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In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - marzo 1998 n. 3

 

35 ore: l'appello per la manifestazione di sabato 21 marzo 1998

A proposito della Cosa 2

Aldo Tortorella

 

Crema: un'anomalia nella Lombardia del Polo 

Andrea Ripamonti

 

L'uso indiscriminato delle biotecnologie a discapito della biodiversita'

Flaminio Di Girolamo

 

Le 35 ore di Rifondazione:
Sintesi del convegno di Rifondazione comunista svoltosi a Milano il 13 e 14 febbraio 1998

Relazione:
Alfonso Gianni

Interventi:
Giovanni Mazzetti
Dino Greco
Augusto Graziani
Giorgio Cremaschi

Lidia Campagnano

Conclusioni:
Fausto Bertinotti

 

Chiapas: dal profondo Messico un'esperienza di resistenza al neoliberismo

Lella Bellina

 

Noi siamo chiesa
Vittorio Bellavite

 

L'eredita' di Strehler

Elisa Lamari

 

Da una parte sola

Anna Celadin

 

Blues ovvero: esercizi in stile turchese

racconto di Laura Miani

 

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Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

G. Falabrino, L. Miani

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

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n. 304 maggio 1992

 

 

 

  A proposito della Cosa 2

Interverro' su due questioni in particolare: il tipo di partito (o di Associazione politica) che pensiamo sarebbe utile nascesse e le idee di fondo (almeno alcune) che noi proponiamo per questa formazione politica. Quando dico "noi", naturalmente, intendo quell'area della sinistra, nata con il congresso del Pds e immediatamente dopo, che ha visto la confluenza di gruppi diversi che avevano posizioni differenti nel vecchio Pci prima, e anche nel Pds oggi. Abbiamo fatto, nel corso di questi anni, dell'unita' a sinistra la nostra principale parola d'ordine. Unita' di tutta la sinistra, di ognuna delle anime di cui e' composta: quella che proviene dalla tradizione comunista del Pci; quella del Psi, del Psdi e di quelle parti di sinistra come la Quarta Internazionale, i gruppi del '68, che hanno formato il partito della Rifondazione Comunista. Per questa idea della unita' della sinistra, abbiamo lavorato (anche un po' oscuramente persino agli occhi dei compagni che partecipano e ci guardano con simpatia) a questa area per fornire materiale teorico. L'appuntamento di Firenze puo' essere un grande fatto, ma non e' naturalmente privo di pericoli, non e' detto che le unificazioni non porteranno con se' dei rischi: quella del partito di Nenni e di Saragat, durata tre anni, dopo alcuni mesi era gia' in crisi! Quindi, quale deve essere il fondamento? E' difficile trovare un fondamento culturale unico anche se nella sinistra c'e' una comune aspirazione al cambiamento in senso piu' favorevole alle classi popolari in generale. La parola classe e' difficile da usare, come pure identificare il concetto di lavoro dipendente, perche' ci sono lavoratori dipendenti, ma ci sono anche quelli autonomi di seconda generazione, piu' simili ai lavoratori dipendenti che ai lavoratori autonomi, ci sono poi forme di lavoro spurio, in parte dipendente e in parte autonomo. Nella sinistra, oltre al comune sentimento, e' molto difficile identificare una piattaforma culturale sufficientemente solida e comune. Fanno gia' parte del Pds posizioni liberal-democratiche (che pure vanno rispettate, mi sono sempre battuto anche nel Pci perche' questo avvenisse) posizioni socialiste democratiche che si modellano su Blair, altre ancora su Jospin. Insomma, ci sono posizioni assai diverse tra di loro, come si fa allora a cercare l'unita'? Il punto che ci e' sembrato fondamentale, quello per cui ci battiamo da anni, dai tempi lontani in cui si stava pensando alla trasformazione del Pci, e' quello che abbiamo chiamato il principio FEDERATIVO. Secondo noi ci deve essere un'idea di partito, come pure un partito che si sforza di cercare l'unita', ma di cercarla, appunto, non di considerarla un presupposto. Il che e' molto difficile, molto complicato! Nessuno di noi puo' essere competente su tutti gli aspetti: politica urbanistica, lavoro, sanita', politica estera ecc.. Quindi, se non si costituiscono gruppi di persone sufficientemente affini per sentimento, per cultura, e' difficile fare una proposta seria. Le discussioni non finiscono mai se si cerca di trovare un'unita' sul modello teorico: io, che sono viziato dal marxismo, se parlo con un liberal-democratico devo cominciare da Adamo ed Eva, non e' possibile trovare una unicita' di pensiero. Unita' che si puo' invece trovare sulla base dell'analisi della realta': e' possibile fare uno sforzo per l'unita' nella linea politica o, per meglio dire, nella formazione di maggioranze o minoranze consapevoli. Un partito che abbia una maggioranza consapevole di quello che vuole, e una minoranza o piu' minoranze che criticano non demagogicamente, e' un partito sano, forte che puo' affrontare le sfide del tempo presente e del domani. Sono cose abbastanza semplici da dire ma difficili da praticare, questo e' il punto delicato. Il problema non e' se il nuovo partito vedra' il primato della tradizione comunista o socialista, bisogna cambiare le modalita' della discussione. Su questo c'e' una critica all'impostazione che e' stata data a questo processo di unificazione sia da parte della maggioranza del Pds sia da parte di compagni socialisti che sono intervenuti nella discussione. Esiste una tradizione dei comunisti italiani che, ostinatamente, la maggioranza di noi sostiene non possa essere assimilata al modello sovietico, anche se noi "vecchi" (e non i giovani che non