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In questo numero

 

Il ponte della Lombardia  - dicembre 2001 n. 63

 

I quesiti di una guerra

Luigi Lusenti

 

Voci per il tremila: media e guerra

Pierluciano Guardigli

 

Non nel mio nome

Lella Bellina

 

I nuovi linguaggi del mondo che cambia
GianLuigi Falabrino

 

L'azzurro e la guerra

Jole Garuti

 

Viaggio in America

Raffaella Bolini

 

La terra trema

Interventi di Lucio Magri, Claudio Sabbatini, Vittorio Agnoletto

 

Hollywood, Hollywood

Fiorano Rancati

 

Napoli vo' fa' l'americana

Eugenio Lucrezi

 

L'unico mondo possibile

Dino Greco

 

Ocean: metalmeccanici in sciopero a Brescia

Osvaldo Squassina

 

Chi sono i giornalisti

Vera Poggi

 

Rischoi censura la stampa si interroga

Daniela Binello

 

Viaggio a Kandahar

Marcello Moriondo

 

Mi ricordo

Luigi Lusenti

 

 

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Il ponte 

della Lombardia

 

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, A. Celadin, A. Corbeletti, G. Falabrino, 

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

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Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

Voci per il tremila: media e guerra

Censura

Quando intervengono religiosi e militari, quando c’e' un dogma o una guerra, non c’e' buon senso che tenga. La liberta' d’informazione e il diritto di essere informati, per esempio, diventano fastidiosi optional. Non mi pare una gran scoperta che attraverso le parole possano passare messaggi in un modo o nell’altro cifrati, propaganda e anche altro. Va cosi' da migliaia di anni. Nessuno dice che la censura non abbia le sue ragioni, purtroppo le ha, ma e' inutile che tutti i media del paese, dico tutti, facciano finta di scoprirle ogni volta come se fossero una novita'. I militari non vogliono chiacchiere, odiano i ficcanaso. Ed e' un brutto segno dei tempi, tuttavia, che giornalisti e molta parte del pubblico siano d’accordo per il silenzio. Anche la democrazia ha i suoi tabu', ma si dovrebbe via via cercare di superarli. Impedire anche a pochi di sapere quello che forse la maggior parte della gente crede o afferma di non voler sapere e', comunque, un atto di autorita'. La democrazia e' un’altra cosa, non si modifica a colpi di maggioranze elettorali o tanto meno per via di sondaggi, veri o falsi che siano. La democrazia e' un ideale fragile, sempre a rischio, ma abbiamo ormai abbastanza chiare le idee che vi presiedono, immutabili, anche se sempre sensibili a migliorare. La censura e' contro la verita', contro la trasparenza.

 

Guerra e cultura

Non voglio dire che gli Stati Uniti siano la Prussia dei nostri tempi, ma ci sono evidenze sotto gli occhi di tutti: dalla vittoria nell’ultima cosiddetta guerra mondiale hanno continuato a fare guerre, dichiarate e no. Non si sono mai fermati. E non se ne sono piu' andati dai paesi vinti: sono ancora in Giappone, in Italia, in Germania, per esempio, dopo oltre mezzo secolo. Hanno basi in molte parti del mondo. Pretendono di volare in tutti i cieli. Hanno una vera avidita' di basi militari. Sia che fossero al potere i democratici, sia che ci fossero i repubblicani gli USA, tra l’altro, hanno sempre teso a imporsi come polizia mondiale, fino all’ultimo intervento in Jugoslavia. Quello che e' successo l’11 settembre, d’altra parte, fa dubitare che abbiano in questo ruolo lavorato bene. Del resto, anche quando e' in pace con un paese, la cultura americana, e non parliamo dell’economia, e' spaventosamente aggressiva. Il problema degli americani sembra sia nel vedere tutto con gli occhi del mercato: cosi' dove non arrivano con la qualita' dei prodotti si comprano la distribuzione. Hanno in mano i mercati culturali che contano, dall’arte alla letteratura, dal cinema alla televisione fino al computer. Sull’arte e sulla letteratura ho molti dubbi che valgano piu' dell’Europa, ma non lo sapremo mai. Da queste posizioni di forza, spesso conquistate con qualche cinismo, sono in grado di influenzare anche le coscienze piu' libere e indipendenti. Hanno un sottomarino atomico che cerca non antichita' in astratto ma concreti reperti archeologici sotto ogni mare, senza autorizzazione. Si sospetta, per qualche esperienza passata, e del resto non si nasconde il sospetto, che i suoi collezionisti d’arte arrivino a commissionare furti mirati nei musei di tutto il mondo. Peccati veniali per una cultura onnivora, segno, se si vuole, persino di ammirazione per i paesi depredati. Il cinema americano arriva in un paese e ne compra tout court la distribuzione e le sale. Operazione di strategia commerciale, non pero' culturalmente innocua, visto che fa passare per questa via film e telefilm, una visione del mondo. Gli schermi di tutto il mondo sono cosi' invasi da sparatorie e inseguimenti automobilistici, da eroi vittoriosi e da cattivi riconoscibili. Hanno una visione primitiva del bene e del male: il bene sono loro. Con la forza dei loro media e il loro prestigio economico fanno sempre comparire i loro avversari del momento come i piu' mostruosi nemici. L’URSS era l’impero del male. Poi Gheddafi, poi Saddam, poi Milosevic e adesso Bin Laden che sembra creato apposta da un geniale sceneggiatore di fumetti e disegnato da un maestro: e' un personaggio da Flash Gordon, miliardario e malvagio, tanto da amare gli accessori d’abbigliamento americani. Altro che poveri della terra. E che dire dei talebani? Si puo' immaginare di peggio al mondo e di meno difendibili, soprattutto se si vive con una donna? Intanto, da decenni, i best seller americani scalano le vendite librarie in tutti i paesi dove si legge. Anche grazie a loro si legge sempre peggio. Una grande economia, per un altro verso, alla quale si deve riconoscere il pregio di non trascurare la cultura. Anche in senso lato, se e' vero che i blue jeans e il fast food e persino la robinia-pseudo acacia, hanno invaso il mondo.

