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In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - giugno 1999 n. 53 

 

Le guerre dei Balcani

Luigi Lusenti

 

Uno sguardo dai Balcani: che nome dare a questo secolo

Aziz Hadzihasanovic

 

Le cause della guerra

Gianluigi Falabrino

 

"Carovana della Pace" 30 aprile-5 maggio 1999

Flavio Mongelli

 

Sindacato diviso anche sulla guerra

Carlo Gnetti

 

Guerra e tangenti: la storia esemplare di una base militare

Eugenio Lucrezi

 

Germania: la guerra in sordina

Luciana Mella

 

Una tragedia che segnera' i secoli futuri

Giacomo Scotti

 

Ultimo appello al governo

Appello del Forum milanese per l'alternativa al neoliberismo

 

Cannes: la guerra non abita qui

Marcello Moriondo

 

Il mondo del lavoro di fronte alla guerra

Maurizio Zipponi

 

Le sinistre europee e la guerra

Gli atti dell'incontro de il manifesto Milano, 22 aprile '99

Interventi di Edgardo Bonalumi Lucio Magri , Alfonso Gianni

Aldo Tortorella GianPaolo Patta Luigi Lusenti

Stefano Mele Basilio Rizzo Valentino Parlato

 

Forum per un'alternativa al liberismo 

Assemblea programmatica - Roma, 26 e 27 aprile

Relazioni e interventi di: Giorgio Cremaschi Dino Greco Fulvio Perini

 

Piccola storia di globalizzazione

Antonio Corbeletti

 

OM Iveco: raggiunto l'accordo sindacale

Osvaldo Squassina

 

16.000 contro 30 

A.C.

 

Cervesina: in principio erano ciribelle ...  

S.R. - A.C.

Lega e dintorni: come trasformare il razzismo in cultura politica

Guido Caldiron

 

Urbano: prigioniero di Pinochet "pericoloso per l'Italia"

 

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Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

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Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

 