c'erano) possiamo essere ritenuti responsabili di avere creduto per troppo tempo alla riformabilita' di quel sistema. Rispetto a questo punto, e' chiaro che hanno avuto ragione i trotzkisti: quello era capitalismo di stato. Sapevamo che quello era capitalismo, anche perche', per nostra fortuna, non li abbiamo mai cacciati: hanno contribuito, in varie forme, all'elaborazione del Pci, come all'elaborazione del Psi (Amato, Ruffolo, Lelio Basso avevano questa origine). Pensavamo che dal capitalismo di stato si potesse passare ad una societa' migliore. Ma questo era un errore teorico, nei fatti dal capitalismo di stato si poteva passare solo ad una societa' peggiore. Questo non toglie niente ai meriti storici del Pci: cancellarli non sarebbe un'offesa per comunisti, o per il Pci che non c'e' piu', ma per storia del paese. Il Pci ha avuto dei demeriti ma ha avuto grandi meriti. Particolarmente straordinari, sono stati i militanti di questo partito: essere iscritto al Pci ha voluto dire anche fare sacrifici, spesso inenarrabili, per nobili cause, e questo non puo' essere cancellato. Esiste anche una complessiva tradizione socialista italiana che non puo' essere ridotta da parte della sinistra (l'abbiamo scritto e ripetuto piu' volte), al caso giudiziario e neppure alla fine del partito socialista. E' una tradizione fatta di lotte, di scissioni, ma che ha fecondato le idee della sinistra, a partire da Togliatti. Detto questo pero', non c'e' una sola tradizione di comunisti e di socialisti. Nel Pci, sebbene in forma non esplicita (ed e' stato un errore), esistevano una corrente di destra, una di sinistra e una di centro, c'erano posizioni diverse, e su alcuni punti (oggi lo possiamo vedere), i compagni considerati "di destra" portavano un contributo di consapevolezza grande nell'analisi del funzionamento di mercato. Questa parte e' stata egemone per lungo tempo nel vecchio Pci; ma anche la sinistra, che era minoranza, ha dato importanti contributi: spesso e' stata poco ascoltata, ma e' da questa parte che si e' mossa la critica all'URSS, la richiesta di maggiore democrazia interna. Stessa cosa nel Psi: c'era la corrente autonomista di Nenni, che naturalmente era cosa diversa da quello che poi e' diventata; la corrente che faceva capo direttamente a Craxi; c'era la corrente di Lombardi, di Basso, c'erano personaggi meno noti, come quelli presenti nella confederazione del lavoro. Stessa situazione per quanto riguarda il Psdi, o i repubblicani. E allora, questa nuova aggregazione politica che si va formando come dovra' essere? Entrano ad esempio i Cristiano Sociali, che hanno una coesione che deriva dalla fede cristiana, ma hanno anche una posizione politica molto legata alle lotte sociali e al mondo del lavoro. Penso che nella preparazione di questo partito si dovra' andare alla costruzione di piattaforme politiche: bene se saranno tra loro convergenti, ma se fossero troppo convergenti ci sarebbe qualcosa che non funziona, cosi' come l'eccesso di convergenza in un certo punto nel Pci non ha funzionato piu'. L'esperienza che abbiamo fatto non e' stata semplice, e lo sanno i compagni che vi hanno partecipato. Noi nel vecchio Pci dicevamo: fino al congresso si sostiene una posizione, poi il congresso decide e tutti applicano quella linea. Oggi abbiamo capito che quella cosa non funziona. La rovina del Psi non e' stata la presenza di correnti, sia pure litigiose ed anche degenerate, ma e' iniziata quanto tutto si e' accentrato in una sola persona sola e quella persona, avendo commessi gravi errori, avendo guidato male il Psi, e' caduta. Quindi non e' stata l'articolazione del partito la sua rovina. Per noi dell'area e' stato un po' difficile dire: noi siamo una minoranza. Poi c'e' stata la mozione unitaria ( che non ho votato anche un po' forzando su me stesso). Abbiamo detto ai compagni della maggioranza: "definite una piattaforma vostra su cui si possa discutere, basta con le mozioni che contengono tutto e il contrario di tutto perche' cosi' non c'e' una leale lotta politica. I compagni della maggioranza hanno detto che l'obiettivo del partito e' la rivoluzione liberale. Allora siano coerenti con la rivoluzione liberale, posizione nobilissima, perche' contiene tanti elementi di verita', la lotta anticorporativa, antimonopolistica, anticoncorrenza ecc. tutte cose giuste. La sinistra ha detto al congresso: si forza anche un po' per fare chiarezza, non c'e' niente di male a rimanere in minoranza. Adesso e' una minoranza leale che si batte per le sue idee, perche' altrimenti non nasce niente. Il Psi ha avuto una brutta conclusione, ma anche il Pci ha vissuto un periodo travagliato che ha generato una scissione, fatta in un certo modo perche' la discussione arrivati ad un certo punto non era piu' limpida, chiara, perche' le posizioni che si andavano differenziando, ecco l'autocritica, non si sono confrontate sinceramente molto tempo prima. Quindi ognuno deve sapere di essere una parzialita', anche se in maggioranza, questo e' il criterio che dobbiamo far vivere e dobbiamo affermare, e nessuno si deve sentire portatore di una verita' assoluta. Apprezzo D'Alema, parla chiaro: vuole una societa' normale e vuole una rivoluzione liberale. Dal mio punto di vista fa malissimo, ma e' una posizione che implica poi determinate scelte politiche. La posizione che io personalmente, e altri compagni della sinistra sosteniamo, e' una posizione che non pretende di essere la verita', per questo invito sempre D'Alema a riconoscere che anche lui e' una parzialita': ognuno lo deve sapere, se questa posizione della minoranza diventasse