www.ilponte.it

In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - marzo 2000 n. 56 

 

 

Per non dimenticare

Giulio Marcon

Le notti attiche

Pierluciano Guardigli

 

Elezioni regionali

 

Un quadro di riferimento

Emilio Molinari

 

Cittadini e politica

a confronto Osvaldo Squassina

 

Lettera aperta

al popolo della sinistra Stefano Mele

 

Battere Formigoni

e la destra per ridare futuro alla Lombardia Marco Cipriano

 

Pavia, Vigevano,

 Voghera: elezioni comunali 

Antonia Bottini e Antonio Corbeletti

  

La pubblicita'

e' l’anima della politica?

GianLuigi Falabrino

 

Salute all’asta

Sergio Bonelli

 

Giustizia a giudizio

di referendum Giuliano Pisapia

 

Costituire i comitati per

 il no al referendum sui licenziamenti 

Intervista al senatore Antonio Pizzinato

Seattle

 

Seattle:

una lezione per l’Europa

Mario Agostinelli

 

Seattle:

per un’ecologia dei consumi

Maria Rosa Marcazzan

 

I giovani 

dal grunge a Seattle

Francesco Donzelli

 

Sicurezza

e garanzie democratiche

Dino Greco

 

Sempre lo stesso copione

Antonio Corbeletti

 

Amianto:

stop anche in Lombardia

Anna Celadin

 

Grigio-azzurri a Vienna

Guido Caldiron

 

Tangenti made in

 Germany

Luciana Mella

 

La guerra e la memoria

Intervista a

Claude Lelouch Fiorano Rancati

 

******************

 

Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

G. Falabrino, L. Miani

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

Fax 02/28.22.423

ilponte@galactica.it

 

Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

Le notti attiche

 

Si puo' partire dalla collaudata, tautologica affermazione che l’informazione e' potere per sottolineare che, talvolta, i due termini si rovesciano non sempre felicemente: il potere perde la testa e la prudenza e si rivela per quello che da sempre e', inciampando in vere e proprie gaffe. In un inconveniente del genere, spero, e' caduto di recente un personaggio emergente: Carlo Callieri, fino a poco tempo fa grigio vicepresidente della Confindustria, d’origine Fiat-rizzoliana, ma gia' corteggiato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Massimo D’Alema, che pero' non brilla, come ormai e' ripetutamente dimostrato, per acume psicologico nella scelta di collaboratori e alleati. Oggi, dopo la benedizione dell’avvocato Gianni Agnelli, Carlo Callieri viene indicato da tutti come futuro capo dello schieramento industriale, un ruolo importante ed e' per questo che ci si preoccupa. In questa Europa delle sinistre, come dimostra il caso Joerg Haider recentemente scoppiato nella vicina Austria, sta crescendo una foresta di personaggi grintosi per se' e pericolosi per tutti gli altri. Bene, il nostro brillante manager Fiat-rizzoliano ha fatto, di recente, un’affermazione che, in un paese davvero normale, per di piu' cattolico e governato da una coalizione di centrosinistra, avrebbe dovuto scatenare un grosso putiferio o almeno un vivace dibattito, ma che da noi, grazie al rigoroso silenzio dei mass media, pronti a provvide censure quando il potere si svela malamente, non e' stata ripresa da nessuno. Intervistato sull’autunno caldo, alla fine dell’anniversario del fatidico trentennale, ha dichiarato che quella stagione politico-sindacale non potrebbe piu' proporsi ai giorni nostri perche' finalmente si e' capito che quello che conta non sono i lavoratori, ma l’azienda. Non le persone, dunque, alla faccia dell’umanesimo, ma uno strumento, una istituzione creata dagli uomini per il profitto di pochi, ma anche, immagino, perche' altri possano sopravvivere con il proprio lavoro. La cosa grave di questa affermazione, senza vittimismi, e' quella di rivelare un’orgogliosa e insospettabile (o sono io quello che non ha capito) carica ideologica in questi pragmatici manager che si vorrebbero al di sopra delle parti, tanto che ci si meraviglia che abbiano appoggiato apertamente i devastanti e ostili referendum sociali dei radicali senza radici. e' forse questa la modernita', il tanto decantato nuovo che avanza?

