre e dovunque e comunque, come è possibile riprogettare la città?

         Il Partito dei Comunisti Italiani tiene questo convegno a pochi giorni dalla presentazione del programma dell’Unione e lo propone come contributo all’attuazione migliore possibile di questo programma, per cui non insiste su ciò su cui tutti e tutte concordiamo, ma pone l’accento solo su ciò che si può ancora migliorare e fornisce alcuni approfondimenti tematici su questioni nodali.

         Noi abbiamo contribuito all’elaborazione del programma comune, inserendovi punti assai qualificanti come l’Agenzia nazionale dell’Innovazione, la città dell’ecosviluppo, le politiche a sostegno del piccolo commercio e dell’artigianato nelle periferie (compresa la riduzione dell’ICI e delle tariffe comunali), e lo consideriamo nel complesso un buon programma, meritevole di farci vincere le elezioni amministrative; tuttavia il programma dell’Unione è talora generico e, a tratti, assai debole, e alcune questioni meriteranno, a vittoria ottenuta, spentesi le luci talora un po’ ambigue della campagna elettorale, una seria riconsiderazione.

         In ogni caso qualsiasi programma è una dichiarazione di intenti e tra lo scrivere e il fare c’è un ampio spazio per  approfondire e riconsiderare e vi è il diritto/dovere di realizzare al meglio quanto è già buono e di migliorare quanto è carente.

         Noi preferiamo dire che occorre “riprogettare” Milano e non solo farla ripartire o cambiarla o migliorarla, perché Milano ha bisogno di un grande salto di qualità,  di un progetto alto, in grado di riqualificare contemporaneamente territorio e ambiente, attività produttive in ogni settore (terziario, industria, agricoltura, turismo), condizioni di vita dal punto di vista materiale e culturale, relazioni sociali e umane; di un progetto in grado di mobilitare contemporaneamente tutte le energie – politiche, sociali, culturali, progettuali, imprenditoriali – pur nella diversità dei ruoli tra i vari soggetti che operano nella città e pur nel permanere degli interessi particolari, che sono talora, per certi aspetti, contrapposti, come nel caso dei lavoratori e dei datori di lavoro.

         Secondo noi questo progetto alto e unificante, nell’interesse pubblico e collettivo, cioè nell’interesse di tutte le persone che in questa città abitano e operano  (anche per tempi e periodi limitati), consiste nel fare di Milano la città dell’ecosviluppo e della cura e cioè una città all’avanguardia – contemporaneamente - nella vivibilità sia ambientale sia sociale, per tutti e per tutte, uomini e donne, bambini e bambine, vecchi e vecchie.  

         Tre condizioni sono indispensabili per avviare e poi realizzare questo progetto:

1)      un assetto dei pubblici poteri che attribuisca funzioni, poteri e risorse al giusto livello, articolato sulla Città metropolitana, sulle Municipalità all’interno dell’attuale Comune di Milano e sui Circondari come aggregazioni degli altri Comuni per aree omogenee;

2)      il ritorno al primato del pubblico in ogni campo e settore;

3)      il riappropriarsi della città da parte dei cittadini e delle cittadine mediante tutti i possibili strumenti di partecipazione popolare alle scelte di governo e mediante la gestione diretta di alcune attività e servizi di base..

         Vediamo queste tre condizioni, che rappresentano anche nodi politici, a nostro parere ineludibili.

         Per quanto riguarda  l’assetto dei pubblici poteri, concordiamo tutti e tutte sulla necessità di trasferire funzioni, poteri e risorse ai Consigli di Zona per avviarne la trasformazione in Municipalità, cioè in veri e propri Comuni, e per ridefinire gli ambiti delle attuali 9 zone/municipalità, e conseguentemente il numero, in modo da diminuirne la popolazione di riferimento e da valorizzare le caratteristiche –anche storico/culturali-  dei vari quartieri in vista della trasformazione delle periferie in vere e proprie città.

         Sono però scomparsi dal programma i precisi impegni per avviare il processo di costituzione della Città metropolitana che erano presenti nelle Linee guida elaborate dal Cantiere lo scorso anno. Ed è difficile capire perché questo sia avvenuto, visto che Linee guida e programma sono frutto degli stessi soggetti. E così si assiste alla proposta di istituire una Agenzia metropolitana per la mobilità, urgente e indispensabile – nello stato di cose attuale – per realizzare ad es, l’integrazione tariffaria e per trasformare l’attuale rete, spezzettata per ambiti comunali, in un sistema efficiente di mobilità pubblica  che serva unitariamente, al di là dei confini amministrativi dei singoli Comuni,  tutta l’area che costituisce da decenni un’unica continuità urbanizzata.. Ma proporre e istituire tale agenzia senza assumersi, contemporaneamente, precisi impegni  per la Città metropolitana significa sì riconoscere che i problemi di Milano non possono essere affrontati e risolti nell’ambito ristrettissimo dell’attuale Comune, ma significa pure che si vuole procedere mediante tecnostrutture settoriali invece che realizzando livelli di governo complessivi con la potestà di pianificare il territorio, in tutte le necessarie forme di tutela e di uso, e con una rappresentanza istituzionale democraticamente eletta.

