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In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - febbraio 1999

 

...e noi del ponte

Paolo Pinardi

 

...che stiamo sul ponte

Luigi Lusenti

 

Siamo tutti clandestini

Maria Vittoria Mora

 

Rileggendo il "libro bianco sulla povertà a Milano"

La redazione

 

9 omicidi in 9 giorni - Vincere l'emotività Superare l'emergenza

Jole Garuti

 

Chiedere giustizia costa: il comitato dei lavoratori cileni chiede solidarietà

 

Gli interrogativi di Fiom e Cgil alla magistratura bresciana 

Maurizio Zipponi

 

Brescia: costituito il Forum

Dino Greco

 

Fiat-Iveco di Brescia: salari e stipendi in discesa

Osvaldo Squassina

 

Attac:"Gettiamo una manciata di sabbia negli ingranaggi"

Gigi Malabarba

 

Altri links: Women's web site story

Luciana Mella

 

L'Europa delle città: I Blues a Napoli non sono tutti tristi

Eugenio Lucrezi

 

Omicidio Franceschi: il fatto non sussiste

Luigi Lusenti

 

Il dovere della memoria

Antonio Corbeletti

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Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

G. Falabrino, L. Miani

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

Fax 02/28.22.423

ilponte@galactica.it

 

Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

 

  ... E noi del ponte 

Spesso e volentieri noi (chi impegnato nella cooperativa editoriale e chi nella redazione) ci siamo interrogati sul senso di questa nostra rivista, se non sia giunto il momento di chiuderla; molti gli argomenti a favore, cosi' sintetizzabili: Siamo in campo dal '92 e sette anni sono stati tanti nel pieno di una transizione politica italiana ancora in corso; non a caso c'è stato un fiorire di riviste durate il tempo di una campagna elettorale o poco più, nonostante avessero alle spalle gruppi di potere, di ceto politico e di editori non sempre piccoli. Ma il vero motivo per cui non ci sarebbe nulla di male se chiudessimo, sta nel fatto che il nostro piccolo operare per tenere viva la prospettiva unitaria di una sinistra moderna e rinnovata, critica e antagonista, in questi ultimi anni - dallo scioglimento del Pci a oggi - è rimasta ferma, per non dire che ha fatto sostanziali passi indietro; mentre qui, dove noi operiamo, la sensazione è quella di un centro del nord ormai attestato, seduto e conquistato dalla cultura neoliberista. Stucchevole pessimismo, dirà qualcuno, di un pezzo di sinistra sparsa e ai margini dei vari percorsi dei partiti della stessa; può darsi, rimane il dato politico ricordato; ancor più crudo nel momento in cui a livello nazionale è in corso quella che avrebbe dovuto essere l'occasione storica di una sinistra che nel suo complesso affrontava la sfida del governo. Probabilmente, nonostante tutto, riusciamo a trovare nuovi stimoli per continuare, incontriamo altri come noi o potenziali esperienze in corso, accomunate da un voler stare fuori dal gioco politico diretto e immediato, per cercare di influenzarlo con il proprio lavoro quotidiano, ciascuno nel proprio ambito, sapendo che, nel momento in cui si tocca il punto più basso di unità e lucidità si mettono in moto reazioni e meccanismi contraddittori che vanno da una certa "antipolitica di sinistra" allo scatto di nervi di una sinistra diffusa nel sociale che dà per scontato per un certo periodo di non poter contare sul livello politico. In ogni caso, con tutte le nostre contraddizioni, non rinunceremo a riflettere e a far riflettere; ad esempio chiediamo ai compagni della sinistra dei Ds, proprio perché condividiamo le posizioni espresse su questioni importanti come la parità scolastica, il referendum, la flessibilità, se non è arrivato il momento da parte loro di riflettere sulla esperienza e influenza dentro una realtà sempre più vuota di identità e militanti, unicamente riempita da gruppi dirigenti divisi tra una prospettiva democratica e ulivista lacerante (la crisi del rapporto tra Veltroni e Prodi) e l'altra di un D'Alema statista autosufficiente dentro un centro-sinistra strategicamente condizionato non tanto da un Cossiga, ma soprattutto dal rapporto con grande industria, chiesa e altri che segnano il cammino del suo governo. Chiediamo ai compagni di Rifondazione di ripensare l'approdo (l'isolamento) sul quale si sono attestati, non per rientrare puramente nel gioco della tattica e della visibilità, ma per farci capire non solo la loro prospettiva ma, conseguentemente, anche quella di una parte importante della sinistra. Quindi continueremo tenacemente con la nostra linea editoriale, dell'approfondimento critico della società milanese-lombarda nelle sue varie pieghe, dentro un contesto europeo e globalizzante che la pervade profondamente, ma sopratutto delle potenzialità di un tessuto sociale e culturale che non cede, di una rete associativa che copre i buchi della sinistra politica senza per questo volersi contrapporre ma anzi stimolando. E' questo il senso di un rapporto quasi naturale che abbiamo costruito con i compagni del Forum milanese per un'alternativa al liberismo , luogo di incontro per la sinistra sociale e politica che non si adegua al pensiero unico. Lo stesso prendersi carico del ruolo non formale di direttore da questo numero, da parte di Luigi Lusenti, socio della cooperativa editoriale e collaboratore da anni della rivista ma sopratutto uomo dell'associazionismo e del pacifismo milanese, va in quella direzione e segna la volontà di rilancio de il ponte...