La prepotenza dei padroni e' felicemente rappresentata fin dai tempi delle piramidi, nonostante qualche archeologo, di recente, abbia cercato di estendere il revisionismo fino al tempo dei faraoni. Ma c’e' anche una questione  costituzionale: questa repubblica e' fondata sul lavoro, non sulla fabbrica, sull’azienda e i suoi nobili estensori avevano certo in mente la differenza quando hanno formulato l’articolo uno.

Infine, se si dovesse trattare di una semplice imprudenza, avanzo una raccomandazione ai potenti: non dico il pensiero, ma almeno un po’ di buon senso dovrebbe illuminare i personaggi di un qualche peso e rappresentativita' durante le interviste per non costringere poi l’informazione a nascondere tutto sotto il tappeto. Se non e' stata un’imprudenza, ma l’affermazione di un progetto politico, invece, una raccomandazione a tutti voglio farla: guardatevi in futuro da Carlo Callieri.

Cittadini e politica a confronto

Il 16 aprile vi saranno le elezioni regionali. Nella sinistra e soprattutto in Lombardia si e' aperto un dibattito su come e' possibile evitare che, ancora una volta, il centro destra abbia la maggioranza dei consensi elettorali e quindi governi per altri cinque anni una delle piu' importanti regioni d'Italia in una situazione in cui oggi, a differenza del passato, le istituzioni regionali dispongono per davvero di poteri e di ingenti risorse economiche.

La gestione Formigoni, Berlusconi e Fini e' sotto gli occhi di tutti. Sempre piu' prevale la logica di depotenziare le attivita' pubbliche per favorire gli interessi privati dalla scuola, alla sanita', dalle opere pubbliche fino al finanziamento degli oratori.

Di fronte a tale situazione ritengo che l'unico modo per tentare di evitare che la destra governi ancora la Lombardia e' che il candidato del centro sinistra, Mino Martinazzoli, riesca a costruire una intesa con Rifondazione Comunista su alcuni importanti punti programmatici. I fatti di questi giorni vanno in questa direzione e mi auguro che cio' si concretizzi, penso pero' che tutto il centro sinistra possa farcela, e non sara' facile, solo se i cittadini e le cittadine avvertano effettivamente una novita' e cioe' che i contenuti del programma elettorale parli e affronti almeno alcuni dei loro problemi quali ad esempio la sanita', la scuola, la casa, l'ambiente, il lavoro, lo sviluppo, i trasporti e la qualita' della vita, e quindi le persone possano trovano almeno una ragione e un interesse preciso per andare a votare. Se invece sulle prossime elezioni regionali prevale - la tentazione di ricavarne per la coalizione governativa - una specie di test elettorale rispetto alle elezioni politiche del prossimo anno, condividendo il giudizio espresso anche da altri, il risultato elettorale e' gia' scritto poiche' i fatti della politica nazionale e le scelte del governo di centro sinistra: dalla guerra nei Balcani allo stato sociale, dalla politica economica alle scelte sulla scuola fino alla giustizia, non incentivano l'elettore di sinistra ad andare a votare.

Il voto nelle precedenti elezioni deve insegnare qualcosa. La sinistra non puo' manifestare preoccupazione solamente il giorno dopo le elezioni o limitarsi a fare appelli alla vigilia del voto, ignorando le ragioni che hanno indotto una parte consistente di elettori di sinistra ad astenersi dal voto. Ma non si puo' nemmeno costruire una alleanza che risponda esclusivamente alla logica dei numeri costruiti a tavolino.

Piu' volte ho ribadito, sulla base dei dati concreti anche delle ultime elezioni amministrative di Brescia e di altre importanti citta' che l'astensione di sinistra e' un fatto politico enorme. L'esito delle recenti votazioni europee hanno rappresentato a mio avviso un ulteriore campanello di allarme per tutta la sinistra, e purtroppo ancora oggi si continua a sottovalutarlo.