  Uno sguardo ai Balcani

Come definire il secolo al quale apparteniamo e che sta per tramontare? Come chiamare il secolo che sta per superare la soglia del terzo millennio? Come denominare il ventesimo secolo senza che in questa immanente definizione vi sia anche la necessaria simbologia e la ancora piu' necessaria verita'? Cosi', all'incirca, New York Times (19 marzo 1995) ha spiegato ai suoi lettori il senso e gli intenti del concorso indetto per dare la denominazione piu' appropriata all'epoca in cui viviamo. Tutto, forse, almeno per quanto riguarda le cattiverie balcaniche, potrebbe essere rappresentato come un capriccioso passatempo dei potenti media occidentali, se le prime indicazioni e le prime reazioni all'iniziativa del prestigioso giornale americano non avessero puntato il dito proprio su di loro, sugli sciagurati e non meglio definiti "Balcanoidi". Nel loro nome e in nome delle loro follie (balcanizzazione come sinonimo delle sfrenate passioni storiche, simbolo della crudelta' brutale, delle guerre religiose, delle divisioni barbariche, dei miti nazionali senza misura, della distruzione, dell'atavismo, del genocidio, dell'urbicidio, delle primitive manie nazionalistiche, delle idolatrie) in modo autorevole si misurano, purtroppo, l'inizio e la fine del secolo a cui apparteniamo. Il secolo di un pianeta intero. Su questa rovesciata "dimensione balcanica" del nostro tempo, alla sua maniera, ha messo sull'avviso, in un interessante saggio Furio Colombo (La Repubblica 25 marzo 1995) lamentandosi largamente, con argomentazioni, sulla citata iniziativa dell'affermato giornale newyorchese. Non possiamo, dunque, rimanere indifferenti di fronte a qualcosa che, come Balcanici, come popoli innanzitutto fino a ieri appartenenti alla comunita' degli Slavi del Sud, ci mette ingloriosamente, tragicamente, tristemente al centro del dramma mondiale e del secolo che, gia' a meta' del suo corso, Dean Acheson, Segretario di Stato al tempo del presidente Truman e ideatore del piano Marshall, con istintiva saggezza, ha intuito come "un'epoca nera". A quel tempo ancora non si poteva neppure intravedere il cataclisma della dissoluzione delle comunita' jugoslave alla maniera e nello stile balcanico. Non possiamo, anche se lo volessimo, quindi, restare estranei a cio' che ora, al tramonto di un secolo e con sempre maggiori argomentazioni, viene definito "sindrome balcanica" dell'attuale stato dell'intera umanita' nel cui ambito proprio i Balcani, con i loro mattatoi, danno un marchio all'intero destino di questa epoca. Dean Acherson, vogliamo precisare, disse allora, che l'epoca era nera non solo perche' vedeva un futuro annebbiato, ma anche perche' vedeva incomprensibile e annebbiata la strada che conduceva ad essa. Mezzo secolo piu' tardi i Balcani l'hanno confermato brutalmente. La generalizzazione della conoscenza centenaria del mondo all'incontrario, secondo le caratteristiche e le manie dei popoli balcanici, di per se' e' un fenomeno che provoca stupore. Un secolo intero di tragici e drammatici movimenti in un luogo del Mediterraneo da', quindi, un marchio al cammino attuale della civilta' mondiale. Da' un marchio alle definizioni universali morali, etiche, sociali, culturali e storiche del mondo contemporaneo. Troppo peso per un territorio geografico di poco rilievo. Dove si trova, allora, la sostanza di questa assurdita'? Perche' il mondo in questi giorni regola la sua esistenza centenaria, i suoi passi pluridecennali, i suoi dilemmi e i suoi progressi a misura degli sfracelli sfrenati e controversi dei Balcani? Cosa c'e' di tanto drastico, fosco e contagioso nella famosa "sindrome balcanica"? Fino a che punto le conseguenze delle tragedie balcaniche effettivamente piagano e irritano gli scrupoli morali del mondo d'oggi? Dal punto di vista dei dilemmi morali generali del mondo contemporaneo, seguendo le tracce di una adeguata definizione della nostra epoca, il Dottor Samuel Huntington, dell'universita' di Harward, con tinte cupe, del tutto irrazionali e irreali, fotografa lo "scontro delle civilta'" come un triste panorama del mondo spezzato dalle guerre e divisioni ideologiche e religiose. Il suo collega, della stessa universita', Prof. Stanley Hoffman, disegna il mondo contemporaneo, contagiato dal "virus balcanico", come un palcoscenico in cui mini stati e maxi interessi di giganti mondiali finanziari recitano un dramma crudele in cui, in realta', si inserisce la restante coloritura dei conflitti tragici e degli spargimenti di sangue. Il Prof. Arthur Schelesinger esamina, dal punto di vista di quanto sollevato dal prestigioso giornale newyorchese, cos'e' veramente in generale la "nostra epoca" e cerca di osservare attraverso una lente il pauroso processo di "balcanizzazione del mondo contemporaneo" e i fatali conflitti e le divisioni ideologiche e religiose. Il Prof. Steiner utilizzera' proprio questo dilemma - dilemma: si tratta o non si tratta di una vera e propria epoca, posto che le epoche precedenti, piu' o meno, gia' da lungo tempo, hanno modellato e utilizzato le nostre "novita'" (guerre religiose e ideologiche, terrorismo, divisioni brutali, egoismo nazionale e altre manifestazioni di "balcanizzazione tipica") - e con sarcasmo osserva che noi siamo in fondo "soltanto coloro che arrivano dopo". E niente di piu'. La "sindrome balcanica", come lava, ha spinto notevoli intellettuali a riflettere sulla tragicita' universale che accompagna il tramonto di un secolo che e' iniziato e si conclude con i brutali mattatoi balcanici. Coloro che, oggi, stimolati dal concorso indetto dal prestigioso giornale americano, riflettono su come definire la nostra epoca, ovviamente con diverse angolazioni e motivazioni, inseriscono il concetto di balcanizzazione nel contesto della anzidetta definizione del ventesimo secolo. Come se fosse proprio il dramma balcanico finale, di cui intreccio tragico e corso durano ancora, con una fine comunque incerta, globale, comune diagnosi della malattia del mondo odierno. Diagnosi di una impotenza fisica e morale del pianeta di sapersi aiutare con le proprie capacita', di sapere superare il proprio dolore, di sapersi procurare il rimedio. E di sapere definire da