maggioranza essa stessa sara' parziale. Ci vuole una moderna critica del capitalismo che comprende il fatto che l'impresa ha un valore (mi permetto di dire che l'avevano scoperto gia' nel Pci). Su questo e' in corso una discussione con Ruffolo o con Amato il quale sostiene che la sinistra non sara' mai una vera sinistra se non capisce che il problema e' quello di introdurre delle regole nel sistema capitalistico. Obietto che bisogna introdurre delle regole di funzionamento, ma queste regole che sono gia' state introdotte non sarebbero mai nate anche nel capitalismo se non ci fosse stato il pensiero socialista, questa e' la verita', perche' il pensiero liberale e liberista non avevano dentro di se' l'idea della regolamentazione dell'economia. che e' stata introdotta dal pensiero socialista che e' uno sviluppo del pensiero democratico e quindi introduce con Marx l'idea della storicita' della formazione economica sociale e quindi della modificabilita' che non vuol dire che si possa modificare cervelloticamente, questo l'avevamo capito nella nostra critica al modello sovietico. I vecchi comunisti si sono battuti contro le nazionalizzazioni nel 1945, in Francia si nazionalizzava la Renault in Italia ci opponemmo noi a nazionalizzare la Fiat e facemmo benissimo, perche' sarebbe stata una cosa sbagliata. La moderna critica del capitalismo comprende la comprensione della funzione dell'impresa ma non affida ad una forza che voglia dichiararsi socialista o di ispirazione socialista o democratica avanzata unicamente il compito della regolazione, neanche la regolazione puo' nascere se tu non hai in mente un altro criterio che non sia quello capitalistico, questo e' il punto fondamentale. L'idea che dobbiamo rivalutare e' quella Gramsciana, l'obiettivo e' il superamento della distinzione tra governanti e governati. Un obiettivo, dice Gramsci, che non si raggiungera' probabilmente mai, ma se tu non ce l'hai in mente, la tua stessa battaglia per la democrazia sara' una battaglia monca. Per esempio, si parlera' di una democrazia compiuta se facciamo l'elezione diretta del Presidente? Ora, non ho mai fatto demagogia sulla questione, ma ci puo' essere un sistema in cui si elegge un presidente di Garanzia come in Austria, Portogallo, ci puo' essere un sistema semi presidenziale e non crolla nulla, ma non si puo' dire che questo e' il completamento della democrazia. Questo e' il punto, la distinzione: si dice "perche' il popolo decidera' direttamente", ma cosa decidera'? In America Latina decidono direttamente dell'elezione del Presidente da sempre, ma a chi viene in mente di dire che in questi paesi c'e' piu' democrazia che in Europa, oppure in Italia? La lotta per il completamento della democrazia e' un'altra cosa, ha bisogno delle idealita' socialiste, che in Italia sono state sostenute dal vecchio Pci, dal vecchio Psi, e da altre forze ancora. Ha bisogno non dell'uguaglianza delle condizioni di arrivo ma dell'uguaglianza delle condizioni di partenza. Ma questa e' una rivoluzione perche' se un bambino nasce in una famiglia di un intellettuale oppure nasce da una famiglia che non ha neanche un libro in casa, le condizioni di partenza sono infinitamente diverse, ci vorrebbero stanziamenti sociali immensi per fare uguaglianza; quindi non si devono adoperare queste parole come per dire che qui basta la liberal democrazia. Bisogna porre i problemi che riguardano la condizione materiale, la ripartizione della ricchezza prodotta, lo sviluppo della ricchezza, il limite dello sviluppo per quanto riguarda il rapporto con la natura, la distinzione sessuale della societa'. Il pensiero liberal-democratico considera il cittadino come valore universale, ma quel cittadino di cui parla anche la Costituzione italiana e' un cittadino maschio, questa e' la verita'. Solo in tempi recentissimi, anche il pensiero socialista, ha dovuto imparare dal pensiero ecologista il limite dello sviluppo e dal pensiero femminista la differenza. Si e' scoperto che il mondo e' fatto di due sessi e non di uno solo, la universalita' come la concepiamo adesso nel diritto e' una universalita' monca. Un partito che non abbia una dialettica vera, fa piu' fatica non meno fatica. E non basta trovare un bravo segretario (Massimo D'Alema e' stato eletto anche con il nostro aiuto), non basta un compagno intelligente ci vuole una dialettica vera, se no c'e' un'asfissia. Sono convinto che la sinistra non ha tutte le idee per risolvere la questione settentrionale, ma sono sempre piu' convinto che se non c'e' una discussione vera sulla questione settentrionale la Lega continuera' a mietere consensi tra gli strati popolari e la sinistra a non accrescere il proprio consenso. Pur mettendo assieme Rifondazione, il Pds e tutto il resto, nel Nord siamo diventati una piccola forza, abbiamo molti parlamentari per la distinzione esistente tra destra e Lega. E' indispensabile il confronto, lo sforzo di ciascuno per portare un contributo leale, quindi ci vuole pluralismo, e poi ci vogliono regole. Certo questo non si deve trasformare in una guerra di potentati o di singoli uomini, bisogna riscoprire le regole del pluralismo, per avere una distinzione e poi un funzionamento unitario, per avere regole sane e condivise per l'elezione dei gruppi dirigenti, per la formazione delle candidature. Alla base ci deve essere un partito in cui ognuno deve definire condizioni che non siano soltanto politicistiche, ma culturali, deve metterle in gara con quelle degli altri, consapevole di essere una parzialita'. Solo in questo modo sara' possibile dare una casa comune alla sinistra.