Quante volte la denuncia o l'avvertire che si stava imboccando una strada pericolosa e' caduta nel vuoto.

L’astensione al voto e' il risultato della separazione sempre piu' forte tra rappresentanti e rappresentati, una distanza sempre piu' marcata tra i bisogni veri dei ceti sociali piu' deboli e la politica , in poche parole in questi anni si e' spezzato il rapporto tra la politica e la societa' civile. Si e' interrotto il filo conduttore che legava la politica della sinistra ai bisogni prioritari delle persone, bisogni che si intrecciavano con una scala di valori di giustizia e equita', che caratterizzavano positivamente la sinistra rendendola visibile con le sue proposte sui vari problemi. Basta guardare oggi a come e' nata e si e' risolta la crisi di Natale del Governo D’Alema, oppure come non rimanere sconcertati e non provare un senso di ribellione di fronte a notizie in cui alcuni personaggi del centro sinistra stavano operando per rendere possibile in Lombardia la candidatura di Roberto Maroni. Sono fatti che evidenziano persino il degrado culturale e politico a cui sono giunti certi personaggi e quando poi gli elettori non votano si dice: “gli elettori non hanno capito o sbagliano”.

Cosi' mentre la destra e i poteri forti dell’economia e della finanza hanno imposto una politica tesa a mettere in discussione i diritti fondamentali e hanno minato, incrinato ed indebolito persino gli aspetti fondanti sui quali si misura il livello di civilta' di un paese come la sanita' e lo stato sociale, l’istruzione e la scuola, la giustizia e lo stato di diritto, una parte consistente della sinistra non solo balbetta ma si mette in competizione con questi stessi poteri per dimostrare di essere piu' liberista dei liberali cercando cosi' di accreditarsi simpatie e consensi di quei ceti sociali rappresentati dalla borghesia e dell'imprenditoria. Per rendere maggiormente visibile tale politica venivano indicati come candidati sindaco persino i rappresentanti della Confindustria.

Esemplare in questo senso sono i provvedimenti varati dal '95 ad oggi e la lista e' davvero lunga, pensando, a torto, che tanto il proprio elettorato avrebbe comunque, magari turandosi il naso, continuato a votato a sinistra, i fatti invece dimostrano che puo' esserci anche la reazione di uomini e di donne che scelgono di non votare.

La risultante e' un processo che rende il sistema di partecipazione alla vita politica del paese sempre piu' simile a quello consolidatosi negli Stati Uniti, una realta' nella quale ormai solo una minoranza partecipa al voto, una minoranza che si impegna nella competizione elettorale per difendere i propri interessi particolari.

In quel modello sono pero' esclusi i cittadini e le cittadine soprattutto dei quartieri popolari, che hanno rinunciato da tempo al voto, perche' per la loro condizione qualsiasi esito, sia che vinca il Partito Democratico, che quello Repubblicano, non cambierebbe in modo apprezzabile la loro condizione. Probabilmente vi e' una parte che si autodefinisce di “sinistra” che ritiene positivo tale modello, e cio' e' emerso anche dal recente congresso dei Democratici di Sinistra.

Il segnale che una parte significativa dei cittadini continua a mandare alla classe politica italiana e' quello del disinteresse per una competizione tra candidati che non li ascoltano e non vogliono rappresentare le loro esigenze. Quello che e' in atto e deve preoccupare e' un processo di americanizzazione che alla lunga mette a rischio la sinistra insieme ai suoi valori, la democrazia. Quando la politica non si occupa dei cittadini, i cittadini non si occupano della politica.

Ecco perche' considero importante che la sinistra in Lombardia trovi il coraggio, insieme alle forze cattoliche del centro democratico affinche', intorno alla candidatura di Martinazzoli, si rafforzi una intesa su alcuni problemi da affrontare, rappresentando e sperimentando perche' no, una diversita' sostanziale rispetto a quello che avviene nella politica nazionale che rischia di regalare alla destra - per un lungo periodo - il governo del paese.