Cattivi maestri

Chi sta perdendo la testa e la faccia in questa situazione sono gli inglesi, imperialisti d’antan. Il laburista Blair, osannato come vero leader per essersi subito accodato agli americani nella guerra per ora contro l’Afghanistan, ha risentito l’odore inebriante della polvere da sparo delle cannoniere inglesi che  imponevano il traffico d’oppio ai porti dell’estremo Oriente e l’odore dei cavalli dei lanceri del Bengala. Anche Blair cavalca spericolatamente e afferma misticamente di voler sacrificare i suoi soldati. Che probabilmente non ha interpellato, se no che leader sarebbe?

Telegiornali, politica e amore

A parte qualche macchietta, i telegiornali ci vengono letti a voce alta e ferma da veri e propri marines in pectore. Si vedono le plaghe deserte dell’Afghanistan con le poche uniche case distrutte. Non amo il mullah Omar, fino a pochi giorni fa non sapevo neanche chi fosse, ma nessun giornale parlato o scritto ha avuto una parola di pieta' per il suo figliolo di dieci anni, ucciso da un missile che voleva colpire lui. Solo toni di delusione per l’errore. Eppure siamo una grande civilta', molto meglio degli altri. Non c’e' piu' differenza tra un telegiornale e l’altro e tra uno schieramento e l’altro, tranne qualche irrisa minoranza. Si litiga sulle rogatorie e a ragione, non sulla guerra, e a torto. Il Rutelli in polo della Perugia-Assisi ci dice espressamente che dobbiamo amare gli americani. Li ami lui che ha amato anche Pannella. Ha senso parlare culturalmente di differenze quando c’e' economicamente e militarmente un paese troppo piu' forte degli altri, che fa percio' straparlare tutti? Ha senso mischiare consapevolmente il governo di un popolo con il popolo? Una persona di buon senso, che si e' formata sulla letteratura, sulla musica, sull’arte anche degli americani non potrebbe ritenere che c’e' un abisso tra l’America che amava e il suo imperialismo, soprattutto quello seguito alla caduta del muro di Berlino, quando sembrava che tutto nel mondo dominato dal pensiero unico sarebbe finalmente filato liscio tra due ali di consumi? Mi pare davvero che questa sia una domestica forma di terrorismo. Da combattere.

Personalmente, non ho mai confuso George W. Bush e Colin Powell con William Faulkner e Miles Davis.

 

 

 

 

 

La terra trema - intervento di Lucio Magri

 

L'intervento di Lucio Magri,  durante l’incontro organizzato dal nostro giornale e dalla Convenzione per l’alternativa in occasione dell’uscita del numero di novembre della rivista del manifesto. Camera del lavoro di Milano, martedi' 6 novembre 2001.

LUCIO MAGRI

Ci sono nella storia momenti di accelerazione improvvisa, nei quali processi  a lungo incubati sotto una superficie apparentemente stabile erompono in modo tumultuoso e molteplice ed impongono da un lato scelte semplici ed immediate, dall'altro richiedono  di essere analizzati e capiti, perche' spiazzano molte delle analisi e delle convinzioni da tempo consolidate.

Oggi ci troviamo di fronte ad uno di questi momenti storici. Per anni siamo stati convinti di muoverci in un quadro politico, sociale, internazionale non certo tranquillo ma sostanzialmente stabile, quell'assetto neoliberista e neoliberare uscito dal crollo dei paesi dell'Est dell'89 e dalla ristrutturazione capitalistica.