se' l'epoca a cui appartiene. Percio' la tragedia balcanica per il mondo contemporaneo e' la propria tragedia, diagnosi allegorica scritta sul palmo della mano. Lo specchio della propria impotenza e indeterminazione. Da li', secondo molte opinioni sulla sostanza e le caratteristiche dell'epoca contemporanea, lo sguardo ossessivo di queste generazioni rivolte al passato, verso "quel prima e una volta". Il cancro balcanico, con la sua densita' e l'intreccio del suo tessuto interno e cellule che erodono e distruggono, sotto questo aspetto e' sicuramente un tragico e drastico "palcoscenico vivente" di lunga durata. Percio' il New York Times, non senza ragione, nel suo concorso-inchiesta sottolinea in particolare il fatto che la "balcanizzazione" e' un concetto piu' ampio, irreale e nostalgico del mondo rivolto al passato; a quel "prima e una volta". Non si sono, quindi, potuti incontrare, in tale contesto, con svariate storiche e politiche nostalgie balcaniche, i paesi e i concetti olitici che vedono e spiegano perfino il passato piu' recente alla rovescia, roseo, unidirezionale, rettilineo, epigonico. Il giornale americano in questo senso fornisce un'ampia gamma delle "nostalgie comuniste" dall'Angola al Guatemala, da Cuba ai rimescolati e spezzettati "feudi comunisti" balcanici ed ex-sovietici. Un noto pensatore americano James Atlas da tale angolazione analizza il termine "post" (dunque, cio' che dovrebbe significare "dopo" e la globale e formale disgregazione del sistema sociale comunista) e dice che, dal punto di vista pratico, il "post" non ha un grande valore vivente e somiglia piu' ad un tragico retrogrado mistero contemporaneo. L'impotenza di rispondere con determinazione e concretezza alla nuova situazione sociale, economica e politica. L'impotenza del mondo a trovare una risposta valida ed efficace alle tendenze umane spietate e agli orrendi mattatoi in nome degli scopi irrazionali, nazionali, religiosi, politici, ideologici, economici e statalisti, nome di una maniaca, folle mitomania del passato. Secondo Atlas la "balcanizzazione" e' proprio nient'altro che un concetto di indeterminatezza e indefinitezza dell'epoca attuale, e gli stessi Balcani un pratico "laboratorio selvaggio" dell'assurdo mondiale. In tali circostanze mentali irrazionali, secondo queste motivazioni, il tempo odierno conduce una battaglia illogica in spazi indefiniti tra potenti e alte tecnologie e un altrettanto forte, furioso fanatismo storico. Per questo negli alti concetti tecnologici troviamo oggi tanto di "spirito feudale", ma anche nell'indicato fanatismo storico tanto di alta tecnologia di questi tempi. Singolare battaglia del passato e del presente in cui gli avversari si rubano le armi l'uno all'altro. Furio Colombo dira' simbolicamente che vede elevate conquiste tecnologiche dei nostri tempi nello sfondo delle tradizioni passate e nella coreografia di un folclore visto tanto tempo fa. Lo scontro in questo tempo e' tra quel prima e quel dopo. Domina la nostalgia, profonda e fatale, del passato, poiche' il presente, malgrado il suo alto livello tecnologico-spirituale, non e' riuscito a ispirare alle popolazioni del ventesimo secolo un entusiasmo autentico e civile ed un adeguato entusiasmo vitale. Questa specie di vuoto di "ispirazione della propria epoca" - come ha detto Umberto Eco nella sua nota lettera al Cardinale Martini (sul 1° numero della rivista Liberal) - ha inchiodato intere generazioni alla propria indeterminazione, avvicinandole cosi' allo "spirito maligno dell'Apocalisse". I nuovi valori, in altre parole, questa epoca li ha pesati ( e li pesa) con le bilance dei tempi passati, quindi, da li' le numerose sorpassate regole anacronistiche delle religioni e ideologie, come un assurdo, come un atto innaturale, diventano un significativo e spesso drammatico criterio del presente. Soffermandoci proprio sull'esempio dell'America questo tipo di idee ricorda l'opinione americana al tempo dell'assurdo e, di fatto, anacronistico cammino di Ronald Reagan verso i piu' alti traguardi politico-statali di quel grande paese. Ha portato la nazione nell'epoca del classico, tanto tempo fa gia' visto, conservatorismo, lentamente e lievemente, offrendo insieme a questo le conquiste umane moderne in nome del passato. Alla fine del secolo stesso, quel concetto della destra americana diventa il "codice degli Ayatollah" e, con molto successo, offre al paese ancora piu' radicali, retrogradi valori del passato in nome della contemporaneita' (punti di vista radicali del leader della destra Newt Gingrich sul ruolo della donna e sul controllo delle nascite, rigidi limiti nella creativita' culturale, piena affermazione della pena di morte, apertura delle carceri speciali per tutti i tipi di isolamento sociale forzato, rigorosita' verso la delinquenza minorile, piena privatizzazione delle scuole, ecc..). Si tratta dello sviluppo di un'idea contraddittoria in un tempo che, come dice Arthur Schlesinger, non e' in grado di riconoscersi. Anche essa, come tale, soggiace ai giudizi che considerano la "balcanizzazione" come l'inizio e la fine degli inganni di questi tempi e come l'inespressivita' dell'epoca a cui si cerca di assegnare una definizione adeguata. Anche essa trova dei collegamenti oscuri con il tragico e contraddittorio destino dei Balcani nel secolo che sta per tramontare. Non si e' saputo l'esito finale del grande e ampiamente studiato concorso del giornale newyorchese. Ma secondo quanto detto fino ad ora e quanto valutato e, innanzitutto vissuto, non dovrebbe sorprendere se il periodo al quale biologicamente e storicamente apparteniamo venga generalmente definito "epoca assurda". In questo caso i Balcani, a loro modo crudeli e tragici, aiuteranno il pianeta a riconoscere in tale denominazione simbolicamente la propria epoca e tutte le sue assurdita'. Gli stessi che da soli, barcollando, insanguinati, con la loro stessa cecita' e la loro follia, si avvicinano alla soglia del terzo millennio. Non si riconoscono. Ne' adesso, ad occhi aperti, sono in grado di vedere il proprio sangue come simbolo di riconoscimento di tutta un'epoca. Sono diventati i testimoni folli della pazzia mondiale del ventesimo secolo.