La sinistra, e il sindacato non e' escluso da cio', deve costruire una propria strategia e deve saper indicare quale societa' intende costruire e realizzare, distinguendosi dalla destra per i contenuti dei propri programmi.

Non e' casuale che la Confindustria abbia deciso di fare propri i referendum dei radicali divenendo cosi, essa stessa, il soggetto principale di questa battaglia antisociale. La sinistra non puo' sottovalutare questo fatto politico nuovo perche' i referendum rappresentano la testa di ponte di una strategia tesa ad eliminare i diritti nella societa' e sul lavoro per comprimere i costi.

E’ importante che la Corte Costituzionale abbia eliminato la stragrande maggioranza dei quesiti referendari antisociali, ma la Confindustria proseguira' nei suoi obiettivi e sono preoccupanti alcune dichiarazioni, a partire da quelle rilasciate dal Presidente del Consiglio Massimo D’Alema che, subito dopo il pronunciamento della consulta ha affermato che il parlamento potra' legiferare (in una logica di modernita') sui quesiti referendari che la stessa Corte ha cassato.

Per questi motivi c’e' bisogno che riparta il dialogo tra le varie anime della sinistra e vi e', credo, la consapevolezza della mancanza di una politica che sappia, per davvero, rappresentare il mondo del lavoro, della cultura e dell’associazionismo.

Dalla Lombardia puo' iniziare una fase nuova e sara' possibile se insieme la avviamo a partire dalle prossime elezioni regionali.

Seattle: una lezione per l'Europa

Con la straordinaria mobilitazione di Seattle, comunque la si pensi, bisogna fare i conti. Non fosse altro che perche' quasi nessuno di noi, e per noi intendo anche sindacato e grandissima parte della sinistra europea, ne aveva previsto l’incidenza e la profondita' delle ripercussioni.Si e' trattato di un evento di portata storica, di un punto di non ritorno, nonostante la natura del movimento che li' si e' espresso sia controversa e le sue evoluzioni future non siano gia' scritte ma possano incanalarsi in differenti direzioni.Si e' trattato di un evento che mette in evidenza la divergenza tra frantumazione del rapporto di coesione tra i popoli e internazionalizzazione dei mercati e dell’economia, tra polverizzazione della politica come progetto di societa' e unicita' della riflessione economico-commerciale.

Hobsbawn, nel suo ultimo libro, parla di grande instabilita' del capitalismo e di ideologie sotterranee in formazione. Credo che Seattle sia il primo segnale di questa instabilita' e ponga questioni rilevanti. Per la prima volta, dopo decenni di silenzio, non solo gli indigeni del Chiapas, non solo gli esclusi, ma gli abitanti degli Stati Uniti o, almeno, i movimenti che li attraversano, tornano a parlare del mondo e delle sue prospettive. Lo fanno, mettendo in campo un insieme composito di soggetti: ambientalisti, comitati di consumatori e cittadini, giovani e, (qui sta la novita'), lavoratori. Si', perche' a Seattle, per parlare del nesso tra lavoro e sviluppo sostenibile, si e' mobilitato il piu' potente sindacato americano, l’Afl-Cio.

Ecco l’elemento centrale: nell’era della globalizzazione e del primato dell’impresa e del mercato, nell’era della presunta “scomparsa del lavoro”, negli Stati Uniti, motore della filosofia del pensiero unico, si riannodano i fili tra lavoro e ambiente, tra diritti degli uomini e delle donne e diritti della natura; si rimette in discussione l’ineluttabilita' di uno sviluppo dissennato e distruttivo, si ribadiscono valori e priorita' per l’organizzazione della societa'.

Oltre alla radicalita' ed alla novita' dei contenuti, cio' che rende originale il movimento che si e' sviluppato attorno al vertice del WTO sono i suoi riferimenti internazionali, il suo rimescolare e connettere culture differenti, l’utilizzo sapiente dei media e degli altri strumenti di comunicazione (internet tra tutti), l’assenza di leader.