L'uso indiscriminato delle biotecnologie a discapito della biodiversita'

Da sempre l'agricoltura utilizza forme vegetali ed animali derivate da eventi biologici, quali ad esempio le mutazioni, riconoscendo e diffondendo i mutanti ritenuti particolarmente vantaggiosi e quindi sfrutta la genetica per il raggiungimento dei propri fini. A questo proposito basti considerare l'incremento delle produzioni medie unitarie di mais nel nostro paese che sono passate dagli 11 quintali per ettaro di fine '800, ai circa 84 quintali/ettaro attuali, grazie all'utilizzo di varieta' piu' produttive ottenute attraverso la selezione genetica e l'ibridazione, cosi' come analogamente accaduto in campo zootecnico per quanto attiene alle produzioni di latte e carne. Con l'utilizzo delle tecniche di manipolazione genetica, tuttavia, accanto agli indubbi benefici e potenzialita' offerti, anche per la soluzione di gravi problemi come quello della fame nel mondo, si aprono numerose contraddizioni non solo interne al settore agricolo, ma di ordine piu' generale che riguardano l'etica, la salute, l'ambiente, l'economia, i rapporti tra nord e sud del mondo, non circoscrivibili ad un singolo stato o ad una comunita' di stati, bensi' estensibili all'intera comunita' internazionale. Gia' dagli inizi del concretizzarsi delle possibilita' di modificazione genetica degli organismi viventi, i piu' grossi nomi della comunita' scientifica internazionale si riunirono nel febbraio del 1975 ad Asilomar, in California, per discutere e per porre limiti alla ricerca in questo campo ed alle sue applicazioni. Vi era preoccupazione per le conseguenze che alcune tecniche di introduzione di geni modificati nella cellula avrebbero potuto comportare (utilizzo di virus depotenziati come vettori), nonche' delle scarse conoscenze che non consentivano di poterli utilizzare in piena sicurezza e quindi decisero per una sospensione delle ricerche (moratoria) che per port a risultati esattamente opposti a quelli desiderati. Infatti, la moratoria comport da un lato l'arresto degli investimenti da parte della grande industria, dall'altro la frammentazione della ricerca che continu ad essere svolta in piccoli e numerosi laboratori, divenendo di conseguenza incontrollabile. Alla fine della moratoria, dieci anni dopo, ci si trov con progressi avanzati a velocita' esponenziale, con conseguenti possibili effetti negativi che solo qualche anno prima non era nemmeno possibile immaginare, mentre la grande industria pote' intervenire acquistando a poco prezzo i piccoli laboratori che nel frattempo erano sorti e con essi le loro scoperte. Penso possa essere utile un paragone, tra la portata delle scoperte in campo biotecnologico e delle manipolazioni genetiche che si sono susseguite sino ad oggi con quelle della "reazione a catena" e della "polimerizzazione", per evidenziare le analogie relative soprattutto a tre aspetti: la vastita' e molteplicita' dei campi di applicazione, l'importanza delle ricadute ai vari livelli e le conseguenze derivanti dai possibili diversi usi delle scoperte. Quando si parla di reazione a catena si pensa immediatamente alla bomba atomica, quindi a morte e devastazione, cioe' a qualcosa di estremamente negativo, mentre se si parla di polimerizzazione, probabilmente molti, soprattutto quelli della mia generazione, pensano al Moplen, ai caroselli che ne rappresentavano soprattutto la leggerezza, quasi la perdita di gravita', quindi a qualcosa di positivo, di utile. In realta', il nucleare non ha prodotto solo disastri, ne sono una testimonianza i benefici indotti dalla sua applicazione , per esempio alla medicina, mentre la leggerissima plastica inquina pesantemente, tanto da rappresentare uno dei principali problemi che ancora oggi ci troviamo ad affrontare. Questo per dire che in campo scientifico una scoperta non e' ne' cattiva ne' buona in se; e' l'uso che se ne fa a renderla l'una o l'altra cosa. Tuttavia, quando si tratta di biotecnologie avanzate si pone qualche problema in piu'. Infatti, mentre per il verificarsi degli effetti devastanti dell'uso del nucleare occorre la volonta' dell'uomo, per quanto riguarda le biotecnologie questa non e' assolutamente necessaria perche' gli organismi viventi geneticamente manipolati, una volta immessi nell'ambiente, si sviluppano da soli e non obbediscono ad altre leggi che non siano quelle autodeterminate dalla natura o dall'ambiente stesso nel quale vivono; non obbediscono quindi a limiti amministrativi o politici di alcun tipo. Si tratta, infatti, di tecnologia ad alto potenziale di alterazione che una volta immessa nell'ambiente vi permane e si sviluppa autonomamente. Mentre per l'inquinamento chimico che tutti conosciamo, e' in teoria possibile, in alcuni casi (es. inquinamento acuto: esposizione a concentrazioni elevate di un inquinante per un breve periodo di tempo), prevedere quali e quante saranno le conseguenze, nel caso degli organismi viventi geneticamente manipolati, non e' possibile nessun tipo di previsione certa, circa l'evoluzione degli stessi una volta introdotti nell'ambiente. E non valgono nemmeno le ipotesi di introduzione di organismi viventi sterili, perche' una volta introdotti nell'ambiente questi possono modificarsi, diventare fertili e riprodursi. I rischi connessi all'applicazione delle biotecnologie e delle tecniche di manipolazione genetica in agricoltura, di cui si e' avuta immediata conoscenza sono quelli relativi alla : tossicita': per l'uomo e per gli animali, perche' nella pianta o in parti di essa, cosi' come nel prodotto alimentare possono comparire sostanze chimiche tossiche e quindi nocive; manifestazione di caratteristiche indesiderate: cioe', l'organismo geneticamente modificato assume a causa delle manipolazioni cui e' stato sottoposto, caratteristiche che lo rendono piu' resistente ai fattori avversi e piu' persistente nell'ambiente. In breve, la pianta pu assumere un comportamento infestante e, per esempio, in considerazione dell'alta resistenza ai diserbanti, generare aumento dell'inquinamento da erbicidi; trasmissione di Dna per via sessuale: cioe', la possibilita' che geni introdotti in una specie coltivata passino, a prescindere dalla volonta' degli operatori, in genotipi diversi della stessa specie, o in specie affini non coltivate che per questo potrebbero acquisire caratteristiche non desiderate; trasmissione di Dna per via non sessuale: ovvero la possibilita' che i geni vengano trasferiti da un individuo ad un altro della stessa specie o di specie diverse per mezzo di virus o batteri (vettori) ospiti degli stessi. Alcuni di questi rischi, con il perfezionamento delle