Lucio MAGRI

Sulla guerra e contro la guerra tutti noi abbiamo compiuto in queste settimane scelte abbastanza chiare e concordi e detto tutto cio' che era possibile, o almeno cio' di cui eravamo capaci. Rischiamo quindi di ripeterci l'uno con l'altro. A cosa puo' servire, quindi l'incontro di stasera, su cosa, che non sia ovvio, vale la pena di discutere e di prendere posizioni piu' chiare? Credo su due nodi Primo: cosa rivela la guerra di profondo, e forse non ancora del tutto compreso, della situazione presente dell'Italia e del mondo e quali nuove tendenze essa puo' scatenare per un futuro anche non prossimo? Secondo e conseguentemente: cosa impone la guerra di nuovo al nostro modo di pensare e ai nostri comportamenti pratici, se vogliamo sul serio contrastarla e fermare le tendenze di piu' lungo periodo.Sul primo punto. Mi pare evidente che la guerra balcanica funziona un po' come uno straordinario rivelatore dello "stato di cose presenti", soprattutto in Europa. Se cio' che essa rivela non ci piace, ed anzi ci angoscia, sarebbe stupido pero' ignorarlo o nasconderlo. E se mette in discussione non poco delle nostre convinzioni anche recenti, delle nostre speranze e del nostro modo di essere e di agire, sarebbe ancora piu' sciocco non prenderne atto per cercare di correggerlo.Cosa rivela, dunque, la guerra? Anzitutto il grado di mutazione in atto e di crisi della sinistra in tutta Europa, seppure in modo diverso nelle sue differenti componenti. Negli ultimi anni, addirittura negli ultimi mesi, la sinistra e' arrivata al governo quasi ovunque nei paesi europei, ed in molti casi si e' trattato di tutta la sinistra nelle sue diverse ispirazioni e comportamenti. Su questa novita' noi tutti abbiamo investito speranze: la sinistra e' arrivata al governo sulla spinta al rinnovamento che maturava nella societa' e in molti suoi movimenti, nel momento in cui si compiva l'unificazione economica europea ed insieme maturava la crisi del modello sociale e culturale europeo. Dunque non a caso questo arrivo al governo rifletteva qualche volonta' della sinistra di autonomia e di svolta rispetto al passato. La difficolta' di questa svolta era gia' emersa anzitutto sul terreno della politica economica, ad esempio nella rottura della maggioranza del 21 aprile in Italia o, piu' di recente, nella liquidazione di Lafontaine in Germania, o, ancora, nella rottura clamorosa della solidarieta' nella sinistra europea operata da Blair in occasione del bombardamento recente sull'Iraq.Nel segnalare queste difficolta' la guerra balcanica costituisce un vero e proprio salto di qualita'. La sinistra oggi al governo, di fronte alla crisi del Kosovo, non e' stata capace ne' di una iniziativa per impedire la guerra, ne' di frenarne l'escalation dopo che era iniziata, ne' di rilanciare una proposta di trattativa per sospenderla, ne' di affermare una qualche autonomia di gestione rispetto alle scelte degli Stati Uniti. In sostanza la sinistra e' stata, ed e', complice e protagonista di questa guerra, senza neppure che siano nati all'interno delle sue forze maggioritarie conflitti di un certo peso, ne che si determinasse un ampio dissenso nella sua base sociale, come ad esempio era avvenuto negli anni '80 in relazione alla questione dei missili.Come e' avvenuto tutto questo, e cosa significa? Non credo si tratti solo di opportunismo di ceti politici interessati a rimanere comunque al potere, o di un antico riflesso alla cosiddetta "lealta' atlantica" , ma non credo nemmeno si tratti (perlomeno a livello di gruppi dirigenti della sinistra di governo) dell'esplosione di una sorta di passione umanitaria che tutto travolge e che produce magari anche degli errori. Non e' possibile infatti che sia la passione umanitaria quella che porta ad intervenire contro certuni che minacciano la pace ed i diritti umani, mentre scompare poi in altre situazioni; che diventi tanto travolgente nel caso della Serbia e del Kosovo e manifesti non solo prudenza, ma indifferenza rispetto a questioni attuali e altrettanto drammatiche come le questioni curda, del Centro America e croata per fare degli esempi. E non credo sia la passione umanitaria a suggerire la sepoltura dell'ONU, cioe' di una istituzione che sola potrebbe dare a questo difficile e peloso problema dell'interventismo umanitario legittimita', continuita' ed equilibrio. Non credo sia la passione umanitaria a rovesciare il rapporto tra guerra e politica, ne, dopo aver visto le conseguenze umanitariamente disastrose dell'intervento, che possa spingere a lasciar cadere o rimuovere ogni possibilita' di ripensamento, ogni proposta di trattativa e di tregua. La ragione, dunque, che muove i gruppi dirigenti della sinistra di governo deve essere ricercata in qualcosa di piu' forte, a suo modo di coerente, e percio' stesso di ancora piu' pericoloso.Questo qualcosa riguarda l'assetto del mondo. La fine dell'equilibrio bipolare che ha garantito a suo modo per decenni una qualche governabilita' dei conflitti e dei rapporti internazionali, dopo il 1989 si e' esaurito; ma nel contempo, nel mondo, il mercato globalizzato, anziche' ridurre ha alimentato nuovi conflitti etnici nazionali e nuove crisi regionali cruente. Allora il problema che si e' posto e' come si governano e come di contengono queste situazioni di crisi con i loro tragici riflessi nella violenza. Una strada possibile, e da tutti a parole accettata, era quella della costruzione di un cosiddetto "governo mondiale" multipolare, la valorizzazione delle Nazioni Unite, la priorita' data alla politica, per affrontare i temi ed i nodi che stanno alla base dei conflitti insorgenti. Ma per perseguire quella strada, per superare una crisi dell'ONU che era nei fatti dopo la fine della guerra fredda, era necessario coinvolgere ed insieme aiutare alla stabilizzazione grandi forze, grandi potenze, in atto o in fieri, come la Russia e la Cina. Era necessario, in sostanza, limitare il puro dato di fatto che era sopravvissuto alla guerra fredda, cioe' l'esistenza di una sola super potenza.Non potendo, non sapendo, e forse soprattutto non volendo prendere questa strada, ecco la radice del ragionamento che porta la sinistra di governo a questa scelta: il bisogno di inventarsi una qualche forma di supplenza dell'ordine mondiale. Questa forma di supplenza, gia' pronta, non poteva che essere la NATO e gli Stati Uniti che ne garantiscono i mezzi militari. Questa linea di stabilizzazione del mondo e del potere che lo regola ha e avra' conseguenze di enorme portata, ben al di la' della crisi attuale: significa gettare le premesse di un nazionalismo a lungo termine, per ora impotente, ma per il futuro inquietante, in grandi nazioni e continenti come la Russia e la Cina, e significa soprattutto ribadire la subalternita' non solo militare ma economica, culturale, sociale dell'Europa agli Stati Uniti. Una sorta di rivisitazione del concerto europeo della fine del secolo scorso ma questa volta non con un equilibrio di potenza ma con la supremazia netta di una sola potenza. Questo e' il fondo della scelta che e' prevalsa anche nella sinistra di governo. Con una particolarita': che questa visione di real politik, che caratterizza tutte le classi dirigenti nella sinistra, non puo' trovare esplicitamente il consenso di una vasta base sociale se non nel nome della emergenza umanitaria usata come intossicazione ideologica¸ dell'emergenza umanitaria che diventa giustificazione pelosa e manipolata. E allora ecco la guerra civile, la repressione brutale che diventano "pulizia etnica", la pulizia etnica che viene descritta come "genocidio", il genocidio come "olocausto", Milosevic come Hitler. Per portare avanti questo progetto di sostanza per la sinistra diventa naturale l'impiego dell'intossicazione ideologica, e non e' un fenomeno nuovo, ma uno dei cromosomi della sinistra che in alcune epoche e componenti e' stata pacifista, ma in altre irrazionale e interventista camuffandosi dietro la missione civilizzatrice dell'Europa nei confronti dei paesi arretrati. Ecco perche' in questa guerra si misura il grado di accettazione non solo di una politica economica ma del sistema di potere che la garantisce a lungo termine, anche con le proprie armi e con la guerra "giusta" segno del disastro culturale che la permette ed esprime. Ma questa guerra rivela anche un altro fatto non meno inquietante e non piu' casuale, che fa esplodere una crisi anche nella cosiddetta "sinistra" alternativa: i verdi, protagonisti del movimento pacifista degli anni '70 in Germania, sono parte integrante di questo schieramento, non c'e' una ribellione significativa di sinistre pacifiste, la sinistra laburista e i partiti comunisti hanno assunto atteggiamenti oscillanti, e hanno tirato ben diverse conclusioni rispetto al passato. Una parte della sinistra, soprattutto in Italia, si oppone ma non riesce a mobilitare ad allargare il fronte cosi' come e' accaduto dieci o quindici anni fa. Si potrebbe essere tentati di trarre conseguenze radicali: l'esodo dalla politica istituzionale per sprofondare nella conflittualita' sociale diffusa disinteressandosi della politica in senso piu' alto. Credo, viceversa, che proprio la guerra metta in discussione questa illusione, perche' la precipitazione della crisi dimostra che non c'e' tempo e modo di costruire (in una fase di relativa stabilizzazione del pensiero unico e del mercato) la crescita molecolare a lungo termine di una alternativa, anche perche' la politica in senso forte e' quella degli stati che ritorna brutalmente in campo. Allora concludo. Se e' tanto inquietante e profonda e' la crisi che abbiamo di fronte, ci dobbiamo interrogare sul che fare. Ci sono tre nodi su cui prendere posizione a partire da oggi.Il primo. Poiche' la guerra, purtroppo, sembra destinata ad approfondirsi, gia' ha mutato qualita' con bombardamenti estensivi e di massa e ancora piu' si trasformera' con un intervento piu' o meno strisciante di terra, allora e' decisivo che si compiano, da parte di tutti, atti espliciti di rottura. La guerra non e' l'equivalente di questioni pure molto importanti come le pensioni di anzianita' o il finanziamento della scuola pubblica. E allora io, che sono stato esplicitamente critico a ottobre con la rottura della maggioranza di governo operata da Rifondazione Comunista (soprattutto nei tempi e nei modi), oggi non cambio opinione rispetto a quella scelta e mi chiedo e chiedo ai compagni di Rifondazione che cosa sarebbe avvenuto se la crisi fosse stata aperta sulla questione della guerra, chiaramente comprensibile a tutti e con grandi interlocutori attorno a noi. Ma con altrettanta nettezza debbo e voglio dire, che proprio perche' di questo si tratta, non possiamo prenderci in giro e scegliere ammiccamenti o mezze misure nel prendere posizione, anche nei confronti del governo e degli equilibri parlamentari italiani: non si puo' essere contro la guerra e mettere tra parentesi l'opposizione ad un governo che la guerra la fa! Credo che su questo debba esserci, nell'insieme di coloro che sono contro la guerra, una presa di posizione netta e senza equivoci. So che non basta mettere in difficolta' gli equilibri politici per fermare la guerra, ma se oggi cominciassero, in un paese in cui e' presente un movimento e in cui il governo non e' autosufficiente rispetto alla maggioranza che l'ha votato, atti espliciti di presa di distanza, essi costituirebbero un punto di riferimento per la gente e aprirebbero processi a catena in altri paesi europei.