Tutto questo, lo dicevo prima, ci ha trovati impreparati e ci pone il problema di aggiornare la nostra analisi. Dobbiamo, infatti, partire dal dato che le trasformazioni in atto sono piu' profonde delle nostre stesse radici e che i valori di cui siamo portatori, la memoria, la nostra stessa capacita' e prospettiva di rappresentanza sociale, devono inserirsi in questa riflessione.

Seattle conferma che dietro lo scambio astratto delle merci, dietro il loro valore monetario ci sono i processi produttivi che le mettono a disposizione, e quindi gli uomini e le donne che, con il proprio lavoro, permettono a quei processi di compiersi.

Seattle ci parla del lavoro, il grande rimosso dalla discussione anche della sinistra in Europa, e di diritti umani inscindibili dai diritti del lavoro.

E lo fa oggi, proprio quando, da piu' parti, anche a sinistra, si assiste ad una sorta di rimozione dei diritti collettivi e universali in nome dei diritti individuali.

La protesta mette in luce novita' epocali e pone domande inedite. A una produzione riorganizzata su base spaziale e temporale si lega un commercio che non ha piu' bisogno di luoghi fisici: oggi si scambiano non solo merci, ma beni intellettuali riproducibili, ma di cui si conservano la proprieta' e il controllo, come le conoscenze o le nuove tecnologie che permettono di creare prodotti viventi. Entra in gioco la proprieta' dell’immateriale, ben diversa per natura e struttura dalla proprieta' delle merci tradizionali. Di chi sono le specie, i semi, i processi alimentari? A chi appartiene una cultura musicale, un documentario, una collezione artistica messa in rete? Dove si situano, se non nel territorio, le culture e gli ecosistemi? Come si tiene conto degli scambi interpersonali, esistenziali, sociali, del governo del tempo e della riproduzione che riguardano comunita' intere, finora considerate solo quando producono e non quando si relazionano, vivono, convivono? In uno scambio commerciale di questo genere viene messa in discussione una proprieta' sociale, vengono messi in discussione, contemporaneamente, produzione, riproduzione, e natura, e dai diritti individuali si passa a quelli sociali o, diciamolo, ai “diritti globali”.

Questo, i manifestanti di Seattle, l’hanno capito, cosi' come hanno compreso che non bastano gli scambi commerciali per creare uno sviluppo benefico e che la concorrenza non e' foriera di liberta' e crescita economica, quando si basa sulla leva della riduzione del costo del lavoro.

Il WTO e' fallito, e non si tratta di un fallimento tecnico: il risultato di quel vertice e' una “base” per il seguito della discussione (sulla quale il Direttore Generale ha il mandato di consultare i Governi dei Paesi membri) a cui dovrebbe partecipare anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro e che, per ora, non contiene affatto norme di riferimento ai diritti fondamentali del lavoro ed alle organizzazioni dei lavoratori. Il lavoro e' una delle sette questioni controverse, rimaste irrisolte: anche per questo e' indispensabile per il movimento sindacale internazionale analizzare con attenzione la propria azione e gli esiti della Conferenza interrotta.

Nel 1994, a Singapore, nell’ultima conferenza del WTO, si faceva riferimento al valore dei diritti fondamentali del lavoro invocando un presunto automatismo positivo e risolutore, che sarebbe dovuto derivare dall’ampliamento e dalla liberalizzazione degli scambi e che avrebbe comportato l’estensione di condizioni benefiche per chiunque fosse stato toccato dal processo di globalizzazione. A questo ottimismo insensato aveva aderito anche l’organizzazione internazionale dei sindacati, che oggi si e' fortunatamente ricreduta e posta su posizioni critiche, soprattutto grazie alla mobilitazione del sindacato americano di Sweeny.