         Talora si parla, a proposito di Milano, di città “infinita”, addirittura di città “ectoplasmatica”, oppure di indistinta “regione urbana milanese”; e se è ovvio che l’influenza di Milano e la sua capacità attrattiva sono spalmate su un territorio assai vasto, oltre  gli stessi confini regionali, dovrebbe essere altrettanto ovvio che non si può governare un territorio, le sue attività e suoi soggetti nell’interesse collettivo se non si delimita con chiarezza un territorio e se non lo si affida alla responsabilità di istituzioni forti,  partecipate e complessive. L’indispensabile coordinamento con i livelli di governo territorialmente confinanti si può e si deve trovare con strumenti come la copianificazione territoriale, gli accordi di programma e simili, ma creare  incertezza e confusione sull’ambito dell’istituzione che dovrà sostituire, con ben maggiori poteri, l’attuale Provincia di Milano  significa, a nostro avviso, non operare  per l’interesse collettivo.

         Prima di passare alla seconda condizione, ed entrando nel dibattito che ha visto proporre anche la cancellazione dell’assessorato al Decentramento in coerenza all’avvio delle Municipalità, a noi pare che proprio  l’importanza e la delicatezza di questo processo richiederebbero una struttura in grado di promuoverlo concretamente e di accompagnarlo quotidianamente: proponiamo per questo ruolo un Assessorato alle Nuove Città, che si faccia carico di organizzare concretamente anche la trasformazione delle periferie in nuove città, coordinando gli interventi a ciò necessari.

         In merito al ritorno al primato del pubblico il programma dell’Unione è abbastanza sfumato: questo ritorno è chiaramente presente nelle politiche sociali e dei servizi territoriali, ma non viene preso alcun impegno a non effettuare future privatizzazioni di enti e attività e nulla viene detto sul possibile ritorno nella sfera pubblica, allo scadere dei contratti di affidamento a privati, di attività fondamentali per il ben essere di gruppi importanti di popolazione, come ad esempio la gestione delle case popolari di proprietà del Demanio e le mense scolastiche, che dovrebbero entrare a far parte di politiche per la salute dell’età evolutiva. Ma il principale banco di prova di questo aspetto sta nella politica urbanistica e noi riteniamo che l’impegno preso in merito ai progetti approvati dalla giunta Alberini sia troppo debole.

         In merito, infine, alla partecipazione, il programma dell’Unione afferma un principio fondamentale quando dichiara che il Piano di governo del territorio sarà elaborato “d’intesa con le forze economiche e sociali in un procedimento partecipato dai cittadini “ e poi anche quando afferma che “il Comune si prefigge di redigere un Bilancio sociale e ambientale partecipato”; in un altro passaggio, però, si limita a citare l’”urbanistica partecipata”, senza prevederne i possibili strumenti e tralasciando la ricchezza di proposte contenuta nelle Linee guida e soprattutto nel documento del Forum delle Donne per Milano (comitati di autogestione nei quartieri di edilizia popolare, comitati di controllo sull’erogazione dei servizi a rete, comitati delle utenti per la gestione

dei Centri Donna polivalenti, dei consultori e dei nidi, consiglio comunale e consigli di zona dei ragazzi e delle ragazze).

         Anche questo è un tema da riprendere e arricchire, sia formalizzando nello Statuto del Comune precisi istituti di partecipazione, sia creando le condizioni politiche e culturali generali per dare spazio a nuove forme di partecipazione che dovessero nascere nella città.

         Chiarite queste precondizioni fondamentali, entriamo nel concreto di alcune proposte.

         Fare di Milano la città dell’ecosviluppo significa puntare all’eccellenza ambientale, contemporaneamente, in ogni  aspetto dell’organizzazione urbana, con un approccio pianificatorio e programmatorio complessivo, intersettoriale e integrato. Ci sono già esempi in questo senso, sia in Italia (Varese Ligure, Brunico), sia in Europa (Friburgo), ma si tratta di comunità piccole e medie, mentre avviarsi sulla stessa strada in una città grande e importante come Milano avrebbe una valenza ben maggiore.

          Partiamo dalla produzione industriale, considerando l’intero ambito dell’area metropolitana milanese, in quanto, anche per questo aspetto, non avrebbe senso limitarsi all’attuale  Comune.

