Per un programma di politica economica

di  Giorgio Lunghini

 

maggio 05

 

Cominciamo dal principio, dal contesto internazionale e dalla storia recente dell'economia italiana. L'economia dell'Occidente è dominata dall'economia degli Stati Uniti d'America, ma le ragioni di questo dominio non sono strettamente economiche. Se il Fondo monetario internazionale mandasse i suoi ispettori alla Casa Bianca, imporrebbe agli Usa riforme ben più severe di quelle imposte dagli Usa ai paesi sudamericani o asiatici; e se le società di revisione ne controllassero i conti, il punteggio sarebbe deprimente. In verità, nel luglio scorso, il FMI aveva diffuso un rapporto in cui si manifestavano serie preoccupazioni per le dimensioni dei deficit commerciale e di bilancio degli USA, tali che potrebbero portare a un indebitamento estero pari al quaranta per cento del prodotto interno, con conseguenti attacchi al dollaro, aumento dei tassi di interesse e quindi recessione. Il New York Times ha però riferito che i portavoce della Casa Bianca hanno liquidato il rapporto come allarmista, dicendo che Bush si era impegnato a dimezzare il deficit nei prossimi cinque anni.

       Per ora il prodotto interno lordo degli Stati Uniti cresce, ma di questa crescita si devono ricordare le condizioni e le conseguenze. Le condizioni sono le stesse che consentono agli Usa il dominio dell'economia occidentale: la licenza che si possono concedere, poiché nessuno la può sanzionare, di un indebitamento crescente, privato e pubblico, all'interno e verso l'estero. Gli Stati Uniti non hanno nessun patto di stabilità da rispettare e si possono consentire un keynesismo militare di grande efficacia quantitativa, tramite la spesa pubblica nel comparto militare-industriale e le innovazioni tecnologiche conseguenti. Innovazione tecnologica che è una componente importante della crescita della produttività del lavoro americano; crescita della produttività che però non si trasforma in maggiore occupazione, in salari più alti e in migliori condizioni di vita per l'americano medio. Questo modello americano non può funzionare a lungo. Le prospettive di deflazione (paventate da molti, io tra questi) non sono affatto irrealistiche.

       Circa l'Italia (qui salto il termine medio, l'Europa, poiché richiederebbe un discorso a parte e conseguente), si dovrebbe ragionare su una questione liquidata in fretta: se l'economia italiana sia in declino. Sì, l'economia italiana è in declino; questo governo ha gravemente accelerato la tendenza, ma non ne è l'unico responsabile; le ferite recenti saranno difficili da medicare, e le politiche economiche che dovranno essere adottate dovranno essere determinate e dure. Che l'economia italiana sia in una stagione di declino, non in una fase di rallentamento congiunturale, l'aveva raccontato per filo e per segno Pierluigi Ciocca, in una relazione che suscitò scandalo poiché diceva la verità e che qui riprendo per ricordarci quali sono le condizioni iniziali di qualsiasi progetto.

       L'economia italiana si è sviluppata a ritmi sostenuti dal dopoguerra ai primi anni settanta, poi ha prevalso una tendenza al rallentamento del reddito (assoluto, pro capite, effettivo, potenziale), dei consumi, della produttività, delle esportazioni. Dopo il primo trimestre del 2001 l'espansione dell'attività produttiva è stata quasi nulla: la più lunga fase di ristagno dal dopoguerra. Superamento di un ritardo storico nello sviluppo, shock salariali e petroliferi, squilibri del settore pubblico, instabilità macroeconomica possono dare ragione del rallentamento negli anni settanta e ottanta; meno agevole è spiegare l'insoddisfacente prestazione successiva. Gli aspetti più preoccupanti sono la produttività e le esportazioni. Il rallentamento nella produttività del lavoro, che pure è elevata, è scaturito dalla minor crescita della produttività totale dei fattori; conferma, questa, di una economia strutturalmente meno capace di impiegare e organizzare il lavoro, innovare, applicare il progresso tecnico.