Nel 1995 le multinazionali avevano tentato di imporre una carta dei diritti e delle liberta' delle imprese multinazionali al di sopra dei diritti dei popoli (il famigerato M.A.I., Multi International Agreement). Oggi, il comunicato della Cisl Internazionale parla di “squilibrio crescente della globalizzazione” e di “squilibrio del legame tra commercio e diritti fondamentali del lavoro”. Singapore prima, il MAI poi, Seattle ora, rendono evidente il tentativo di “privatizzazione” di grandi temi pubblici sottraendoli ai processi democratici. Tentativo esplicitato senza pudore a Davos, dove qualche centinaio di uomini potentissimi, ricchissimi, coltissimi, in un club privato discutono di questioni pubbliche: attori privati che scrivono a proprio piacimento norme sulla globalizzazione.

Sul grande tema dei diritti, che non sono subordinati e subordinabili ad esigenze storiche o ai voleri della maggioranza (anzi, sono storicamente peculiari delle minoranze), la protesta di Seattle ha avuto il merito di mettere sullo stesso piano diritti individuali, civili, politici e diritti collettivi, sociali e ambientali, nesso inusuale per gli Stati Uniti e lezione per la svolta delle sinistre al governo in Europa (Francia esclusa).

Quegli stessi Stati Uniti, quella stessa Europa, che il 24 marzo di un anno fa, spezzando una lunga tradizione e incuranti di trattati internazionali e carte costituzionali, entravano addirittura in guerra con il pretesto della difesa dei diritti civili e politici individuali.

Tra i diritti, fondamentale e' il diritto al lavoro, prima di tutto come diritto politico di accesso alla cittadinanza politica, sociale ed economica. Diritto fondamentale che oggi, in Italia, viene messo pesantemente in discussione dai referendum radicali (14 dei quali sono stati riconosciuti incostituzionali dalla Corte di Cassazione) e dalla filosofia che li ha ispirati: contrapposizione tra “liberta'” individuali (dei piu' forti) e diritti sociali (anch’essi, comunque, patrimonio dei singoli, non delle organizzazioni che li conquistano e difendono). Liberta', dunque, ma con la simultanea negazione della liberta' di associarsi. Nel ragionamento sui diritti si innesta una questione che considero fondamentale, anche alla luce di quanto Seattle ha portato indirettamente alla discussione: il diritto all’istruzione ed al pluralismo della scuola. Scuola che deve essere spazio aperto e pubblico di educazione ai diritti universali, di confronto e contaminazione tra culture; luogo dove i confini delle comunita' vengono superati e le stesse comunita' vengono messe in comunicazione tra loro, al di sopra di ragioni e convenienze puramente economiche. Anche il tempo scelto e le attivita' elettive non devono soggiacere prevalentemente ai rapporti economici, ma devono essere inseriti in un quadro di diritti, perche' il pieno sviluppo della persona venga effettivamente riconosciuto e legittimato. Ma per farlo, dobbiamo ridefinire nelle condizioni nuove della globalizzazione, attraverso la politica ed il suo rilancio, come straordinario approdo democratico di questa era, il diritto al lavoro e il legame sociale che da questo consegue. Dobbiamo farlo invertendo una tendenza in atto: dobbiamo, cioe', definire i cambiamenti da realizzare partendo dal fine ultimo da raggiungere, non gli approdi possibili partendo dai mezzi disponibili, in un incessante compromesso che snatura gli obiettivi.

Seattle ci dice che nel rapporto tra societa' ed economia, tra politica ed economia, tra lavoro ed economia, occorre ridefinire gerarchie che il liberismo e la mancanza di controllo del mercato hanno destrutturato.

Anche tra tempo di lavoro e tempo di vita bisogna ridisegnare limiti che la totale colonizzazione dell’uno rispetto all’altro ha infranto. E, allora, dobbiamo procedere ad una riappropriazione individuale e collettiva del tempo e della sua organizzazione. Dobbiamo ripartire al meglio il lavoro socialmente necessario e ridistribuire tutta la ricchezza socialmente prodotta, coscienti che il tempo di lavoro ha cessato di essere il tempo sociale dominante. Dobbiamo ribadire che esiste un diritto delle persone sul proprio tempo, che non puo' essere totalmente subordinato alle esigenze delle imprese, cosi' come dobbiamo operare perche' gli spazi di attivita' che si aprono vengano sottratti al solo controllo del mercato e dell’economia. Se c’e' riduzione del tempo di lavoro, allora anche le forme di impiego flessibili e discontinue danno luogo a coesione e non a disintegrazione.