Secondo punto. Questo obiettivo da realizzare e' molto difficile, implica una pressione unitaria, la volonta' non di svelare gli opportunismi ma di conquistare incertezze, oscillazioni, forze nuove; implica la capacita' e la volonta' di rimuovere l'ostacolo piu' forte oggi a fare agire insieme con determinazione tutti coloro che sono contro la guerra, rappresentato dal fatto che per errori lontani o insufficienze recenti non esiste ancora, in Italia e in Europa, una sinistra alternativa che per qualita' e dimensione riesca a costituire una forza credibile e incisiva.So che il problema si risolve muovendo tutta la sinistra, ma so anche che bisogna inziare, intanto, a recuperare una tendenza alla frammentazione, al settarismo, alla dispersione e anche alla perdita di credibilita', perlomeno della sinistra che si oppone. Il nodo decisivo sta nella capacita' di Rifondazione di riflettere su se stessa, di fare un proprio bilancio, di fare una proposta di trasformazione e riorganizzazione, ma riguarda anche ciascuno di noi che in questi anni, giustamente, per legittime esigenze, abbiamo soprattutto espresso critiche, riserve, malcontenti ma non siamo stati in grado di unirci, ci siamo diviso in associazioni, giornali. Ognuno di noi ha a coltivato il suo orto e questo non ha pesato nell'equilibrio complessivo della sinistra in questo paese.