       Dal lato della domanda aggregata il rallentamento è dovuto al minor contributo dei consumi privati e pubblici, non compensato da esportazioni che invece hanno perduto quota nel mercato mondiale. Il limite dei prodotti italiani è anche nei prezzi alti, ma soprattutto nella qualità, nella composizione merceologica, in un modello di specializzazione invecchiato. Un sostegno alla crescita, che ne ha evitato un rallentamento ancora più grave, è venuto dall'accumulazione di capitale, che nel corso del decennio è migliorata quanto a composizione. È tuttavia mancato un balzo all'insù degli investimenti, segnatamente in ricerca  e sviluppo, nonostante ve ne fossero i mezzi finanziari, a cominciare dai profitti non distribuiti. Gli imprenditori italiani non amano il rischio. La decelerazione del prodotto pro capite riflette anche il basso tasso di occupazione del lavoro. La disponibilità di risorse umane utilizzabili ma non utilizzate è ampia, per la prima volta anche grazie all'immigrazione. Dati i livelli della produttività del lavoro, è il più basso impiego del lavoro a far scendere l'Italia nelle classifiche del Pil per abitante.

       È divenuto, ed è ancora molto elevato il debito pubblico: gravosissimo lascito di una lunga stagione di irresponsabilità politica e finanziaria che lo raddoppiò rispetto al Pil (dal 60 al 125%) fra il 1981 e il 1995. Dal debito pubblico è derivato, e deriva, un impedimento alla crescita, prima perché l'alto prezzo del denaro penalizzava gli investimenti, poi perché generava aspettative che deprimono la propensione a investire. Di qui anche lo stato delle infrastrutture materiali, che non sono state potenziate, si sono deteriorate, e sono inferiori per quantità e qualità a quelle di altri paesi europei. Ciò è vero anche per importanti strutture immateriali. L'ordinamento giuridico dell'economia, cruciale per la crescita, si è dimostrato sempre meno adeguato, nelle norme e nella loro applicazione. Questo può dirsi per il diritto societario, fallimentare, del processo civile, per alcuni aspetti del diritto del lavoro. Le riforme in tale campo, che di per sé non costano, stentano. L'intelligenza necessaria per un nuovo organico diritto dell'impresa è ostacolata dagli scarsi raccordi della cultura economica con quella giuridica e dagli interessi costituiti, quando non anche strettamente privati.

       La frammentazione del sistema delle imprese e l'incapacità della piccola impresa di accrescere la propria dimensione si sono accentuate: all'impresa italiana, miope, conviene restare piccola. Ciò però restringe gli investimenti diretti all'estero, limita le esportazioni, impedisce una formazione non servile dei lavoratori, colloca a livelli bassissimi la spesa privata per la ricerca e l'innovazione tecnologica. Nonostante l'ampia apertura verso l'estero, all'interno dell'economia italiana la concorrenza è diminuita. Il sostegno collusivo della spesa pubblica, la cedevolezza del cambio, la dinamica salariale accomodante hanno indebolito le sollecitazioni all'efficienza e alla innovazione.

       L'irresponsabile smobilitazione dell'impresa pubblica, rispetto alla alternativa di una sua gestione corretta ed efficiente, ha fatto venir meno un potenziale ed efficace concorrente e dunque uno stimolo all'impresa privata. Sulla scena internazionale i mutamenti nei vantaggi comparati hanno configurato, insieme con l'opportunità di accedere a mercati di sbocco potenzialmente vasti, specifici rischi per gli assetti esistenti del sistema produttivo italiano. Da un lato si sono affermati nuovi partner commerciali (Cina e India dopo le `tigri asiatiche', ad esempio), propensi a esportare beni di consumo che l'Italia produce e a importare beni capitali che l'Italia non produce. Dall'altro lato si sono rafforzate economie, come quella degli Stati Uniti, che offrono prodotti caratterizzati da economie di scala, R&S, innovazione. Il modello di specializzazione dell'Italia è quindi divenuto vulnerabile dall'alto e dal basso.

       Infine la distribuzione del reddito: la sperequazione nella distribuzione per classi, tra persone e nel territorio, già alta nel confronto con altri paesi industriali, si è ulteriormente accentuata. Oltre che iniquo, ciò è dannoso, poiché ha concorso a frenare la crescita, limitando l'accesso dei più poveri ai consumi, in particolare a quelli a maggior contenuto culturale, e alla formazione del risparmio nazionale. Una buona parte dei cittadini, soprattutto nel Mezzogiorno, non ha le risorse necessarie per investire in capitale umano, su se stessi e sui figli. Il quadro è aggravato da una mobilità sociale comparativamente bassa, invariata tra le generazioni, addirittura diminuita tra le professioni e le carriere.