tecniche di clonaggio del Dna ed in seguito al progredire delle conoscenze, hanno potuto essere ridotti anche se non eliminati. Tuttavia, accanto a questi se ne sono aggiunti altri, anch'essi di fondamentale importanza che vanno oltre gli aspetti tecnico-scientifici e che allargano il campo di influenza delle innovazioni biotecnologiche evidenziando le strette, complesse e delicate relazioni tra queste, i valori morali, i rapporti economici, sociali e politici tra gli stati dell'intera comunita' internazionale, la biodiversita', gli interessi dell'industria e quelli della societa' nel suo complesso e la protezione giuridica dell'innovazione biotecnologica. Un esempio concreto di quanto affermato pu essere fornito partendo dalla considerazione dei problemi posti dalle relazioni tra biotecnologie e biodiversita'. Gia' prima della scoperta delle tecniche di manipolazione genetica, l'adozione della selezione varietale al fine di incrementare le produzioni unitarie, diminuire i costi e "migliorare" i prodotti rendendoli piu' rispondenti alle richieste del mercato, ha comportato una perdita stimata in circa 300.000 varieta' vegetali negli ultimi 50 anni: con l'utilizzazione delle moderne tecniche di manipolazione genetica tale numero e' destinato ad aumentare consistentemente ed in tempi sempre piu' brevi. Infatti, mentre prima, per introdurre un carattere dominante in una varieta' vegetale utilizzando le tecniche tradizionali occorrevano circa 7 generazioni, oggi, mediante l'adozione di tecniche di manipolazione genetica ne occorrono solo 2: circa quattro volte meno. A questo proposito, sorge spontanea una domanda: in futuro, di quanto aumentera' il numero delle varieta' vegetali che si perdono a causa dell'utilizzo di queste tecniche indirizzate esclusivamente al raggiungimento di produttivita' piu' elevate? L'impoverimento genetico causato dall'abbandono delle varieta' meno produttive ed aumentato dall'orientamento della ricerca verso colture a reddito sempre piu' alto e costi di produzione sempre piu' bassi, viene esasperato dall'uso delle biotecnologie. La riduzione del patrimonio genetico e di conseguenza delle capacita' naturali di miglioramento genetico finisce per rendere le piante piu' vulnerabili e continuando a selezionare il carattere della produttivita' si corre il serio rischio di vedere completamente distrutte talune produzioni a causa di agenti patogeni verso i quali le varieta' selezionate secondo il carattere della maggiore produttivita' potrebbero non avere alcuna possibilita' di difesa. La legislazione vigente a livello internazionale, soprattutto dopo l'accordo GATT di Marrakech del 1994, accentua notevolmente questi rischi perche' in presenza di pochi limiti, favorisce, principalmente attraverso la forte protezione dei diritti di proprieta' intellettuale, la concentrazione della produzione e del controllo sui geni. Le multinazionali delle sementi sono ormai da tempo presenti in numero massiccio, nei paesi del Terzo Mondo caratterizzati da ambienti ad altissima biodiversita', mantenuta nel tempo dalle forme di agricoltura spontanea e attualmente favorita dalla legislazione speciale sulle varieta' vegetali (Convenzione UPOV del 1961), da queste sfruttata ed allo stesso tempo minacciata. A correre rischi non sono solo i "Centri Vavilov" esistenti nei paesi del Terzo Mondo, ma anche il germoplasma custodito presso le diverse banche dei geni diffuse nel mondo, in particolare quelle situate nei Paesi dell'Est a causa delle difficolta' economiche nelle quali versano e dove secondo i dati forniti dalla Commissione sulle Risorse Fitogenetiche della FAO, sono conservate complessivamente circa 528.000 varieta' appartenenti a 2500 specie vegetali utili o potenzialmente utili all'alimentazione umana. Un esempio emblematico e' offerto dall'Istituto Vavilov di San Pietroburgo, importantissimo centro di conservazione di germoplasma che versa in una gravissima crisi e verso l'acquisto del quale e' indirizzata l'attenzione di una delle piu' grosse multinazionali del settore. La ricchezza di biodiversita' offerta in misura preponderante dai Paesi del Terzo Mondo, contrasta in modo stridente con le pessime condizioni socio-economiche nelle quali versano questi Paesi che rischiano di vedere aumentare il gia' notevole gap economico, tecnologico e sociale rispetto ai Paesi tecnologicamente piu' avanzati e ricchi, ai quali forniscono la "materia prima" e dai quali dipendono e rischiano di dipendere sempre piu' anche per il soddisfacimento dei bisogni piu' elementari, come appunto, quello dell'alimentazione e dai quali possono venire, condizionati nelle loro scelte di carattere sociale, economico, politico e culturale. Un esempio, in questo senso, pu essere fornito dalle vicende relative ai negoziati dell'Uruguay Round di Marrakech ed in particolare all'accordo TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property), sottoscritto il 15 Aprile 1994, in materia di diritti di proprieta' intellettuale che ha completamente cambiato i principi fondamentali della legislazione internazionale in questo ambito. Prima della sottoscrizione del trattato, infatti, le diverse convenzioni internazionali escludevano la brevettabilita' di tipo industriale per la tutela di diritti di proprieta' intellettuale relativi al mondo vegetale ed animale, dopo Marrakech, invece, tale tipo di brevetti e' stato esteso anche alle piante, agli animali ed ai processi essenzialmente biologici utilizzati per il loro ottenimento, in pieno contrasto, tra l'altro, con quanto previsto dalla Convenzione Europea del Brevetto del 1973, in vigore dal 1978 a tutt'oggi. Inoltre, mentre i precedenti accordi internazionali avevano subito una lenta evoluzione, via via che i punti di consenso fra gli Stati contraenti aumentavano, nel caso dell'accordo TRIPS, anche i Paesi piu' riluttanti, in modo particolare i Paesi del Terzo Mondo, hanno dovuto aderire all'accordo, da un lato perche' preoccupati dalle sanzioni nelle quali sarebbero potuti incorrere e dall'altro perche' attratti dai vantaggi conseguenti alla partecipazione all'Organizzazione Mondiale del Commercio che e' condizionata dall'adesione all'accordo TRIPS. Per contro, le Nazioni partecipanti alla Conferenza Internazionale su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, hanno affrontato nelle diverse istanze, le tematiche nella loro complessita' e dai documenti ufficiali nonche' dagli accordi raggiunti, emergono, tra l'altro, linee di indirizzo che contrastano con quella che verosimilmente e' la strada intrapresa con la sottoscrizione del TRIPS, ovvero, con le posizioni di USA e Giappone, anch'esse