 

 

...Che stiamo sul ponte 

Il ponte della Lombardia entra nel suo ottavo anno di pubblicazione mentre finisce il secolo e il secondo millennio passa la mano. Però non è di questo che mena vanto la rivista, ma di esservi arrivata attraverso l'autofinanziamento e senza aver mai fatto a meno della propria autonomia. Che non è cosa da poco! Durante il suo settenato, Il ponte della Lombardia ci ha raccontato piccoli e grandi fatti, turbamenti mondiali e perturbazioni di casa nostra: la fine dell'Unione Sovietica e la guerra in Jugoslavia, Tangentopoli e le pailletes berlusconiane, la vittoria dell'Ulivo e l'approdo di D'Alema a Palazzo Chigi. E ancora: l'odissea del popolo curdo e il leghismo nostrano, la divisione del partito comunista e la nascita dei neo, dei post e degli ex comunisti, il diritto al lavoro e il diritto all'ozio. Continuare a farlo, con lo stesso spirito, con la voglia di stare a sinistra, con l'arma della critica e l'onesta dell'autocritica, come è stata fino ad ora abitudine de Il Ponte della Lombardia, è il primo impegno che mi sento di prendere da nuovo direttore della rivista. Una continuità che è anche segno di stima e di fiducia, oltre che di affetto, nei confronti del collettivo redazionale della cui fatica il giornale è frutto.

"Il passato, dice Vittorio Foa, non ci dà risposte. Consente solo di formulare meglio le domande." Mentre scrivo, 3 gennaio, passano monotonamente, in televisione e sui giornali, infiniti interrogativi sul nostro futuro e sulla scadenza per cui si sprecano aggettivi epici, quella del 2000. Perfino la moneta, lira, marco o franco che sia, non ha avvenire, segnata nel destino dall'invadenza dell'euro. L'ultimo segmento del ventesimo secolo, il 1999, appare cosi' come una semplice ritualità burocratica, un fastidioso impegno da sbrigare in fretta e senza sforzi significativi. Io, invece, vorrei proporre un gioco: mettere una di fianco all'altra le copertine della nostra rivista, leggere i titoli di apertura e quelli del sommario, rivisitare gli indici. Scopriremmo che non poco del nostro bagaglio traslocherà nel duemila. Ci chiederemo ancora, fra meno di cinquanta settimane, di che colore è la pelle del vicino di casa; quanto c'è di mostruoso in un uomo che ama i bambini; se destra e sinistra hanno ancora un senso; se la fine della storia non sia anch'essa giunta al termine. Ci chiederemo quanto della nostra vita può essere dedicato agli altri e se il sesso ha senso ormai solo nel mondo virtuale di Internet e dei 144. Ce lo chiederemo forse come uomini di un altro millennio collocati in un tempo che ci apparterrà sempre meno. Ma non sarà l'età, l'anno in più che ognuno di noi avrà, a causare la perdita di identificazione nel presente. Sarà, come dice il vecchio saggio che si avvia a compiere i novant'anni, l'incapacità di porsi le domande nella maniera giusta. "Porre le domande in maniera giusta": dovrebbe essere, ma sappiamo tutti che non è cosi', il primo impegno di chi fa comunicazione. Il più delle volte anzi si rifugge dall'interrogarsi come fosse una pedante disciplina, un noioso bizantinismo. Come se la notizia non fosse anch'essa un manufatto che va inteso, elaborato e rifinito. L'enorme mole di notizie alla quale siamo abituati più che orientare disorienta, atrofizza la nostra capacità critica. Tanto, in questo caso, è sinonimo di nulla. Il risultato è una montagna di fatti e di conoscenze che, con la stessa velocità, svanisce, consumando se stessa e l'attenzione del lettore.