Ma per fare questo e' indispensabile un forte legame tra i lavoratori, le proprie organizzazioni, e la politica.

A Seattle, in fondo, e' gia' successo proprio questo: in modo inusuale, in forma inedita, sensibilita' diverse si sono incontrate, accomunate da un comune sentire, ed hanno prodotto in fatto politico con cui sarebbe davvero un errore non confrontarsi.

 

Grigio-azzurri a Vienna: il pericolo Haider

 

Jorg Haider: un nome che in poche settimane dall’Austria ha fatto il giro di tutto il mondo, alimentando ovunque le speranze delle destre razziste e un primo salutare risveglio in almeno una parte delle vecchie democrazie europee.

Il 2000 si e' aperto cosi', con l’entrata di un partito nazional-populista, dagli accenti apertamente nostalgici e xenofobi, nel governo di Vienna.

Il Fpo, letteralmente Partito Austriaco della Liberta', e' cresciuto in maniera impressionante, di elezione in elezione, fino a raccogliere i consensi di oltre un milione e duecentomila austriaci, sul totale degli otto milioni di abitanti che conta il paese.

Un successo travolgente, ma non irresistibile, che e' bastato perche' i vecchi conservatori dell’Ovp, il Partito Popolare locale, scegliessero di dividere le responsabilita' di governo con i nuovi venuti dell’ultradestra.

Haider, leader dalla meta' degli anni ottanta del Fpo, e' il “volto nuovo” dell’estremismo di destra internazionale: qualche anno fa una rivista neonazista tedesca lo defini' come “il modello da seguire”.

E’ il politico che meglio di altri e' riuscito a portare un gruppo, cresciuto prima direttamente negli ambienti degli ex nazisti austriaci quindi nella violenta ondata xenofoba iniziata nello scorso decennio in Europa, nella stanza dei bottoni di un moderno paese democratico.

Jorg Haider e' riuscito la' dove Le Pen ha fallito, spaccando il suo stesso partito, dove lo stesso Fini e' riuscito solo in parte, e dove, in altre parti del continente, la destra razzista non si sogna neppure di poter arrivare. Ha portato tutta la cultura della destra nazionale austriaca, compreso il passato nazista, il lungo percorso neonazista e l’attuale approdo revisionista sulla storia e ultraliberale nell’economia, al governo. Non ha dovuto rinunciare quasi a nulla, ne' alle rimpatriate con gli ex SS, ne' alle battute dal sapore antisemita, ne' agli appelli all’odio razziale.

Resta da chiedersi se il grave in tutto cio' riguarda solo le idee di Jorg Haider, o la possibilita' di tolleranza di tali posizioni manifestata fino ad ora nel suo paese. Perche', prima di entrare nel governo nazionale, il Partito Austriaco della Liberta' ha diretto per anni la regione della Carinzia, lo stesso Haider ne e' stato presidente ed ha costituito, a partire da questa regione, il suo solido sostegno elettorale che lo ha spinto poi fino a Vienna.

Fortunatamente l’annuncio dell’entrata dei razzisti nel governo austriaco non e' passato inosservato, ne' in patria ne' all’estero, e dalle prime manifestazioni davanti ai palazzi ministeriali fino al grande corteo del diciannove febbraio, sia l’Austria che l’Europa intera hanno mostrato il loro risveglio democratico.

A molti, ma non a tutti, e' sfuggito come l’arrivo al potere dell’estrema destra non fosse pero' un primato del tutto austriaco, quanto piuttosto una vicenda cominciata in Italia nel lontano 1994 con il governo di Silvio Berlusconi fatto insieme a missini e leghisti.

Il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder si e' detto allarmato all’idea che anche nel nostro paese, dopo Vienna, i neofascisti possano rientrare in futuro in un governo, alludendo in particolare ad Alleanza Nazionale.