       Dal quadro che ho tracciato sopra si possono desumere non poche delle molte cose che si dovranno fare, se si conviene che la crescita sia un problema. Non pochi, a sinistra, su ciò non convengono. Io però non credo che nelle condizioni attuali si possa auspicare lo stato stazionario: la società italiana ha tali e tanti bisogni insoddisfatti, individuali e collettivi, presenti e futuri, da richiedere un'economia in primo luogo giusta, ma che proprio per questo deve essere efficiente, capace di produrre un sovrappiù. Questo sovrappiù deve essere distribuito in maniera equa, e qui si pone la questione di una politica di redistribuzione del reddito e della ricchezza.

       Gli squilibri attuali tra salari, profitti e rendite sono intollerabili e devono essere rimossi. Una redistribuzione della ricchezza e del reddito, ma ottenuta con una politica fiscale opposta rispetto a quella sulla quale sembra esserci oggi un demagogico consenso tra sinistra e destra (`meno tasse'), è un obiettivo irrinunciabile. Tuttavia vi è un ottimismo eccessivo circa la possibilità che essa sia anche lo strumento principale di una politica di rilancio dell'economia su un sentiero di crescita stabile e duraturo. È vero che in presenza di aspettative non pessimistiche una redistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri, realizzata mediante un'imposizione fiscale progressiva e particolarmente severa nei confronti della rendita, porta a un aumento della domanda per consumi. La propensione marginale al consumo dei poveri è maggiore di quella dei ricchi, dunque uno spostamento dalle rendite e dai profitti ai salari farà aumentare la propensione marginale media al consumo. Tuttavia i consumi sono soltanto una delle componenti della domanda effettiva, e non la più importante ai fini di una crescita sostenuta: più importanti, da questo punto di vista, sono gli investimenti e le esportazioni.

       Con l'avvento dell'Unione europea gli spazi potenziali di una politica economica e sociale comune si sono ampliati, ma con la contestuale rinuncia alla leva monetaria gli strumenti di cui dispongono gli Stati nazionali si sono ridotti. A livello europeo, d'altra parte, prevale una visione pre-keynesiana del ruolo della moneta, prevale quella Treasury view contro cui si batteva Keynes nei primi anni trenta. Di qui il Patto di stabilità e dunque, di fatto, l'interdizione di politiche di spesa pubblica lungimiranti e di ammontare significativo. Quel patto era sbagliato, ma è stato allentato per le ragioni sbagliate: perché quasi tutti i paesi europei hanno problemi di bilancio, e non in vista di un grande programma europeo di investimenti pubblici. C'è dunque anche un problema di cultura economico-politica.

       Gli strumenti che rimangono ai governi nazionali sono l'imposizione fiscale e la produzione legislativa, strumenti potentissimi ai fini di una programmazione dello sviluppo economico e sociale. Sì, programmazione: non bisogna avere paura delle parole. La politica del laissez faire non è forse una politica di programmazione, però esercitata da una parte sola della società? (Voi ricordate l’origine del motto “laissez faire”. Quando Colbert chiese al mercante Legendre “Que faut-il faire pour vous aider?”, la risposta di Legendre fu: “Nous laissez faire”.) Dell'imposizione fiscale ho già detto per quanto riguarda la redistribuzione del reddito. Più in generale, una revisione complessiva del sistema fiscale come strumento di politica economica, dovrebbe tornare a essere tra i primi impegni di un governo nuovo. La portata dell'altro strumento che ho nominato, la produzione legislativa, è spesso sottovalutata. Qui un governo nuovo dovrebbe imparare da quello attuale, ovviamente rovesciandone il segno.