Il ponte della Lombardia opera invece in modo diverso. Alla ricerca spasmodica della notizia spettacolo, del lancio morbosamente gettato verso il lettore, preferisce la sostanza del reale, la ricerca e l'attenzione delle fonti essenza stessa dell'informazione. Gli eventi sono raccontati molte volte dagli stessi protagonisti, spiegati all'interno dell'esperienza sociale che rappresentano, interpretati nelle condizioni e nei movimenti che li determinano. Alla totalità generica e livellatrice preferisce la parzialità delle differenze, al pensiero unico l'eresia del pensiero sovversivo, al glamour dell'opera perfetta le "idee che fluttuano nell'aria", la sperimentazione e il senso del divenire.

Sarà per questo che il ponte della Lombardia è cosi' attento alle persone, agli uomini e alle donne nella loro quotidianità, non nell'immaginazione virtuale degli spot pubblicitari o delle trasmissioni a premi. Sarà per questo che il ponte della Lombardia osserva con interesse alle loro costruzioni quotidiane, alle loro espressioni politiche, culturali, sociali e di costume: i partiti, il movimento sindacale, l'associazionismo. Ma non solo. Guarda ai fenomeni nuovi, di massa e di élite, cercando di cogliere, come diceva Vico, anche in quello che sembra porsi di traverso, opportunità che diano senso al presente e al futuro. Coscienti che l'ultima pagina che scriviamo è anche la prima, oggi come ieri.

 

 

 