Per Fini e i suoi, che avevano partecipato in qualche modo all’unanime condanna di Haider espressa da gran parte dei partiti italiani, non c’e' stato nemmeno bisogno di replicare: in loro difesa sono scese in campo le piu' alte autorita' del paese, dal Presidente della Repubblica, allo stesso D’Alema. Tutti a ricordare ai tedeschi come in Italia la destra estrema non ci sia piu' e quanta strada verso la democrazia abbiano ormai fatto gli eredi politici di Giorgio Almirante e della Repubblica Sociale Italiana.

Lo scambio di comunicati polemici tra Roma e la Germania su questo tema, potrebbe essere lasciato alle schermaglie spesso insulse che assumono le polemiche internazionali nella politica nostrana, se non fosse un rivelatore interessante di un clima piu' generale.

L’Europa democratica condanna infatti e a motivo Haider, ma sembra farlo soprattuuto in nome del passato, di una memoria storica che si e' contribuito, specie in Austria, a non sviluppare affatto. Come se l’unico pericolo rappresentato dall’ingresso dei liberali del Fpo nel governo di Vienna, potesse riguardare il riemergere tout-court di un passato mai assunto e non tanto una sfida per lo sviluppo e le forme delle democrazia del futuro.

In questo, anche il caso suscitato dalle dichiarazioni di Schroeder sull’Italia, mostra tutta la debolezza del dibattito antifascista che si e' messo piano piano in moto in Europa, ma di cui i diversi paesi avrebbero invece un grande bisogno. Perche' se c’e' una prima lezione e un segnale di pericolo da trarre subito dal caso Haider, questa riguarda la possibilita' che pezzi consistenti dei vecchi partiti conservatori optino per alleanze con le destre estreme pur di conservare o riconquistare il potere.

E’ gia' successo in Francia, con le regionali del 1998, che hanno messo in crisi gollisti e liberali sull’ipotesi di alleanze locali con il Front National di Le Pen, e' oggetto di continuo dibattito tra i popolari fiamminghi in Belgio confrontati con l’emergere del Vlams Blok razzista, e' parte del fenomeno dell’Udc di Blocher in Svizzera, un partito di centro che ha radicalizzato all’estremo le sue posizioni sull’immigrazione, ma anche la sua compiacenza verso gli storici revisionisti, e che si e' affermato come la principale forza politica della Confederazione. Per non dire proprio dell’Italia, dove sarebbe riduttivo limitarsi a analogie o distanze tra Fini, Bossi e Haider, ma dove la ricomposizione delle “destre plurali”, che comprendono anche il neofascismo e la deriva di ispirazione etnonazionalista, ha mosso i suoi primi passi a livello europeo.

Lo scenario che fa da sfondo a questa nuova carta della politica europea, muta a seconda del grado di analisi e ragionamento sulla storia, della capacita' di non diluire il dibattito sulla democrazia in semplici oppotunismi elettorali. Il passaggio indolore dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, in Italia, resta da questo punto di vista un esempio in negativo per tutta l’Europa.

L’idea che fosse possibile mantenere le proprie radici nel passato senza perdere la propria identita' per il futuro, aveva fatto di Fini, prima di Haider, l’eroe dell’estrema destra europea. Certo, Gianfranco Fini di strada ne ha fatta di piu', ha puntato sulla novita' piuttosto che sulla conferma della tradizione, ma a ben guardare i programmi di Alleanza Nazionale non sono cosi' lontani da quelli del Fpo e del suo leader Haider.

E, ancora una volta, quello che piu' conta e' la radice salda dell’identita' su cui queste destre, che si vogliano radicali o neomoderate, costruiscono il loro avvenire.

Cosi', perche' non ricordare che a poche ore dalla difesa d’ufficio di Alleanza Nazionale fatta dal Presidente del Consiglio Massimo D’Alema, il Secolo d’Italia annunciava per il 20 febbraio l’ennesima celebrazione dell’ “eretico Julius Evola”, presso una sala convegni del senato.

 

delle SS, non fu pero' poi tanto nemico della democrazia?