tra i partecipanti di Rio '92. Cito ad esempio la "Convenzione sulla Biodiversita'", che ha come scopo dichiarato "la conservazione della diversita' biologica, l'uso sostenibile delle sue componenti e la distribuzione onesta ed equa dei benefici provenienti dall'utilizzo delle risorse genetiche", dove viene riconosciuto il principio precauzionale secondo il quale "non va immessa nell'ambiente nessuna sostanza, se non esiste prova di totale assenza di effetti negativi" e dove sono contenuti richiami alla responsabilita' dei governi ed il riconoscimento del ruolo che svolgono le comunita' indigene per il mantenimento della biodiversita'; - la "Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo" che costituisce un accordo sui principi minimi e dove tra l'altro si afferma che uno Stato non ha il diritto di trasferire un pericolo ambientale al di la' dei propri confini e dove si chiede che gli Stati eliminino i modelli di produzione e consumo "non sostenibili"; - l'"Agenda 21" , approvata da tutti i Paesi presenti, costituita da 115 "aree programmatiche", nelle quali vengono trattati gli aspetti relativi alla dimensione economica e sociale dello sviluppo, nonche' della conservazione e gestione delle risorse naturali e dove si e' cercato di porre la basi per una nuova collaborazione globale per lo sviluppo sostenibile. I problemi posti dall'innovazione in campo biotecnologico sono innumerevoli e di non facile trattazione, la loro soluzione, poi non e' sicuramente a portata di mano, mentre la ricerca scientifica progredisce e soprattutto le applicazioni delle scoperte scientifiche aumentano considerevolmente ed in tempi molto rapidi. L'esperienza dimostra che le moratorie possono produrre effetti totalmente contrari agli scopi prefissati: in questo senso la moratoria decisa dopo la Conferenza di Asilomar e' emblematica. Occorre, quindi governare la ricerca scientifica e l'applicazione delle scoperte nel campo delle biotecnologie avanzate, cosi' come accaduto in passato per altri generi di innovazione di portata altrettanto vasta e straordinariamente importante. Pare evidente - a questo proposito - che le sedi nelle quali discutere delle diverse forme di governo non possono essere solo quelle contenute in ambito Comunitario, Nazionale e Regionale, anche se UE, Stato e Regioni dovranno verosimilmente svolgere una notevolissima mole di lavoro che presenta grandi difficolta' ed incognite. La strada seguita dalla Conferenza di Rio, pur con tutte le contraddizioni che si sono palesate e gli insuccessi che si sono registrati, pu rappresentare in qualche misura un utile strumento per giungere ad un accordo tra tutti gli Stati del mondo al fine di regolamentare l'uso delle biotecnologie avanzate in termini di sostenibilita', a partire dal punto chiave della brevettabilita' dell'innovazione in campo biotecnologico. Del resto, se non si desidera che quanto accaduto in occasione della sottoscrizione del TRIPS di Marrakech si ripeta, cioe' o sottoscrivere il trattato, o di fatto, penalizzare l'industria dei paesi dell'UE, rincorrendo le posizioni di chi, come USA e Giappone, per primo si dota di leggi e regolamenti che tengono conto solo ed esclusivamente dei propri interessi e non delle ricadute che le loro scelte comportano ai vari livelli, per il resto del mondo, accordi a livello di ONU e di OM potrebbero rappresentare vie percorribili. Tanto piu' se si concorda sul fatto che alcune questioni, quali i problemi legati allo scambio ineguale tra Nord e Sud del Mondo, o alla protezione della biodiversita' non possono essere completamente risolti mediante semplici aggiustamenti del meccanismo di protezione brevettuale. Ogni scoperta comporta un mutamento dello stato delle cose esistente che e' direttamente proporzionale all'importanza, al numero ed alla vastita' dei campi di applicazione, nonche' alla molteplicita' dei settori di ricaduta della scoperta stessa. Penso si possa affermare che le scoperte inerenti le tecniche di manipolazione genetica e le loro applicazioni pratiche, possiedano tutte queste caratteristiche e quindi comportino la necessita' di un nuovo approccio per la trattazione delle tematiche ai vari livelli: etico, scientifico, tecnico, economico, naturalistico, agronomico, istituzionale, per poterle gestire e governare adeguatamente. A livello comunitario, l'attivita' delle varie Commissioni e' gia' indirizzata verso la complementarieta' delle azioni nei diversi settori. Tuttavia, accanto alla normale attivita' legislativa della UE ed in considerazione della complessita' e della vastita' delle tematiche relative all'innovazione in campo biotecnologico ed alla biodiversita', potrebbe essere utile l'istituzione di una "Comunita' Europea delle biotecnologie e della biodiversita'", analogamente a quanto gia' fatto in ambito CEE con i trattati istitutivi della "Comunita' Europea del Carbone e dell'Acciaio" e della "Comunita' Europea dell'Energia Atomica", per armonizzare e disciplinare a livello Comunitario la ricerca e le applicazioni delle scoperte scientifiche nel campo delle biotecnologie avanzate per assicurare il loro sviluppo sostenibile e la protezione della biodiversita', nonche' per supportare l'UE nell'elaborazione delle politiche comunitarie di settore, sempre in armonia con quanto previsto dall'Art. 3 B del trattato di Maastricht. Per quanto attiene alla trattazione delle tematiche in ambito Statale, penso che oltre ad uno sforzo per la razionalizzazione e la semplificazione della legislazione vigente, in materia di agricoltura e di protezione della natura, possa essere utile provvedere all'emanazione di nuove specifiche leggi che fungano, tra l'altro, da quadro di riferimento per l'attivita' legislativa e gestionale delle Regioni sia in materia di biotecnologie che di biodiversita'. Infine, uno dei problemi di fondamentale importanza e' quello della assoluta necessita' di controlli, non solo sull'applicazione delle biotecnologie avanzate in agricoltura, ma anche sull'utilizzo dei prodotti bioingegnerizzati per la produzione di alimenti. Per le caratteristiche di tali prodotti, tanto agricoli che alimentari, i controlli dovrebbero essere effettuati, oltre che in via preventiva, non solo nel breve ma anche nel medio e lungo periodo. L'istituzione di un'Autority che possa svolgere attivita' di ricerca e controllo, al fine di valutare preventivamente e monitorare nel tempo le conseguenze che l'uso di organismi geneticamente modificati pu avere sugli ecosistemi e sull'uomo, nonche' fornire il proprio parere sulla possibilita' di immettere sul mercato tali organismi, potrebbe essere utile a questo scopo.