Brescia: costituito il FORUM 

Abbiamo scelto di intitolare il Forum "per una alternativa al liberismo", in quanto pensiamo che l'organizzazione sociale generata dal dominio assoluto del mercato sulla vita degli esseri umani stia producendo, ormai in tutto il pineta, guasti gravissimi. Nell'appello diciamo: tutto, della nostra vita, è sovradeterminato dal circuito produzione - consumo; tutto, le relazioni umane, gli stili di vita, i modelli di comportamento sono scanditi dai ritmi, dalle esigenze, dalle compatibilità dettati dalla produzione delle merci. Un solo valore si propone come assoluto: la competitività. La concorrenza sul mercato delle merci fa premio su tutto, ogni cosa si relativizza al suo cospetto e ne viene condizionata, coartata: la sicurezza nel lavoro, i diritti nel lavoro, le condizioni di lavoro. Cosi' si produce il sequestro del tempo, l'uso dissennato della natura (intesa solo come risorsa per la produzione). Ma è in generale tutta la vita comunitaria ad essere penetrata da questo modello perverso che riduce le stesse relazioni sociali a relazioni mercantili, dove trionfa il primato del denaro. È il denaro lo strumento e l'obiettivo dell'emancipazione: esso può dare tutto, è la protesi, il pass par tout universale che può aprire ogni porta, con il quale si possono comprare non soltanto oggetti, ma anche tutto ciò che non si è: dignità, status, persino affettività. Ecco allora che quella competitività che regola i rapporti economici diviene legge fondamentale della società, diviene cioè competizione ad oltranza fra gli individui, gli uni con i piedi sulla testa degli altri, in lotta perenne per l'appropriazione privata, per tracciare confini, innalzare steccati. Cos'è, in definitiva, la deriva secessionistica se non la plastica rappresentazione della divisione dei ricchi dai poveri, dei garantiti dagli emarginati, l'esibizione tracotante della separatezza, dell'egoismo in luogo della comunità solidale. Basta mettere insieme gli scampoli della nostra vita e della nostra esperienza quotidiana per capire che viviamo in un mondo rovesciato: -se duecento persone sono proprietarie di più della metà della ricchezza del pianeta, mentre tre miliardi di esseri umani vivono sotto la soglia della sussistenza e mentre trecento milioni di bambini muoiono di fame ogni anno; -se quando una società quotata in borsa licenzia, il valore dei suoi titoli cresce; -se in un organismo mondiale come l'OSCE si lavora ad un accordo che consenta alle imprese multinazionali di proteggere i loro investimenti subordinando ad essi persino le costruzioni nazionali e le sovranità dei governi; -se la questione curda, imposta all'attenzione generale dal caso Ocalan, si misura in termini di quote di mercato perso e in affari italiani compromessi in Turchia; -se il diritto al lavoro, alla sicurezza, alla salute, alla previdenza, all'istruzione non sono degni di un aumento del PIL, perché l'unica cosa che conta sul serio è la remunerazione del capitale investito;

Allora, con Alex Zanotelli, diciamo "se l'economia distrugge la vita, vuol dire che bisogna cambiare strada" e rifiutiamo questa espoliazione di senso della vita. La politica è distratta, distante, piegata ad una sorta di vassallaggio verso questa ideologia onnivora dell'impresa. Occorre riaffermare un'idea della politica come governo della società umana sull'economia, come riappropriazione dei fini. Se ci pensate: la globalizzazione collega in tempo reale ogni punto del mondo, abolisce distanze, eppure mai gli individui sono apparsi cosi' isolati, atomizzati, omologati; individui astratti perché deprivati della propria individualità: altro che libertà. Quanto, di questa rappresentazione, è percepibile nella nostra città, nella nostra concreta esperienza?

-Una città che non riesce ad aprirsi al fenomeno migratorio, che lo vive con angoscia crepuscolare, decadente, anziché coglierne le opportunità e produrre accoglienza. -Una città ed un'intera campagna elettorale miope, avvitata sulle misure d'ordine, sull'enfatizzazione dei sentimenti di paura, e spesso sconfinata nell'intolleranza e nel pregiudizio razziale. -Una città ricca, il cui apparato industriale supera i quarantamila miliardi di PIL, ma che produce anche settanta morti e ventitremila infortuni sul lavoro all'anno, dove si può morire in fabbrica a ventidue anni lavorando come si lavorava agli albori dell'industrializzazione; -Una città nella quale l'amministrazione della giustizia si ferma quando deve contrastare i poteri forti e quando la parte lesa coincide con quella più debole, con i lavoratori e i cittadini senza tutela. -Una città che sta conoscendo un preoccupante fenomeno di descolarizzazione, dove gli adolescenti vanno al lavoro e dove gli invalidi ne restano esclusi perché le imprese non li vogliono. -Una città piena di barriere architettoniche. -Una città dove non si ricicla un solo metrocubo d'acqua consumato per scopi industriali e dove l'inquinamento dell'aria e del suolo ha raggiunto limiti insostenibili.

Ecco, l'appello dice: rimettere al centro quel che è divenuto eccentrico, le persone, le relazioni umane, il rapporto con la natura. Cioè rompere con la rassegnazione, la passività, l'assuefazione, l'atteggiamento adattativo che consegnano all'inazione. Ricostruire un pensiero critico, non piegato alle mode, dare visibilità ad un'altra e diversa azione politica e sociale capace di scuotere la città dal suo torpore, tentare di coinvolgere le energie migliori.