          Puntare all’ecosviluppo in campo produttivo significa:

1)      non dare per scontata e irreversibile la parziale, ma grave, deindustrializzazione dell’area metropolitana, con la sua schiera di chiusure, ridimensionamenti e delocalizzazioni di attività e  perdita di posti di lavoro;

2)       assicurare uno sbocco continuativo e stabile  nel tempo ai numerosissimi servizi alle imprese che caratterizzano l’economia della città, i quali  prima o poi crollerebbero come un castello di carte se continuasse a ridursi la produzione industriale;

3)      mettere in rete e ridare un ruolo di eccellenza alle università milanesi e ai tanti centri di ricerca pubblici e privati e finalizzare la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica alla produzione di beni che portino ricchezza e lavoro e che, nello stesso tempo, servano alla tutela dell’ambiente e della salute o, quanto meno, che non siano più nocivi; come esempi della prima possibilità ci sono la riconversione ecologica delle attività produttive esistenti di ogni dimensione e l’impianto di nuove produzioni sostenibili, ad es. nel campo del risparmio energetico e delle energie rinnovabili, per nuovi materiali da costruzione, per motori e carburanti ecologici, nel riuso sempre più esteso degli scarti di lavorazione e dei residui urbani e nella stessa riduzione alla fonte di scarti e residui; come esempio della seconda possibilità vi è il rilancio  dell’industria chimica e il rinverdire i fasti dell’istituto di Chimica “Giulio Natta” del Politecnico a partire dall’applicazione più avanzata possibile del REACH, il regolamento per la registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche voluto dagli ambientalisti e approvato a novembre dal Parlamento europeo, ricordando che le imprese che arrivano  per prime a produrre in modo innovativo acquistano un vantaggio competitivo notevole.

         In questa prospettiva l’Agenzia nazionale per l’innovazione non dovrà limitarsi alla multimedialità e al digitale, ma, soprattutto, cogliere appieno la sfida che le verrà posta proprio dall’essere sita nella città e nell’area più inquinata e nella città che costituisce la principale interlocutrice dell’Europa nel nostro paese; dovrà avere al suo interno anche il Comune e la Provincia di Milano; essere propulsiva a livello nazionale, ma anche costituire  la cabina di regia delle esperienze in atto e in progetto nel nostro territorio, come ad esempio l’EcoCittà dell’Ambiente della Scienza e dell’Industria sulle aree ex Alfa di Arese

.        Fare di Milano la città dell’ecosviluppo per quanto riguarda il territorio significa in primo luogo rifiutare il modello di città della destra e cioè bloccare i progetti urbanistici partoriti dalla speculazione immobiliare, riconsiderare (nell’interesse generale della città e in modo partecipato) le attività che vi  sono previste e individuare soluzioni progettuali in grado, quanto meno, di coniugare i diritti edificatori dei proprietari delle aree con le esigenze di vivibilità ambientale e sociale degli abitanti, bene prezioso da far nascere dove non esiste e, coerentemente, da tutelare – invece che distruggere - dove esiste già; e, appena possibile, rinegoziare con le proprietà non solo la riconfigurazione, ma anche la diminuzione delle volumetrie edificabili previste dai progetti.

         Che senso avrebbe,. ad esempio, costruire un nuovo grattacielo per uffici comunali al Garibaldi-Repubblica nella prospettiva delle Municipalità?

         Come esempio di come sia possibilissimo conciliare i diritti edificatori dei proprietari con la qualità urbana e con il ben essere degli abitanti citiamo il progetto elaborato dal Comitato I Mille in alternativa alle stravolgenti proposte del Comune sulle aree Garibaldi Repubblica Isola De Castillia. E come esempio di come migliori la qualità di un progetto e come diminuisca notevolmente il suo impatto negativo nei confronti del tessuto urbano circostante solo se ci si pone l’obiettivo di progettare anche nell’interesse pubblico, citiamo le proposte di revisione al progetto Fiera-Citylife elaborate da un gruppo di studenti del Politecnico sotto la guida del prof. Giuseppe Boatti. E ricordiamo che tale progetto è stato fieramente avversato anche e soprattutto dagli abitanti e dalla loro associazione Vivi e Progetta un’altra Milano.