Era un giudizio sulla situazione che accomunava un po' tutti, la cosiddetta sinistra moderata, cioe' quella che accettava l'ordine delle cose esistente e si sforzava di andare al governo per poi  modificarlo, ma era anche una convinzione profonda in coloro che criticavano aspramente l'ordine delle cose esistenti, ma considerandolo relativamente stabile con pazienza cercavano di recuperare degli spazi nella societa' per costruire esperienze solidali e alternative e quindi una forza che in futuro avrebbe potuto rappresentare un'alternativa.

In pochi mesi questo quadro e' radicalmente cambiato: recessione economica, vittoria di una destra aggressiva ed avventurosa, crescita di un grande movimento internazionale di contestazione dell'ordine delle cose esistenti, infine la cosa piu' drammatica, l'esplosione di un nuovo e mai conosciuto fenomeno terroristico e come risposta ad esso una guerra sostenuta da grandi e poco decifrabili coalizioni, che raccolgono quasi per intero le grandi potenze.

Si e' cosi' conclusa una fase e si e' passati ad una fase nuova di assoluta instabilita', composta da tanti fattori, ciascuno dei quali va capito, perche' difficili da ricomporre con gli altri  in un quadro generale e definibile con qualche certezza.

Non sono in grado, nel tempo che mi e' concesso,  di affrontare entrambi gli interventi che  questa situazione di crisi propone: grandi occasioni, grandi pericoli.

Non sono in grado di affrontare il problema delle opzioni di medio termine e di ricostruzione di una nuova strategia possibile.

Cosi' sottoporro' ad esame le scelte immediate che ci troviamo di fronte e non possiamo eludere.

 

Problemi e scelte immediate. Primo, la guerra.

La prima, grande questione, la piu' drammatica, su cui prendere posizione e' quella della guerra.

Tre settimane e fa nella marcia di Perugia, una delle piu' grandi manifestazioni cui io abbia partecipato in oltre quaranta anni di militanza, abbiamo tutti insieme gridato (e c'erano almeno 200.000 persone) no alla guerra e no al terrorismo.

La grande maggioranza dei partecipanti era pienamente convinta di questa parola d'ordine, ma, a parte qualche presenza abusiva, anche tra coloro che non erano li' ipocritamente, c'era qualche dubbio su questa parola d'ordine.

Ora il tempo dei dubbi e' finito e lo spazio per l'ipocrisia totalmente sparito, perche' sono le cose stesse che  in poche settimane si sono incaricate di fare chiarezza della vera sostanza di cio' che abbiamo di fronte e ad imporre una scelta che non prevede  ne' "se" ne'  "ma".

Da un lato e' diventato assolutamente lampante (ecco perche' il No al terrorismo e a questo terrorismo)   che il terrorismo che abbiamo oggi di fronte ha poco a che fare con quello  che abbiamo incontrato nella storia e rispetto al quale il movimento operaio ha sempre assunto una posizione netta.

Questo nuovo terrorismo non e' espressione di impazzimento di qualche mente esaltata e non tenta neppure di coprirsi con cause in qualche modo condivisibili; spara nel mucchio non su vittime identificate come responsabili di particolari turpitudini, ma anzi  colpisce civili relativamente non responsabili e lo fa in nome dell'obiettivo della guerra contro gli infedeli e dell'imposizione di una religione fanatica.

Ma al tempo stesso questo terrorismo ha, questa e' la novita', una base di massa potenzialmente enorme.

In questo senso e' un vero, specifico, nuovo fenomeno storico, non come espressione dei diseredati della terra in generale ma di un soggetto politico e sociale ben determinato.

Questo terrorismo e' il prodotto di una lunga vicenda storica di cui l'Occidente porta una responsabilita' diretta: anzitutto, per aver sostenuto per decenni il fondamentalismo  islamico ed i regimi autocratici che lo organizzavano come alternativa all'esperienza laica e progressista che si era avviata al tempo di Bandung nel mondo arabo; poi per il sostegno diretto, anche questo pluridecennale, alla politica israeliana di colonizzazione e repressione del popolo palestinese.

Ma la responsabilita' piu' diretta e piu' recente e' nel ruolo che l'Occidente ha avuto nell'organizzare  direttamente l'ala violenta e fanatica dell'integralismo islamico per sferrare l'ultimo colpo all'Urss.

Questa  creatura gli e' sfuggita di mano, ed e' nato un fenomeno nuovo, intreccio tra fanatismo religioso e modernita' tecnologica, che e' riuscito a vibrare un colpo  drammatico al centro dell'impero.

Ma proprio se si prende sul serio questo nuovo terrorismo, tanto piu' diventa evidente che una risposta bellica  a questa grande minaccia e' al tempo stesso barbara e impotente. Non faccio un discorso di principio sulla guerra ma una valutazione di questa guerra in Afghanistan, che e' allo stesso tempo un delitto e un errore.