       I problemi di cui stiamo parlando sono problemi di lungo periodo, dunque il Keynes che ci può interessare non è il Keynes del breve periodo; è, semmai, il Keynes dell'ultimo capitolo della Teoria generale, sulla ‘filosofia sociale’ cui questa potrebbe condurre. Qui Keynes pone tre questioni, che a me paiono proprio quelle all'ordine del giorno: la piena e buona occupazione, una distribuzione più uniforme della ricchezza e del reddito, un sistema economico e sociale capace di produrre anche ciò che il capitale non trova conveniente produrre. Le tre questioni si riducono a una: una democrazia economica compiuta. Io credo che queste tre questioni dovrebbero e potrebbero rappresentare le coordinate entro cui disegnare un programma economico e sociale che trovi il consenso dei lavoratori e che dunque sia la base di un compromesso serio tra le forze politiche e sociali della sinistra. È un disegno ambizioso, ma basterebbe assumerlo come riferimento concettuale e politico e come vincolo: ogni singolo provvedimento di politica economica e sociale dovrebbe tendere, o almeno non contravvenire, a quell'obiettivo.

       In Italia il problema della piena occupazione riguarda oggi il Mezzogiorno, il problema della buona occupazione riguarda tutto il paese. Le rovinose riforme del mercato del lavoro vanno riformate, e ciò cominciano a pensare anche non pochi imprenditori: il lavoro precario sembra costare meno, ma rende anche meno. In questa stessa prospettiva va posto il problema della formazione e della ricerca, anche ai fini di una maggiore efficienza economica: la soluzione va cercata nella scuola (pubblica) e nell'Università. Oggi si vorrebbe che la scuola e l'Università si trasformassero in un'azienda al servizio delle imprese. Invece la riduzione della scuola e dell'Università a strumento mercantile non sarebbe affatto nell'interesse delle stesse imprese; per non parlare della questione davvero importante, cioè della libertà della cultura e della scienza.

       Nelle prospettive attuali della scienza e della tecnologia, e nelle condizioni attuali del lavoro - per brevità: in un mondo post-fordista - la cultura e le conoscenze tecniche richieste non sono affatto di tipo specialistico. Occorrono invece solide basi culturali, e l'unica cultura solida è una cultura critica; e occorre che gli studenti, nella scuola e nell'Università, imparino a studiare e a imparare, non a fare. A fare impareranno poi, facendo, nel mondo del lavoro. Contro gli apologeti della formazione, basta un argomento: se davvero dovremo prepararci a cambiare mestiere cinque o sei volte nella nostra vita, per evitare che si torni al travail sollicité, cioè alla corvée, occorrerà non una scuola che insegni mestieri, ma una scuola che insegni a studiare e a imparare. La sede naturale della ricerca scientifica e tecnologica di base, d'altra parte, è l'Università. Fuori dalla Università, la ricerca, salvo rare eccezioni, è mero calcolo di convenienza e adattamento aziendale delle tecniche di produzione disponibili. Anche di questo sono consapevoli non pochi imprenditori (il vero problema è che sono pochi i veri imprenditori).

       La dimensione ideale di una politica di piena e buona occupazione è naturalmente quella europea (era così anche nella sua tradizione migliore). Ricordo, a questo proposito, che ce ne sarebbero le premesse: l'Unione europea è un sistema quasi chiuso, poiché il grosso degli scambi commerciali avviene tra i paesi che ne fanno parte. Ricordo anche che l'assunzione di una prospettiva di piena occupazione sarebbe più favorevole alla pace di quanto non sia un sistema teso alla conquista dei mercati altrui: il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è ora, ossia un espediente disperato per preservare l'occupazione interna forzando le vendite sui mercati esteri e limitando gli acquisti - metodo che semplicemente sposta il problema della disoccupazione sul vicino che ha la peggio nella lotta - ma sarebbe uno scambio volontario e senza impedimenti di merci e servizi, in condizioni di vantaggio reciproco.