         Per una Milano dell’ecosviluppo dovremo, in secondo luogo, elaborare il Piano di Governo del Territorio a partire da tre elementi cardine:

1)      la ricognizione completa delle aree di proprietà pubblica (anche se formalmente divenute private come nel caso delle Ferrovie) dismesse o comunque inutilizzate o dismissibili;

2)      l’individuazione delle attività importanti da spostare o insediare ex novo nelle attuali periferie, per decongestionare il centro e  soprattutto come volano per attribuire alle periferie tutti quegli elementi qualitativi che non hanno mai avuto, cioè per   trasformare le periferie in vere e proprie città (Milano come città di città: progetto che non può non prevedere la riqualificazione complessiva e realmente partecipata di tutti i quartieri di edilizia popolare, ben oltre i 5 attualemnte interessatoi dai Contratti di Quartiere);

3)      la riconsiderazione complessiva delle linee di forza del trasporto pubblico (linee ferroviarie e metropolitane) per valutare tracciati, priorità, risorse e tempi, opportunità o meno di soppressione di linee e stazioni, come ad es. la Stazione di Porta Genova; e perché non prendere in considerazione, ad esempio, la proposta della Metropolitana 4 – Linea Circolare delle Università – lanciata da VivereMilano?

         Dovrebbe essere chiaro a tutti e a tutte, però, che le aree pubbliche inutilizzate o in dismissione sono l’ultima occasione per dotare la città di ciò che veramente occorre agli abitanti: verde realmente pubblico e fruibile; edilizia popolare di qualità, servizi e attività di eccellenza non collocabili in edifici già esistenti, luoghi per la cultura e l’aggregazione come musei, spazi espositivi, biblioteche, Case delle Culture diffuse in tutta la città.

          Ma le aree pubbliche dismesse o in dismissione non sono illimitate e occorrerà trovare una compatibilità di sistema tra le varie utilizzazioni necessarie e possibili: è proprio questo il senso di un piano e, nonostante il fatto che la legge regionale 12/2005 preveda l’elaborazione, da parte dei Comuni, di un semplice documento (anche se chiamato piano di governo del territorio),  è proprio un piano  che dovremo elaborare, che tragga la sua forza, invece che da una legge, dalla forza della partecipazione e del consenso.

         Ora qualche flash in tema di mobilità a integrazione del programma  dell’Unione. 

Una città di città e una città dell’ecosviluppo  non possono non prevedere- rispettivamente- il potenziamento del trasporto pubblico soprattutto in senso trasversale e interperiferico e la progressiva sostituzione degli attuali autobus con altri che usino motori e carburanti ecologici. Da ultimo i parcheggi a rotazione in aree centrali già in fase costruttiva dovranno essere quanto meno trasformati in parcheggi per residenti, e il servizio taxi, che a nostro parere non richiede il rilascio di ulteriori licenze, dovrà essere reso efficiente con una migliore localizzazione e dotazione dei punti di servizio, con la risistemazione degli strumenti a supporto (apparecchi telefonici, segnaletica dei depositi, ecc.) e con una maggiore flessibilità d’uso delle vetture, da concordare con la categoria più direttamente interessata.

         Veniamo ora alla città della cura: una città che ha cura di se stessa, come un’unica risorsa di tutti e di tutte, che conserva, recupera e riusa tutto ciò che ha di bello, ma che pure si evolve e si rinnova, in modo armonico con l’esistente; una città di cui tutti e tutte gli/le abitanti si prendano cura come se fosse una grande casa comune, per renderla più viva e più bella; una città che risponde ai bisogni fondamentali di tutti e di tutte (salute, casa, istruzione, lavoro), ma che considera anche la cultura diffusa e la bellezza diffusa come bisogni fondamentali.

         La città della cura è anche quella che si prende cura di tutti e tutte gli e le abitanti, ovunque siano nati/e; da vivere anche a piedi, amica di bambini e di bambine, di vecchi e di vecchie; con servizi pubblici di buon livello e luoghi di cultura e aggregazione e negozi diffusi dappertutto.

         Due proposte concrete, a integrazione del programma dell’Unione: il recupero di tutte le cascine storiche (di proprietà del Comune) per farne Case delle culture, Centri Donna polivalenti, Case di accoglienza di zona per senza casa, ostelli della gioventù, servizi sociosanitari o educativi di base (proposta che incarna il doppio significato di città della cura); e l’apertura  festiva e serale di biblioteche, di spazi espositivi e culturali, di parti comuni di scuole (palestre, auditorium) e sedi di Consigli di zona e di impianti sportivi  in modo che vi si possano svolgere attività, anche autogestite, e che la città sia più vissuta, più viva, più partecipata, e, di conseguenza, anche più sicura.

         Concludo questa carrellata di proposte per una città partecipata, insieme utopica e possibile, con due proposte che ampliano il tema di una città che, pur aprendosi sempre più al nuovo, sappia anche conservare la memoria di sé: un Museo dei Movimenti (operaio, studentesco, delle donne) e la nuova figura della “narratrice/narratore della città”, per curare, valorizzare e far conoscere la memoria collettiva in senso storico, architettonico e antropologico.