E' un delitto perche' ci troviamo di fronte a tutt’altro che una operazione di polizia internazionale selettiva, atta ad individuare e punire i colpevoli della strage e del terrorismo; ci troviamo di fronte  ad una vera guerra, tra le piu' efferate e soprattutto tra le piu' indiscriminate, perche' punta da settimane sulla distruzione e il massacro di massa: bombardamento di aerei ed aeroporti, ma anche di ospedali, di depositi di carburante ma anche di centrali elettriche e di edifici della Croce Rosse, di  villaggi.

Oltre ad essere cosi' crudele e distruttiva,  tanto da sconfinare anch'essa nella categoria del terrorismo come mezzo per ottenere il crollo politico  e morale dell'avversario, questa e' una guerra stupida, perche' il tipo di terrorismo che ho descritto, tanto ramificato e indistinguibile nelle varie societa' del mondo arabo, da una guerra, soprattutto da una guerra di questo genere, non puo' che trarre un vantaggio straordinario, perche' gli offre una gigantesca base di consenso e di reclutamento potenziale. Questa guerra e' destinata dunque a riprodurre il terrorismo su scala allargata e diffusa, e quindi sara' spinta a nuovi interventi in altri stati piu' o meno appositamente scelti, creando cosi' una catena senza fine che portera' ad una sorta di guerra civile permanente a carattere globale.

Percio' dico che non ci sono piu' spazi per i dubbi e per gli alibi. Domani si votera' in parlamento sulla partecipazione diretta dell'Italia a questa guerra, a questo tipo di guerra, neppure al fianco degli Stati Uniti come era stato per l'intervento Nato nel Kossovo, ma sotto gli Stati Uniti e dando loro assoluta carta bianca.

Percio' credo che abbiamo, tutti insieme qui stasera, il diritto ed il dovere di chiedere a chi ha ancora dei dubbi e in particolare modo alla sinistra dei Ds ed ai suoi parlamentari di essere questa volta espliciti: di dire Si' - Si', oppure No - No alla guerra. E abbiamo contemporaneamente il dovere di affermare (e lo dico io che ero inizialmente critico circa l'organizzazione di una manifestazione alternativa a quella del Polo il 10 novembre a Roma) che, nella nuova situazione, a quarantott'ore dal probabile intervento dell'Italia in guerra, non si piu' lasciare la piazza a Berlusconi, dobbiamo essere tutti li' a testimoniare con coloro che non vogliono la guerra e sono per una scelta di pace e per una alternativa politica e non militare.

Lo scontro sociale in atto

Seconda questione su cui discutere e su cui prendere una decisione  possibilmente comune.

E' una questione  forse meno drammatica ma non meno importante. Siamo nel vivo di uno scontro sociale  decisivo. Dopo anni di insensato ottimismo sulllo sviluppo della “nuova economia” siamo, come era prevedibile, entrati in una fase di recessione.

Questa recessione c'era prima della guerra, restera' comunque si sviluppi la guerra, ma la guerra l'aggrava ulteriormente. E le classi dominanti, come sempre e' accaduto, cercheranno di riversare i costi della recessione sui piu' deboli, anzitutto sui paesi poveri del terzo mondo, che si troveranno di fronte ad un calo delle esportazioni sulle quali avevano aperto e percorso i primi passi di un'ipotesi di sviluppo, per quanto costosa e distorta essa fosse. E i prezzi verranno imposti da un’acutizzazione della  competitivita' anche all'interno dei paesi sviluppati e dunque vi sara' un’ulteriore offensiva, con tagli ai salari, allo stato sociale, per lo smantellamento del sistema contrattuale, con una ripresa della disoccupazione e precarizzazione del lavoro.

Questa e' una operazione non solo prevedibile, ma gia' in atto, per scelta originaria del Governo Berlusconi che, con  la spinta della Confindustria viene molto radicalizzata sotto la pressione della crisi e della recessione.

Si dice giustamente che nel vivo della recessione e della crisi economica riappare la necessita' del ruolo dello stato; qualcuno parla addirittura di neo keynesismo.

Ma, attenzione, di keynesismi ce ne sono stati diversi, soprattutto di due tipi: quello di Roosvelt, fondato sull'incremento della spesa sociale e delle infrastrutture e quello di Hitler, fondato sulla spesa del riarmo per la guerra; c'e' stato il keynesismo del welfare nell'Europa del dopoguerra, e c’e' stato quello americano nell'epoca del Vietnam.

In prima linea dunque in questo scontro che coinvolgera' questioni economiche ma anche questioni di diritti, e dunque di democrazia e liberta', ci sono i lavoratori, i pensionati e gli utenti dei grandi servizi sociali: ma dobbiamo sapere che questo settore della societa' se resta isolato, negli attuali rapporti di forza e' destinato a perdere.

Per resistere i lavoratori hanno bisogno che tutti avvertano il valore generale dello scontro in atto per la difesa del sistema contrattuale, dell'articolo 18 sui licenziamenti e per  la tutela del carattere pubblico della sanita' e delle pensioni.