Augusto Graziani

"35 ore e mezzogiorno", tema spinoso ma non impossibile da trattare. Il dibattito sulle 35 ore cade in un momento in cui l'economia del mezzogiorno si trova in un passaggio non insolito ma delicato. Delicato perche' c'e' stato un intervento straordinario. Bloccate le opere pubbliche con la chiusura di tanti cantieri, il mezzogiorno sopravvive largamente attraverso la diffusione del lavoro irregolare e del lavoro nero. Inoltre la legislazione comunitaria diventa sempre pi restrittiva. Si stanno discutendo oggi le norme comunitarie per il triennio 2000-2003 e la posizione del mezzogiorno rischia di uscire deteriorata. Le regioni dell'obiettivo uno, quelle che hanno un reddito medio per abitante inferiore al 75% della media comunitaria, finora hanno compreso un largo numero di regioni del mezzogiorno. Con l'eventuale l'ingresso di nuovi paesi come la Polonia, la Repubblica Cecoslovacca, l'Estonia, l'Ungheria, la Slovacchia, Cipro, il reddito medio per abitante della comunita' sara' abbassato e, secondo stime del ministero del bilancio italiano, tutte le regioni del nostro mezzogiorno, tranne forse la Calabria, rischiano di trovarsi con un reddito al di sopra del 75% della media comunitaria e quindi rischiano di uscire dall'obiettivo uno. E' vero che la Comunita' si ripropone di introdurre e dare un peso molto maggiore all'elemento della disoccupazione, accanto al parametro del reddito medio per abitante, ma a quanto sembra il parametro della disoccupazione sara' applicato soprattutto per le regioni in fase di declino industriale, di deindustrializzazione, che non sono ovviamente quelle dell'obiettivo uno. Il mezzogiorno rischia quindi di trovarsi escluso da ambedue i criteri e in posizione oggettivamente difficile. A proposito di 35 ore, quale e' la situazione effettiva del mezzogiorno? E' un'incognita, e' evidente che vi sono imprese perfettamente regolari dove i contratti collettivi vengono applicati, pero' poi gi gi, attraverso una gradazione continua si arriva a situazioni in cui le ore effettivamente lavorate sono 50-60, nessuno puo' saperlo con precisione. Di conseguenza il costo del lavoro declina man mano che il numero di ore lavorate cresce senza alcun controllo. Qui viene il primo problema: la riduzione del costo del lavoro (che di fatto nel mezzogiorno esiste gia', come esiste la flessibilita') quali riflessi esercita sull'occupazione? Su questo la sinistra rievoca la famosa figura del grande maestro di Cambridge: Keynes. In genere si richiama la figura di Keynes per dire: la riduzione del costo del lavoro e la riduzione dei salari non hanno effetti sull'occupazione. A costo di contrastare uno dei miti della sinistra direi che invece questa autorita' di Keynes viene richiamata senza molto fondamento. Perche' Keynes, e' vero, disse che la caduta del salario non ha effetto sull'occupazione, ma lo disse in relazione ad un'economia chiusa agli scambi con l'estero e aggiunse subito dopo che invece, se si tratta di competere sul mercato internazionale e quindi di soddisfare una domanda esterna e concorrere con altri paesi, allora si', la riduzione del costo del lavoro ha effetto, e come, sul livello di occupazione. Dobbiamo riconoscere che, sia pure sul piano del lavoro irregolare e sommerso, senza alcuna garanzia, senza controllo sulle condizioni di lavoro e sugli orari, senza controllo nemmeno delle garanzie igieniche e di sicurezza, tuttavia l'occupazione, di fatto, e' cresciuta nel mezzogiorno, e questo in parte e' connesso alla caduta del costo del lavoro. Pero', dobbiamo anche tener presente un secondo aspetto che ha importanza vitale: quali sono le tecnologie, quale e' la produttivita', qual e' il tipo di prodotto che viene realizzato in questi ambienti? Un altro mito della sinistra e' che le tecnologie dell'industria moderna sono rigide e quindi non vi sarebbero grandi variazioni. Viene portato spesso il famoso esempio dell'operaio di Prato che lavora magari da solo con una costosissima macchina, ha una produttivita' elevatissima, eppure lavora come lavoratore autonomo, non e' inquadrato in una grande industria moderna. Questo sara' vero, ma nel mezzogiorno le condizioni non sono queste. I cinesi che nei sotterranei cuciono le borse che poi vengono vendute come borse firmate, lavorano con l'ago e con il filo; le ragazze calabresi che confezionano i pantaloni per le industrie del Nord e cuciono le asole una per una lavorano con l'ago e il filo come le nostre bisnonne, se va bene hanno una macchina da cucire; i senegalesi che nel casertano raccolgono i pomodori, trasportano le cassette a spalla come facevano nel loro paese d'origine (se lo facevano). Quindi, in questa situazione, le tecnologie sono in realta' infinitamente flessibili. dobbiamo fare tesoro di questo dato di fatto per ricordare che la tecnologia e' qualcosa che l'impresa, potrei anche dire il capitale, determina a seconda delle proprie convenienze. Nel mezzogiorno abbiamo due aspetti: caduta del salario e del costo del lavoro, certamente aumento di occupazione sommersa, ma crollo tecnologico. E allora, questa industria che sta nascendo nel mezzogiorno cosa e' in realta'? E' un prolungamento del segmento della produzione materiale di altre industrie che stanno in altre regioni o addirittura in altri paesi. Possiamo chiamarla industria? Questa e' lavorazione materiale. La vera industria e' composta di tanti segmenti, la progettazione, la finanza, il mercato, la gestione del personale, ma in questo panorama delle fasi in cui si articola la produzione industriale il segmento della mera lavorazione materiale e' il segmento pi povero, quello in cui c'e' la minore produzione di valore aggiunto. E' questo che si va localizzando nel mezzogiorno. Noi tutti abbiamo letto le posizioni della Confindustria. La Confindustria ed i suoi esperti tessono l'elogio del lavoro irregolare e sommerso, avendo preso in esame in particolare la cintura del napoletano, ma evidentemente sono pronti ad estendere la stessa diagnosi positiva a tutte le altre situazioni analoghe perche' cosi', essi affermano, nel sommerso si comincia la produzione manifatturiera, poi la situazione migliorera' e nascera' lo sviluppo industriale del mezzogiorno. Ma questa non e' industrializzazione: significa trasformare il mezzogiorno in un grande laboratorio al servizio di industrie vere e proprie che si trovano altrove nel paese o in altri paesi. C'e' un problema di politica industriale sul quale la Confindustria gioca al ribasso: il suo obiettivo e' di creare una sottoregione di lavoro manifatturiero manuale. Viceversa, se il governo vuole davvero fare una politica per il mezzogiorno, non deve associarsi alla Confindustria, ma deve giocare al rialzo. Questo significa puntare sulla creazione di una industria vera e propria che sia una industria completa, e non solo il segmento della lavorazione materiale, e che quindi abbia la possibilita' di appropriarsi anche di quei segmenti dove la porzione di valore aggiunto e' molto pi ampia. Questo evidentemente non si fa con la flessibilita', non si fa riducendo il costo del lavoro, non si fa autorizzando il lavoro notturno per le donne, non si fa autorizzando il salario d'ingresso, ma con una politica industriale che abbia come primo strumento la creazione dei mercati. Cos'e' la nostra politica industriale? E' una politica tutta rivolta ai mercati dell'Europa centrale e settentrionale, i mercati ricchi dove possiamo vendere perche' il costo del lavoro da noi e' molto pi basso, con qualche punta in paesi lontani. Ma dovremmo rivolgerci anche ai mercati nuovi, crescenti, emergenti dei paesi del mediterraneo, dove possiamo esportare nuove industrie, nuove tecnologie. La storia lo dimostra chiaramente: chi riesce ad esportare una tecnologia nuova ha conquistato il mercato, perche' esporta i macchinari, perche' si assicura le consulenze tecniche, l'assistenza, i ricambi. La prima e la seconda industrializzazione sono state fatte attraverso queste manovre di conquista di nuovi mercati, attraverso l'installazione di nuovi impianti e quindi l'esportazione di nuove tecnologie. In questo quadro, che significato hanno le 35 ore per il Mezzogiorno? Sono un segnale importantissimo, sono il segno che il governo, nell'accettare l'obiettivo delle 35 ore, ha deciso di puntare anche per il mezzogiorno sulla realizzazione di un vero settore industriale moderno e non soltanto, ancora una volta, ripetitivamente e stancamente, sulla solita politica di riduzione del costo del lavoro che trasforma il mezzogiorno in una grande riserva di lavoro nero.