Cosa possiamo fare? Molti di noi fanno già qualcosa: non c'è il deserto. Questo avviene in ambiti diversi: nei movimenti pacifisti, ambientalisti, ecologisti, nelle associazioni del volontariato, nel sindacato. Ci sono persone che mettono la propria concezione etica nell'ambito professionale e li' vive il loro impegno civile. È certo importante, ma forse non basta.

Tra queste schegge di iniziativa sociale, di "resistenza" civile non c'è comunicazione. Sono esperienze importanti, probabilmente insostituibili, ma inevitabilmente consegnate alla parzialità, talvolta solo testimonianze individuali. Occorre unire quelli che non si rassegnano: costruire un luogo dove le esperienze e le culture diverse si incontrino, si contaminino e concorrano a lavorare ad un progetto, a più progetti che diano il senso di una vera e propria rinascita. Non si tratta di dare vita ad un impossibile cartello di forze o associazioni: deposti simboli, insegne e gradi, ogni persona aderisce al Forum a titolo personale, porta in dote solo se stesso, la propria intelligenza, la propria esperienza, la propria passione, con la disponibilità a mettersi in discussione, a dire e ad ascoltare, mettendo al bando pregiudizi, settarismo, fondamentalismi di ogni sorta. Oggi ci sono qui operai, impiegati, professionisti dei più diversi rami, sacerdoti, sindacalisti. Persone davvero diverse per storia personale, formazione, cultura, ambiti dell'impegno. A nessuno chiediamo di rinunciare a fare ciò che fa nelle organizzazioni o associazioni che ognuno ha scelto. Nessuna "reductio ad unum" ma uno sforzo per andare oltre, perché nessuno ce la fa da solo e la realtà sotto i nostri occhi ne è la dimostrazione.

Cosa si può fare? Ci sono cose che potremo fare direttamente come Forum, poi ci saranno le ricadute che il lavoro comune determineranno in ciascuno e che ognuno di noi porterà con sé come arricchimento quando tornerà a svolgere il proprio lavoro. Insomma, è un mettersi in rete. Sul piano operativo: poiché non si può chiedere a tutti di occuparsi di tutto, costituiremo dei gruppi di lavoro o, per meglio dire, delle aree tematiche. Con una precauzione: quella di evitare raggruppamenti verticali, omogenei, per cui i sindacalisti si occuperanno del lavoro, gli ecologisti dell'ambiente, i pacifisti della pace, gli immigrati dell'immigrazione, e via dicendo. Se seguissimo questa strada finiremmo per rigenerare quella separatezza, quella parzialità, quello specialismo che è nostro intendimento superare proprio attraverso l'incrocio di esperienze e culture diverse. Tenteremo anche di contribuire a sprovincializzare il dibattito cittadino, ad aprire qualche finestra, a tessere collegamenti, favorire incontri. Affronteremo temi locali. Affrontare questioni locali non vuole dire affatto "volare basso". Si possono fare localmente cose che parlano un linguaggio universale. L'impegno concreto - ed il nostro vuole esserlo - si esercita sempre in una realtà determinata, ossia locale, altrimenti diventa astratta retorica e accademia. In questo senso si esprimeva Alce Nero, guerriero Sioux e grande poeta quando diceva che "ogni luogo può essere il centro del mondo". Non esiste prospettiva che dia senso ad un lavoro se non quella che ti fa sentire, mentre operi nel tuo quartiere, cittadino di tutto il tuo paese, dell'Europa, del mondo, verso i quali sei responsabile.

Fare cultura - scrive Claudio Magris - significa sempre sentire e pensare in grande, avere il senso dell'unità al di sopra delle differenze, rendersi conto che l'amore per il paesaggio che si vede dalla propria finestra è vivo solo se si apre al confronto col mondo, se si unisce spontaneamente in una realtà più grande, come l'onda nel mare e l'albero nel bosco. Proviamoci!