Discutiamo pure con serieta', con misura, con realismo, con quali obiettivi, con quali fatti, con quali forme di lotta si puo' sostenere questo scontro e portarlo a degli sbocchi accettabili, anche con mediazioni necessarie per ottenere risultati e non solo generose forme di lotta, ma a partire dal fatto che tutti (compresi i cosiddetti soggetti sociali postmoderni, che negli ultimi anni si erano abituati a considerare le lotte dei lavoratori come lotte di resistenza, delle lotte del passato) prendiamo una posizione netta e non lasciamo solo questo settore fondamentale di uno schieramento sociale e politico democratico.

Allora partiamo da qui, poi discuteremo tappe, forme, modi della lotta. Ma partecipiamo con la passione e il sostegno allo sciopero indetto dalla Fiom il 16 novembre alla manifestazione cui devono davvero partecipare tutti i settori del movimento, non per metterci il cappello sopra, ma perche' condividono il valore e il significato della lotta con la prospettiva, che i sindacati hanno gia' cominciato a discutere, che e' quella dello sciopero generale.

Perche' senza quella larga partecipazione, invece di un '69 operaio rischiamo di avere un 1981 operaio.

Un nuovo, inatteso movimento di massa

Il terzo elemento immediato di giudizio e di crescita e'  l'esplosione inattesa e straordinaria di un nuovo movimento di massa. Per fortuna a contestare il capitalismo neoliberista e le sue ingiustizie non c'e' solo bin Laden, c'e' anche un movimento straordinario che vuole cambiare il mondo nella direzione opposta.

Anch’esso non e' un'esplosione improvvisa e superficiale, e' stato preparato da un decennio di pratiche sociali diffuse e da una riflessione intellettuale, ma  da Seattle in poi questi spezzoni di esperienza sono arrivati a convergere, riconoscendo anzitutto un comune nemico nel processo di globalizzazione e nelle istituzioni che lo governano in modo antidemocratico. e ponendosi il problema di una altro tipo di sviluppo.

Questo movimento, ecco la novita', riunisce diversi soggetti sociali, diverse culture, rifiuta la separazione tra la politica e il sociale, tra teoria e pratica vissuta, ha fatto emergere una nuova generazione all'impegno e alla politica ed e' cosi' ricco di buone ragioni (questo e' un tratto forse troppo poco sottolineato) da penetrare con la sua influenza e meritare il rispetto bel oltre l'avanguardia radicale che pure lo promuove.

Si possono avere tra noi valutazioni diverse su questo movimento, esagerarne, per confortarsi, la dimensione o metterne in evidenza le debolezze, ma una cosa deve essere chiara, ed io propongo che su questo ci si pronunci tutti insieme: che questo nuovo movimento e' la leva fondamentale non solo per riaprire una conflittualita' sociale, ma per ricostruire un tessuto politico della sinistra incancrenito, che non a caso e' finito nella grottesca capitolazione della sinistra europea di fronte alla guerra.

Lo svolgimento e la conclusione del congresso Ds e in generale l'atteggiamento che la sinistra europea ha preso di fronte alla guerra mi hanno definitivamente convinto che non si modifica la politica modificando dall'interno la sua nomenclatura. Lo si puo' fare solo partendo dall'irruzione di nuove forze, di nuove generazioni, di nuove idee generali e di nuove, reali esperienze di lotta.

Il giudizio sulla fase e le prospettive

Partendo da queste brevi puntualizzazioni sulle grandi questioni sul tappeto, e proponendo anche un pronunciamento netto su di esse, non dico che le cose siano semplici e che non esistono tra noi nodi da sciogliere con una riflessione e una discussione pacata.

Il primo problema che ci attraversa, che forse a volte ci puo' dividere, ma che non possiamo censurare,  e' la definizione della fase in cui viviamo e del suo obiettivo possibile, visto nel quadro  complessivo dei fenomeni che ho descritto: recessione, guerra, nuovo movimento.

Chi come me ha vissuto come propria esperienza profonda il '68 e il suo seguito, ricorda quel momento come il piu' alto ed esaltante della propria esperienza. Ma sa, ed ha il dovere di dire, quale errore abbiamo compiuto  allora e come lo abbiamo pagato. L'errore fondamentale e' stato quello di considerare che si stesse aprendo in tempi brevi una fase rivoluzionaria e questo ci ha trascinato ad illusioni e sbandamenti e, poi, ad una pesante sconfitta.

Dire se questa fase ha come obiettivo una profonda trasformazione dell'assetto capitalistico oltre i confini, le caratteristiche e le strutture di potere del capitalismo neoliberale o neoimperiale, o se ci troviamo di fronte alla precipitazione, alla riapertura  rapida di un processo di transizione al socialismo, al superamento del capitalismo, non e'  una differenza da poco.