Il terzo e' ultimo nodo e' quello che definirei la "rimozione della rimozione". Dobbiamo avere il coraggio di dirci che una delle cause di questa crisi va la di la' della politica e delle scelte immediate e deriva dal fatto che dopo l'89 e il terremoto che ha prodotto c'e' stata da una parte l'abiura ma dall'altra la rimozione di un bilancio della storia passata dei comunisti. C'e' stata la rimozione di una analisi nuova e creativa sul mondo che usciva dalla destrutturazione capitalistica, la rimozione della necessita' di ridefinire un programma fondamentale, una idea alternativa e moderna di societa'. L'urgenza delle cose, la guerra in primo luogo, non ci deve impedire, anzi ci obbliga a riaprire un discorso che vada al di la' della politica contingente e che cerci di ricostruire i fondamenti dell'identita' di una sinistra rispetto soprattutto alle nuove generazioni. Non possiamo lottare contro questa guerra senza assumerci in prima persona e ciascuno per la sua parte il problema di una svolta, di una novita'. Non possiamo lottare contro la guerra continuando ciascuno a rimanere inchiodato alle proprie posizioni senza rilanciare un processo di riorganizzazione e di nuovo pensiero a sinistra adeguato ai tempi e alle dimensioni dei problemi che incombono. Questo non riguarda solo le organizzazioni politiche in quanto tali, ma anche il Manifesto che potrebbe essere non solo un giornale interessante che lotta contro la guerra, ma assumere un importante ruolo come soggetto politico che stimola la riapertura di un confronto. Aprirei una campagna per il Manifesto non tanto in nome della necessita' di sopravvivenza di un patrimonio prezioso, ma come base di un progetto, di un ruolo attivo che il Manifesto puo' assumere per produrre una riorganizzazione della sinistra, per convincere tutti i soggetti ridicolmente rissosi e frammentati a confrontarsi e, soprattutto, a ritrovare la volonta' di fare politica.

Giorgio CREMASCHI

È evidente che la discussione che facciamo non puo' ignorare che c'e' una guerra in corso; faremmo torto alle nostre sensibilita' se non orientassimo la discussione rispetto a questo grave fatto. Sarebbe quindi utile utilizzare la riflessione di questa mattinata per porci un obiettivo pratico e uno di riflessione: l'obiettivo pratico e' molto semplice, si tratta di valutare se, insieme ad altre forze (sindacali, politiche, intellettuali) siamo in grado di contribuire alla mobilitazione in atto affinche' cessino immediatamente i bombardamenti e si riapra il tavolo della trattativa senza condizioni. Il mio giudizio personale e' che siamo di fronte a una situazione in cui in Italia c'e' sicuramente - rispetto alla guerra del Golfo - uno sconcerto e un dissenso persino maggiore, e tuttavia esiste una frantumazione della risposta che non lo fa sentire con la stessa forza che ha avuto ad esempio la protesta contro la guerra del Golfo. Metterei quindi all'ordine del giorno come costruire rapidamente un appuntamento comune e unitario di tutti coloro che sono contro questa guerra e che chiedono la sospensione immediata dei bombardamenti.

Sul piano dei contenuti vorrei proporre una riflessione che tiene conto di quello che e' successo: abbiamo convocato questo convegno il cui tema doveva essere "pubblico e privato": come combattere la logica della privatizzazione, come ricostruire il senso e il valore dell'intervento pubblico e come capire la crisi all'interno dello stesso. Credo che cio' che sta avvenendo ci faccia dire che non e' vero che l'intervento pubblico non c'e' piu': l'utilizzo della spesa pubblica a fini bellici fa parte di questa fase.

In questi mesi, fondando e costruendo il "Forum per un'alternativa al liberismo" siamo partiti da una tesi che riflette un po' il pensiero unico, anche quando lo si combatte, e cioe' la tesi che dice che nel mondo e' prevalsa una bolla globale finanziaria che governa i destini di tutti, che i destini dell'economia e dell'impresa sono sottomessi alla virtualita', alla spontaneita' e allo spontaneismo dei meccanismi della bolla economico-finanziaria che governa il mondo, che i poteri politici non contano piu' niente e conta solo la finanza e la sua strategia speculativa a breve. Mi domando, alla luce di questi drammatici avvenimenti: e' davvero cosi'? È vero che siamo di fronte al "mercato perfetto" di Adamo Smith costruito a livello mondiale, per cui la politica e i poteri degli Stati sono tutti egualmente impotenti, oppure - dopo una fase che c'e' stata nel passato di destrutturazione dei poteri precedenti - stiamo assistendo a una ricostruzione pesante delle gerarchie del potere a livello mondiale? Non stiamo assistendo all'affermazione di un potere invisibile, neutro e globale della finanza, ma a una gerarchia di poteri economico-sociali, produttivi, statali che hanno al centro la potenza economica, finanziaria e militare degli Stati Uniti. Credo che questo sia un punto di riflessione su cui e' bene tentare di fare un avanzamento nella riflessione di un orientamento che vuole essere antiliberista. È proprio vero che i governi non contano nulla e che contano solo il capitale e le finanze? Oppure siamo in presenza di un intreccio tra poteri, finanza, potere politico, potere pubblico e potere militare e dell'impresa che costruiscono una gerarchia di poteri?