 

 

 

Il dovere della memoria 
Potrebbe sembrare una normale e forse banale lezione di storia. Ed alcuni dei giovani che siedono in platea ritengono sia cosi', perché abbozzano qualche lazzo, tentano una risata. Invece l'uomo con i capelli bianchi che ha appena iniziato a parlare al microfono si blocca e con grande durezza richiama l'attenzione di tutti su quello che è venuto a dire, sulla sua testimonianza ­ che lo costringe ogni volta a soffrire di nuovo ed a rivivere nello spazio di poche ore l'intera sua drammatica esperienza. Bastano pochi minuti per ritrovare una sala immobile e attenta, che senza nessuna eccezione accompagnerà silenziosamente il testimone fino alla fine del racconto. Cosi' Nedo Fiano ­ deportato ad Auschwitz e passato per altri sei campi nazisti prima di essere liberato nel marzo '45 a Buchenwald ­ con la sua giacca stinta dalle righe azzurrine appoggiata come un simbolo sul tavolino carico di appunti, conduce per mano quasi duecento studenti liceali vogheresi nel lungo tunnel della discriminazione e della persecuzione contro gli ebrei. Discriminazione iniziata nel nostro paese con le infami leggi razziste del 1938: cacciato a 13 anni dalla scuola come altre migliaia di giovani ed insegnanti ebrei. Evitato dai suoi ex compagni, indicato dalla gente per strada, conosce il significato delle parole "indifferenza" e "pregiudizio". Il passo successivo, alcuni anni dopo è la deportazione. Con 11 dei suoi famigliari, tra i quali la madre. Nessuno di loro farà ritorno dal lager. Sette giorni e sei notti per arrivare ad Auschwitz: di un convoglio di circa 900 uomini e donne, quasi 800 finiranno nei forni crematori. Il vagone piombato, usato per una dozzina di cavalli, trasporta invece dalle 45 alle 50 persone. In pratica i posti a sedere ogni due, tre ore venivano scambiati, offerti ai più deboli ed anziani. La destinazione è ignota, le persone accalcate fino a soffocare e e animate da tensioni, paure, ottimismo, speranze, ansieÉ Una umanità che viene scaraventata giù dal vagone, divisa tra uomini e donne, lacerata negli affetti, con lo sfondo delle lingue di fuoco dei forni che già stavano spegnendo i loro amici, i loro compagni. L'ultimo abbraccio con la madre, che perderà la vita due settimane prima dello sbarco in Normandia. Una commozione intatta e non trattenuta nel lucidissimo racconto di Fiano, a dimostrazione di come il tempo non serve a lenire ferite e dolori. Nedo è giovane, forte, conosce la lingua degli aguzzini ­ una mano lo spinge in avanti di fronte alle richieste delle SS e cosi' si salva. Il sottufficiale nazista, saputo che viene da Firenze si entusiasma e lo sconvolge con un monologo sull'arte ed i monumenti. Entra nel gruppo destinato a svuotare i vagoni dopo gli arrivi. È testimone di moltissimi episodi strazianti. Tra i tanti resta incancellabile l'immagine del gruppo di piccoli ebrei che si avviano verso la morte tenendo stretti i loro giocattoli, mentre un raggio di luce attraversa i capelli di una bimba. Non sono pochi i presenti che sobbalzano sulla sedia quando Fiano ripete, urlando nel microfono, l'ordine di alzarsi, impartito ogni mattina, cosi' come gli altri comandi che scandivano la vita del lager e decidevano anche della vita o della morte del deportato.

Auschwitz come fine della storia, dei suoi cari, di tutto quello che esiste di umano. Auschwitz meta finale di oltre un milione di persone assassinate: ebrei, partigiani, omosessuali, zingari. É La conclusione di una grandissima lezione civile viene riassunta nell'imperativo di Primo Levi a non dimenticare. L'appello di Fiano è invece un ripetuto richiamo al senso di responsabilità, al non voltare le spalle a chi, specie se minoranza, è colpito, a contrapporre all'indifferenza la solidarietà. Parole che ci chiamano in causa, tutti, in questo triste presente per difendere la memoria e non cancellare il passato.