Su questo si e' fatta una scelta vittoriosa nel 1917 e una scelta sciagurata, quella del socialfascismo e della precipitazione nello scontro e nella sconfitta del '29.

Un secondo nodo da risolvere con uno certo spirito di verita' e' un'analisi reale e non solo virtuale o mitologica della soggettivita' del movimento.

Questo movimento gia' all'origine, ai tempi di Seattle, aveva delle faglie e delle disuguaglianze da paese a paese, da soggetto a soggetto e delle contraddizioni al suo interno che ha saputo ricomporre andando avanti. Ma la guerra ha di molto aggravato le difficolta' alla crescita di questo movimento.

Se ci guardiamo intorno in Europa, la situazione e' molto diversificata.

Un vero grande movimento, che continui la storia dei no global e la saldi alla questione della guerra, in realta' esiste come movimento di massa solo in Italia. In America si e' venuta dissolvendo l'unita' tra sindacati e altri soggetti sulla questione della guerra e il movimento e' di nuovo ridotto ad una minoranza militante ed anche negli altri paesi d'Europa stenta a decollare.

Ma soprattutto si e' aperta una voragine nell'alleanza piu' importante del movimento, nel rapporto tra masse del Nord e del Sud del mondo, perche' in una parte non piccola del Sud del mondo c'e' un movimento, ma e' prevalentemente orientato e diretto dal fondamentalismo islamico

La mia e' una fotografia impietosa della realta' di questi giorni.

Ma siamo solo all'inizio del processo: questa guerra sara' lunga, il conflitto sociale e  la crisi economica non sara' breve, e nello sviluppo della situazione credo che via via che emergeranno i costi sociali, economici e di civilta' di questa crisi, si aprira' la possibilita' di spostamenti significativi dell'opinione pubblica occidentale, come accadde nel corso della guerra del Vietnam; e soprattutto che la grande coalizione che in questo momento induce me al pessimismo piu' nero, questa grande alleanza e' destinata nel corso delle cose a entrare in crisi su molti versanti, su quello della Cina e soprattutto su quello dei regimi arabi.

Credo che questo movimento abbia delle possibilita' di uscire dalla fase di difficolta', di crescere, di costruire una alternativa. Ma sara' una lunga marcia, non una fiammata di contestazione e insubordinazione. Una lunga marcia non solo rivolta a creare nuove soggettivita' ma  a cercare uno sbocco, su cui consolidare la crescita di queste nuove soggettivita' antagoniste.

Questa e' legata a tre condizioni cui accenno soltanto sommariamente. La prima e' che sappiamo tutti assumere come priorita' in questo momento di passaggio difficilissimo la conservazione e il rafforzamento dell'unita' di questo movimento partito da Seattle ed arrivato a Genova, un’unita' continuamente messa a rischio.

Quando dico unita' non intendo unita' solo di un settore radicale e anticapitalistico che c'e' ed e' importante, ma unita' di tutto il variegato movimento che ha anche settori ideologicamente e socialmente differenziati: tutto coloro che erano con la loro identita' a Genova, tutti coloro che erano alla Perugia Assisi.

Da questo punto di vista, chi ha vissuto gli anni settanta sa quanto sia stata breve la strada per passare dal grande movimento di massa alla tortura degli intergruppi e alla competizione fra i vari soggetti.

Seconda questione: a me pare molto importante che per dare continuita' e solidita' a questo movimento non si faccia un'accelerazione continua nella sostituzione di un movimento dei movimenti come soggetto politico alla realta' di una pluralita' di movimenti reali, perche' oggi ci troviamo di fronte a questo curioso paradosso: mentre esplode trionfalmente un movimento dei movimenti, in molti paesi i movimenti che dovrebbero comporlo sono in grave difficolta'.

Il primo problema allora e' l'articolazione, oltre che territoriale anche tematica del movimento stesso: ad esempio il mettere radici e ricostruire una unita', ma anche un'ambizione programmatica, di un movimento ambientalista che e' andato in tutta Europa in mille pezzi; di costruire per la prima volta dopo quasi trenta anni un movimento  nella scuola che metta insieme studenti e insegnanti contro la privatizzazione, ma anche per una nuova idea della scuola e delle sue funzioni sociali; e la ricostruzione di un movimento sindacale e di lavoratori non frammentato in mille sinistre, ma capace di stringere le fila.

Ultima condizione, e su questa c'e' probabilmente una differenza di opinioni. Credo, a differenza di tanti altri, che per svilupparsi il movimento non abbia bisogno dell'annullamento di un sistema  di partiti e della dimensione specifica della politica.

Ha bisogno di avere un interlocutore che con esso si intreccia e apre un dibattito. C’e' un grande bisogno di un progetto, di un programa, di un intellettuale collettivo. Gli attuali partiti sono alla bancarotta, ma resta la necessita' di un soggetto politico, capace di attivare una mediazione con i paesi del Terzo Mondo.