Solo tre o quattro anni fa eravamo di fronte all'esaltazione in tutto il mondo della crescita veloce e senza limiti dei paesi di nuova industrializzazione e si poteva pensare alla creazione di un mondo capitalistico assolutamente policentrico o a grande policentrismo: il sud-est asiatico, Brasile, i paesi dell'est europeo. Si aveva la sensazione che il sistema liberista mondiale fosse si' feroce, aggredisse si' diritti, ma stesse diffondendo una fase di sviluppo in grado di mettere in discussione le tradizionali gerarchie (quelle che c'erano ancora nel mondo occidentale attorno agli stati Uniti a cavallo della conclusione della guerra fredda). Possiamo, dopo alcuni anni, dire che e' ancora cosi'? I paesi del sud-est asiatico sono entrati in una crisi finanziaria che ne ha determinato l'assoluta subalternita' al sistema bancario e finanziario del Fondo monetario internazionale e americano; i paesi dell'America latina emergenti sono precipitati anch'essi in una crisi finanziaria che ne ha distrutto qualsiasi velleita' di autonomia sul piano delle politiche economiche e industriali; c'e' stata la crisi russa e ora siamo di fronte a questa incredibile e insensata guerra che purtuttavia un suo risultato lo ottiene: quello di sottolineare ancora una volta, in tutta la sua drammaticita', il fatto che il ruolo e la funzione autonoma e politica dell'Europa (che ha costruito la moneta unica che secondo alcuni potrebbe costituire un'alternativa nell'ambito del sistema capitalistico all'egemonia del dollaro) vengono ridicolizzati. Se e' vero che un rapporto tra economia e politica esiste ancora, continuo a pensare che la moneta unica sara' sempre piu' indebolita dalla continua crisi di una politica e di una identita' comune europea in grado di distinguersi dalla politiche degli stati Uniti. Ho l'impressione che la guerra del Kosovo sia anche una guerra degli U.S.A. alla moneta unica europea, e cio' ci riporta al nodo della riflessione: siamo di fronte a un processo in cui si scatenano forze incontrollate per tutti o, tutto sommato, il processo in atto di liberalizzazione dei mercati mondiali ha dei registi? Non siamo quindi di fronte all'illusione della democrazia del capitale. Se analizziamo la situazione dal punto di vista dei processi tra pubblico e privato all'interno del nostro paese, possiamo rilevare che liberalizzazione, privatizzazione e mondializzazione dei mercati stanno ricostruendo gerarchie di potere in cui potere politico e economico si intrecciano a vari livelli. Stiamo infatti assistendo alla conclusione di processi di privatizzazione nei grandi settori strategici dell'economia che stanno rapidamente bruciando le illusioni che la privatizzazione avrebbe aperto la strada a un "capitalismo democratico" diffuso. Vorrei sottolineare alcuni dati: nei principali gruppi privatizzati, a partire da Telecom, sta cambiando radicalmente la struttura dell'azionariato: ormai sono i grandi investitori istituzionali e le grandi banche estere che decidono, e non l'azionariato diffuso; la guerra tra Olivetti e Telecom e' la dimostrazione che non c'e' un capitalismo democratico all'orizzonte, ma ci sono grandi monopo'li, grandi scelte e grandi accordi che decidono qual'e' l'andamento dei processi. In Italia abbiamo quasi 150.000 posti di lavoro che nei prossimi anni - o forse nei prossimi mesi - sono messi in discussione nei settori strategici di fronte a un movimento di capitali di circa 300.000 miliardi solo tra banche, Telecom e alcune grandi strutture di servizi. Anche sul piano del commercio, credo si stiano verificando, dal punto di vista dell'organizzazione della produzione, processi di concentrazione nei quali e' decisivo il potere di partenza e il ruolo degli Stati e quello dei governi. Siamo sicuri che stiamo andando verso un'era di liberalizzazione di mercati? In un suo recente testo, Augusto Graziani sottolineava che gli oneri protezionistici non formali degli U.S.A. rispetto all'importazione delle merci, pesano all'incirca per il 25%; cio' significa che i prodotti subiscono - nella loro circolazione - delle sovratassazioni che derivano dalla non corrispondenza a criteri di qualita' o affidabilita' decisi dai singoli paesi, e in realta' contraddicono radicalmente il criterio della libera circolazione delle merci e ristabiliscono principi di mercato. Questa tendenza al protezionismo accompagna la liberalizzazione dei mercati e si confligge continuamente con essa; cio' comporta da un lato la tendenza alla liberalizzazione dei prodotti e dall'altro la crescita di guerre economiche e commerciali, di paesi che chiudono le frontiere, di paesi che alzano i tassi... comprendiamo cosi' che il ruolo degli Stati, delle economie e delle decisioni politiche e' di grande rilevanza.

Infine, le politiche sociali degli Stati subiscono una torsione profonda: ma il peso della spesa pubblica e' cambiato? E se e' cambiato e' a causa del cambiamento dell'economia degli Stati o ha cambiato la natura del suo peso? Intendo dire: si spende di piu' per finanziamenti alle imprese, alla rendita, all'industria militare e si spende meno per lo stato sociale. Siamo di fronte a un cambiamento di strutture della spesa pubblica o a un suo arretramento? La mia impressione e' quella che ci sia una riduzione del peso della spesa pubblica, ma non tale da farci dire che stiamo tornando a una spesa pubblica di tipo pre-keynesiana; siamo di fronte invece a una diversa funzione e a un diverso utilizzo della spesa pubblica che viene utilizzata a favore della competizione globale e per il sostegno alle proprie imprese e dei propri centri di potere economico-finanziario rispetto ad altre scelte. Il compito dei governi da questo punto di vista e' assolutamente giacobino: i governi dall'alto intervengono - soprattutto nei paesi piu' avanzati - con operazioni di flessibilizzazione dei diritti, del lavoro e dello stato sociale, di riduzione delle tutele sociali, sulla base dell'idea che questo possa favorire la competizione e la competitivita' dell'economia.