       Circa la redistribuzione del reddito per via fiscale, è in primo luogo necessaria una lotta decisa all'evasione e alla elusione. Aggiungo che il luogo comune, secondo cui le imposte di successione provocherebbero una riduzione della ricchezza capitale del paese, è infondato. Oltre che garantire il principio (liberale) dell'eguaglianza dei punti di partenza, alte imposte di successione favorirebbero l'accumulazione di capitale, anziché frenarla. Occorrerà fare una scelta tra le tre grandi classi di reddito: salari, profitti e rendita, che oggi è eminentemente rendita finanziaria. L'istigazione keynesiana alla eutanasia del rentier non ha presupposti moralistici, ma strettamente economici: la rendita taglieggia l'accumulazione di capitale produttivo, contrasta l'eventuale crescita dell'occupazione, si appropria dei guadagni di produttività e distorce i modelli di consumo. Profitto e rendita sono intrecciati, tuttavia il profitto può sopravvivere senza rendita, mentre non è vero il contrario. Questo, in un certo senso, è un problema politico interno al capitale, ma è anche un grande problema politico della sinistra.

       E qui c’è una questione, analoga a quella dell’ordinamento delle successioni, anche questa di ordine fiscale e legislativo, su cui si dovrà ragionare. Molti lavoratori hanno investito in titoli il loro risparmio da lavoro, ma non per questo sono dei rentier, né in tal modo compromettono il processo di accumulazione. Al contrario. Diversa è la posizione e la responsabilità del capitalista che impiega i profitti nella speculazione finanziaria – che è un gioco a somma zero. È davvero impensabile una qualche forma di nominatività delle proprietà finanziarie, tale da consentire un trattamento fiscale differenziato?

       La terza questione, la struttura dell'offerta, è in sostanza quella dei rapporti tra settore pubblico e settore privato. Per il settore privato il problema centrale è la competitività sui mercati internazionali, e premessa della competitività è una politica industriale reale. È l'esatto contrario delle politiche di svalutazione competitiva, ora impossibili, ma di cui l'industria italiana ha vissuto per troppi anni; politiche che hanno confinato l'economia italiana nella posizione del produttore al quale ci si rivolge quando c'è un picco di domanda internazionale temporaneamente insoddisfatta, ma che è incapace di vendere alle proprie condizioni e in quantità prevedibile in precedenza le proprie merci. L'aumento della competitività, in una prospettiva di lungo periodo, non passa per una riduzione del costo del lavoro. Sarebbe impossibile ridurre i costi del lavoro italiani al livello dei paesi meno sviluppati, né sarebbe accettabile ridurre a quel livello i salari per via indiretta, operando attraverso una riduzione dei servizi sociali, della stabilità del posto di lavoro, della previdenza, delle spese per l'istruzione e per la cura della persone. I bassi salari non sono la risposta alla disoccupazione: è la disoccupazione che costringe i salariati ad accettare lavori precari e poco remunerati. In generale gli imprenditori che pagano poco la forza lavoro dirigono imprese inefficienti o marginali, e cercano di compensare in questo modo la loro inefficienza.

       Non c'è industria senza un piano. (Sfortunatamente la sinistra italiana è divisa anche su questo punto: una parte di essa non crede nell'industria, l'altra non crede nel piano.) Qui può e deve avere un ruolo importante la riscoperta e la riproposta dell'impresa pubblica. Nel nostro paese l'impresa pubblica ha una grande storia, e l'uso corrotto che pure ne è stato fatto in passato non diminuisce l'importanza che essa potrebbe avere in futuro. `Imprenditore pubblico' non è un ossimoro, mentre c'è da chiedersi che razza di `imprenditori' siano quelli che, grazie alle privatizzazioni, si trovano ora nella remunerativa e tranquilla nicchia del gestore privato di servizi pubblici. L'impresa pubblica può permettersi strategie industriali che l'impresa privata, soprattutto la piccola e media, non può permettersi. In particolare può darsi orizzonti temporali lunghi, e dunque può costituire, per l'industria privata, un fattore di indirizzo, sostegno e stimolo concorrenziale.

       Più in generale il settore pubblico può e deve fare ciò che il settore privato, per ragioni di convenienza economica di breve periodo, semplicemente non fa. A questo proposito Keynes, che non era un bolscevico (sebbene Einaudi lo pensasse), parla addirittura di “una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento”. Il criterio è semplice e convincente: dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L'azione più importante dello stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono di già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, e farlo un po' meglio o un po' peggio, ma fare ciò che altrimenti non si farebbe. Sta in questo la supremazia dello stato sociale, rispetto allo stato minimo.