Loro hanno bisogno non solo di buone parole e di  solidarieta', ne' di leggi che impongano a loro certi vincoli nell’uso della forza lavoro. Hanno bisogno di poter fare, di nuove tecnologie funzionali al loro sviluppo; hanno bisogno di finanziamenti, di collaborazioni tecnologiche, di regolazione degli scambi commerciali.

Prendete un esempio piccolo, la questione della tobin tax: ha un grande valore simbolico, ma e' un obiettivo molto, molto moderato quantitativamente e qualitativamente; e tuttavia ha bisogno di passare attraverso le decisioni dei governi, dei governi delle massime potenze, quelle dove avvengono i grandi scambi finanziari che andrebbero tassati. E' possibile, senza trovare una contrattazione, una mediazione e un dialogo con il livello politico e istituzionale?  A me pare di no.

Qui si apre il capitolo sul quale la rivista ha generosamente e purtroppo inutilmente battuto la testa al muro.  Abbiamo continuamente ribadito che era necessario far leva sul movimento, ma anche avviare un processo di riorganizzazione politica che invertisse la tendenza alla polverizzazione, al patriottismo  del piccolo gruppo, alla competizione tra mille frammenti di sinistra antagonista. Abbiamo proposto, a fianco di una Costituente dei movimenti, una Costituente che contestualmente portasse alla formazione di una forza  politica che, per qualita' e quantita', fosse capace di incidere sull'insieme  degli equilibri della politica e del potere. Quanto piu' emerge l'irrifondabilita' dall'interno di partiti come i Ds o gli analoghi della sinistra europea, tanto piu' vedo la necessita' che a sinistra di queste organizzazioni tradizionali logorate cresca, anche sul piano politico, una sinistra alternativa.

Siamo stati capaci di sollevare il problema, ma non certo di risolverlo, e ne prendiamo atto. Quello che volevamo fare, e continueremo a fare, e' parlare di questi problemi senza mediazioni tattiche e diplomatiche, prendendo nettamente posizione su cio' su cui bisogna essere chiari, ma anche cercando di stimolare una discussione, un dibattito, una elaborazione di nuove idee.

Il nostro ruolo non e' quello di supplire alle difficolta' e alle carenze politiche delle forze e dei movimenti esistenti,  ma piuttosto di sollevare interrogativi, di suggerire delle analisi, di indicare strade e possibili esiti ai processi che ci saranno, lasciando  qualcosa della nostra esperienza e dell’intelligenza civile di cui siamo capaci.

 

 

Ocean: metalmeccanici in sciopero a Brescia

Venerdi' 12 ottobre le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici della provincia di Brescia sono scesi in sciopero di quattro ore in difesa di una fabbrica che nonostante sia sana e valida dal punto di vista industriale, e' coinvolta in una grave crisi finanziaria “importata”, figlia di un’operazione made in Francia che rischia di provocarne la chiusura.

La decisione di sciopero assunta in tempi rapidissimi da FIM FIOM UILM e' nata dalla consapevolezza che oggi e' altissimo il rischio che la Ocean di Verolanuova (bs) venga chiusa completamente, cancellando una importantissima realta' industriale, un gran patrimonio di conoscenze e professionalita', e oltre 900 posti di lavoro, con conseguenze drammatiche per centinaia di famiglie e per l’economia di una vasta area del territorio bresciano.

La Ocean che produce frigoriferi e congelatori, negli ultimi 20 anni ha avuto un costante processo di crescita che l’ha fatta diventare una delle aziende leader nel settore dei grandi elettrodomestici. Negli ultimi 10 anni, accanto alla crescita produttiva ed occupazionale della societa' che contava gia' altri stabilimenti in Italia, la proprieta', che fa capo alla famiglia Nocivelli, ha avviato un processo d’acquisizione di altri gruppi industriali operanti in Europa, questo percorso di espansione ha raggiunto il punto massimo nello scorso dicembre 2000 con l’acquisizione del gruppo francese Moulinex creando cosi' una realta' industriale articolata in 38 societa', con oltre 20.000 dipendenti, che comprende tutta la gamma degli elettrodomestici diventando uno dei principali produttori europei del settore.

Quella che e' stata presentata come una grande operazione di integrazione industriale, unendo la produzione di grandi e piccoli elettrodomestici, in realta' si e' rivelata una scelta disastrosa sul piano finanziario perche' ha sommato le debolezze di alcune realta' del gruppo Nocivelli (denominato Brandt) con la situazione di pesante indebitamento del gruppo Moulinex, rendendo ingovernabile sul piano economico tutte le societa' coinvolte nel progetto industriale.