Se consideriamo tutte queste premesse, non assistiamo a una caduta dell'intervento pubblico; siamo al contrario di fronte a un incremento di tale intervento, sia sulla vita economica che sociale del paese, solo che ha un "altro segno". Siamo di fronte a un intervento che e' puramente funzionale a una strategia di competizione globale, dove si riduce l'espansione globale. Questo innesca e reinnesca la legittimita' della guerra: stiamo rapidamente bruciando, in questa societa' globale e competitiva, gli anticorpi accumulati dopo il '45 sulla legittimita' della guerra. La guerra ridiventa una componente della politica; d'altra parte il linguaggio delle imprese e della competizione e' un linguaggio di guerra. La differenza sul piano del mercato tra la situazione attuale e quella del passato e' che la concorrenza che oggi avviene non e' semplicemente tra chi dice "voglio vendere il mio prodotto al posto del tuo", ma tra chi dice "io voglio che la tua azienda sparisca per poter occupare il tuo mercato con i miei prodotti": questo prevede la distruzione totale del competitore. Da tutta la stampa mondiale, l'approdo in Europa di queste "scalate" (con i governi che le agevolano) e' stato ben accolto, in quanto considerato una omologazione del modello sociale europeo a quello americano. In Italia l'ex presidente del Consiglio Prodi e' stato conosciuto per essere il rappresentante numero uno per quello che veniva chiamato il "modello sociale renano", un intreccio di stato, garanzie sociali, competizione sul terreno della qualita'; oggi lo stesso Prodi dichiara (con tutte le cautele del caso) che il punto di riferimento non e' piu' quello, ma e' il modello degli Stati Uniti applicato alle condizioni europee. Gli stessi capitalisti tedeschi sostengono che il modello sociale renano non rappresenta piu' un punto di riferimento. Siamo quindi in una fase in cui, il continuo parlare di capitalismo selvaggio, di guerre economiche e competizione economica totale, porta alla rilegittimazione della guerra, altrimenti non avremmo questa "caduta di anticorpi" contro la guerra, che ritorna quindi a far parte della politica. In Italia, dal '45 e' stato rotto per la prima volta il principio (sancito nella Costituzione), che impedisce al nostro paese l'entrata in guerra. Tralasciando le acrobazie sulle definizioni di "guerra propria" e "guerra impropria", di fatto penso che il nostro paese sia in guerra; sta partecipando a bombardamenti su una capitale europea senza dichiarazione di guerra, peraltro, e senza dichiarazioni formali da parte dell'Onu. Non voglio discutere se Milosevic sia o meno una brava persona, perche' non e' questo il punto: il punto e' se consideriamo legittimo o illegittimo l'intervento bellico, a prescindere dalle decisioni di organismi internazionali e sulla base che si autodetermina in base alla strategia di potere. L'Onu non conta piu' niente e la Nato, invece che essere una parte, rischia di essere il tutto, cioe' di assumere una sorta di ruolo neutrale di "Onu dell'Europa", indipendentemente dal fatto di essere in realta' una organizzazione di parte.

Il punto su cui vorrei insistere e' che noi abbiamo il dovere di spiegare e di spiegarci come sia possibile che, nell'epoca della globalizzazione finanziaria, nell'epoca in cui sembrava che si fosse superata la politica degli Stati e che tutto fosse in mano alle grandi economie virtuali che premendo i bottoni delle Borse e dei dividenti costruivano e distribuivano ricchezze, in realta' le nostre vite e le nostre condizioni di sviluppo futuro siano determinate da decisioni politiche degli Stati sulla guerra, sulla morte e sui bombardamenti. Questa e' una contraddizione che indica che abbiamo bisogno non di partire dall'idea che il pubblico non c'e' piu', ma di ricostruire l'idea di un pubblico sociale: il potere pubblico c'e', ma e' stato assorbito dalle strategie competitive e dalle gerarchie di potere mondiale. Il problema e' quello del restabilimento non solo del pubblico, ma di un pubblico democratico e delle regole democratiche del pubblico. È possibile fare questa battaglia? È possibile costruire una battaglia che rilanci una idea keynesiana neodemocratica di rilancio dello sviluppo come e' stato nel dopoguerra, e che coniughi crescita, sviluppo democratico e sociale? Va detto che la domanda ha un grande punto interrogativo. In questi due mesi sono successi fatti che ci devono far riflettere e che ci portano a dire che non sono possibili facili ottimismi; non parlo solo di questa guerra, ma di altri antefatti quali ad esempio le dimissione del ministro delle finanze Lafontaine, che si proponeva una strategia cautamente redistributiva, cautamente funzionale allo sviluppo dell'intervento pubblico, con qualche lassismo in piu' sul piano dell'inflazione per favorire un processo di crescita e redistribuzione. La sua politica e' stata bruciata.Occorre ricostruire una alternativa di idea di socialita' e di sviluppo a quella sulla competizione fondata sull'impresa, ma occorre anche porsi una maggior riflessione su come i processi che sono stati messi in moto dalla distruzione liberista delle regole e delle garanzie democratiche dei paesi a livello mondiale, abbiano messo in discussione la capacita' di reagire e costruire a breve un'alternativa. Abbiamo scelto una strada, quella dell'anti-liberismo che si rivela e si rivelera' molto piu' dura e difficile di quanto sembrava all'inizio.