In pochi mesi la realta' che e' emersa e' l’esistenza di un indebitamento che per tutto il gruppo Moulinex-Brandt assomma ad oltre 1.500 miliardi su un fatturato complessivo di circa 5.000 miliardi, tutto questo ha fatto esplodere il contrasto tra gli azionisti, al punto che negli ultimi giorni il consiglio di Amministrazione del gruppo Moulinex-Brandt, che ha sede legale in Francia, ha deciso di depositare i libri societari in Tribunale e chiedere l’amministrazione controllata.

La prima conseguenza di questa scelta degli amministratori e' stato il blocco di tutte le risorse economiche per tutte le aziende del gruppo compresa la Ocean, che si e' vista bloccare tutti i pagamenti dei prodotti commercializzati dalla rete del gruppo ed ha subito il blocco delle forniture di materiali con conseguente paralisi dell’attivita' produttiva.

Il passaggio da una situazione di relativa “normalita'” al blocco della fabbrica, con la sospensione di quasi tutti i lavoratori, e' avvenuto in quattro giorni, dal 7 al 11 settembre, di fronte alle immediate richieste di chiarimento rivolte dal sindacato alla Proprieta' con il coinvolgimento del Prefetto; i fratelli Nocivelli hanno risposto che per effetto delle norme che regolano l’amministrazione controllata in Francia, loro (proprietari del 74% delle azioni del gruppo) sono esclusi da qualsiasi possibilita' d’intervento e da qualsiasi decisione, essendo tutti i poteri trasferiti ai commissari nominati dal tribunale francese.

Constatato che non ci sono piu' possibilita' di iniziativa e di decisione, gli azionisti della Ocean hanno deciso di chiedere al tribunale di Brescia l’ammissione all’amministrazione controllata, per evitare che si arrivi alla messa in liquidazione della societa' o al fallimento della stessa.

Il Sindacato e le Istituzioni bresciane, nella situazione attuale della Ocean hanno espresso l’auspicio che questa richiesta venga accolta dalla Magistratura, in quanto consentirebbe di evitare il fallimento, permettendo di ricercare nel tempo una soluzione alternativa che salvi la fabbrica.

La convinzione del Sindacato e' quella che la Ocean sia un’azienda fondamentalmente sana dal punto di vista industriale, che negli ultimi anni ha visto un notevole piano di investimenti che ne ha migliorato la competitivita' ed accresciuto l’occupazione con l’inserimento in fabbrica di circa 200 giovani nuovi assunti. Ci dobbiamo battere per tutto questo perche' il patrimonio fatto di capacita', esperienza, conoscenza e  professionalita' degli oltre 900 lavoratori coinvolti non venga distrutto.

La Ocean oltre ad essere una fabbrica e' a mio parere una comunita' (nel valore piu' alto del termine), che negli anni ha visto formarsi e crescere interi nuclei familiari, ed e' la base dell’economia di interi paesi, anche per questo dobbiamo fare il possibile perche' tutto questo resti e non venga cancellato.

Tutto cio' e' possibile se l’intera societa' bresciana sapra' unire il contributo di tutti attorno all’obbiettivo della salvezza della Ocean. Tutti gli sforzi vanno orientati in primo luogo per far si che il Tribunale accolga la domanda di amministrazione controllata, che le banche ed i fornitori diano prima il loro consenso a questo percorso giudiziale e poi mettano a disposizione le risorse indispensabili per garantire la continuita' dell’attivita' produttiva, che il consiglio di amministrazione dell’azienda dia continuita' alla gestione aziendale con criteri di trasparenza, coinvolgendo il Sindacato ed i lavoratori in tutti i passaggi della fase di amministrazione controllata.

Alle quattro ore di sciopero generale dei metalmeccanici hanno aderito la grande maggioranza dei lavoratori (80%) e alla manifestazione sindacale che si e' svolta nel Comune di Verolanuova vi hanno partecipato diverse migliaia di lavoratori provenienti dalle fabbriche della provincia. Uno sciopero analogo e' stato effettuato dai lavoratori di La Spezia in quanto i 420 dipendenti della ex S.Giorgio  rischiano di perdere il posto di lavoro poiche' fanno parte dello stesso gruppo industriale.

Credo che ognuno di noi, di fronte alla grave situazione che ha coinvolto il terzo gruppo industriale europeo del settore degli elettrodomestici, e sopratutto i lavoratori interessati, misurano gli effetti perversi della globalizzazione che, per l’assenza di regole che tutelano i diritti, scarica sui lavoratori tutte le conseguenze.

Infine dobbiamo essere consapevoli che, visto che la famiglia Nocivelli si e' dichiarata impotente a qualsiasi atto che consenta di fronteggiare questa situazione, è indispensabile che le Istituzioni, a partire dal Governo italiano, con le forze politiche, si uniscano nello sforzo di ricercare interessamenti imprenditoriali capaci di rilevare la Ocean per rilanciarne la missione industriale e valorizzare le capacita' dei suoi dipendenti.