Giorgio Cremaschi


Anzitutto, cosa sarebbe il dibattito politico e sociale in Italia in questi giorni se non ci fosse stato l'accordo di governo sulle 35 ore? Temo che l'unico aspetto non provincialistico sarebbe la discussione sui tempi di raggiungimento di Maastricht e sulle modalita' di intervento sul bilancio pubblico. Questa considerazione spiega in qualche misura l'effetto di spiazzamento che la vicenda della riduzione dell'orario di lavoro ha avuto e sta avendo sulla politica e sul sociale. Per questo ci troviamo in una situazione assai diversa e piu' complessa rispetto a quella francese e siamo piu' deboli: deriva da qui la virulenza dell'offensiva ideologica, politica (ringhiosa anche sul piano del costume e del linguaggio) di Confindustria. Parlo, piu' in generale di una sorta di acquiescenza della societa' civile e dell'intellettualita', anche di quella piu' a sinistra, nei confronti della rabbiosa affermazione di Confindustria secondo cui le 35 ore interrompono in qualche modo un percorso naturalmente virtuoso verso l'Europa e verso lo sviluppo. La vicenda dell'orario e' diventata, per quei meccanismi un po' strani, voluti ma anche contingenti della politica, un nodo centrale non solo della politica economica e sociale dell'Italia, ma anche dell'Europa. I metalmeccanici tedeschi ci hanno detto, nella sostanza, che se in Italia fallira' l'operazione delle 35 ore, la Confindustria tedesca rimettera' in discussione la riduzione dell'orario anche da loro. E se le 35 ore verranno messe in discussione in Germania sicuramente in quel paese ci saranno un milione di disoccupati in piu', ma in Italia ne avremo due milioni in piu', perche' la competitivita' della produzione tedesca sara' tale che anche il Nord-Est potra' diventare una zona depressa: qui c'e' una sorta di autolesionismo degli industriali italiani. L' assenza di discussione e di confronto politico, sociale e culturale in qualche modo indebolisce la battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro. Ad esempio sarebbe un errore se facessimo derivare la necessita' di questa scelta da una sorta di equazione aritmetica per cui, data una quantita' fissa di lavoro, si tratta di spartirla tra tutti. Se si trattasse solo di una questione di buon senso l'offensiva della Confindustria non sarebbe cosi' violenta come e'. Condivido molti dei punti di analisi presenti nella relazione meticolosa di Alfonso Gianni, ma mi permetto di sollevare la mia perplessita' per il richiamo che viene fatto a Rifkin: non e' vero purtroppo, come sostiene Rifkin, che stiamo andando verso una societa' in cui il lavoro sparisce. E' vero il contrario: a livello mondiale assistiamo ad una crescita senza precedenti del lavoro. Solo che mentre in Europa in particolare, esistono ancora vincoli sul piano sociale, contrattuale, legislativo, alla crescita del capitalismo selvaggio, negli altri paesi questo sviluppo avviene sulla base di un modello ottocentesco privo di qualsiasi regola. Questa e' la contraddizione di fondo: un capitalismo nazionale che ha ancora delle regole e un capitalismo mondiale che non ne ha e non ne vuole alcuna. In questo contesto e' comprensibile la rabbia degli industriali italiani che considerano il modello di capitalismo mondiale come il punto di arrivo di tutti i paesi: quella e' la direzione di marcia, con tempi e modalita' da definire, con le gradualita' del caso. Una direzione di marcia che punta a liquidare il sistema di regole, di garanzie e di tutele sulle condizioni del lavoro a tutti i livelli della produzione e che non da per scontato neppure che le produzioni a piu' basso costo debbano restare nel terzo mondo. Nelle aree di deindustrializzazione, di nuovo sviluppo, Il nuovo lavoro e' in parte da noi, un lavoro a bassa qualifica, a bassi salari, un lavoro operaio, precario. A Torino, ad esempio, sono in atto processi di distruzione di posti di lavoro ad alta tecnologia, sostituiti in gran parte da posti di lavoro precari e di decentramento legati alla totale flessibilita' della manodopera. Quindi il meccanismo del terzo mondo gia' si ripercuote sul nostro primo mondo sommandosi, come ci insegnano gli industriali, alla competitivita' dei paesi dell'Est e del Sud Est Asiatico, dove c'e' uno sviluppo, ma totalmente privo di diritti. In questo contesto la questione del tempo e' davvero fondamentale. Dalla meta' degli anni '70 il tempo di lavoro aumenta in tutte le sue forme, e viene eliminata anche quella che viene chiamata "porosita' del tempo di lavoro": la razionalizzazione dell'organizzazione del lavoro fa saltare le pause tra la lavorazione di un pezzo e l'altro, che in qualche modo erano momenti di riposo. Le ore di lavoro sono piene, dense, non ci sono vuoti e questo aumenta la fatica e la quantita' di lavoro per ora di lavoro effettiva. Poi c'e' un allungamento degli orari di fatto. Abbiamo risposto agli industriali piemontesi che per primi avevano lanciato l'offensiva contro la riduzione dell'orario di lavoro con un calcolo elementare: solo nella nostra regione, e solo per quanto riguarda il settore metalmeccanico, l'aumento degli straordinari ha portato all'eliminazione, nello scorso anno, di almeno 15 mila posti di lavoro. Anche la flessibilita' senza controllo "mangia" lavoro e tempo: la differenza, a seconda dei periodi dell'anno, degli orari di lavoro porta alla diminuzione degli organici. Ma oggi abbiamo scoperto "l'arma segreta": la Banca delle ore. Chiunque versi qualcosa in una banca la prima cosa di cui si preoccupa e' se potra' riaverla indietro. La Banca delle ore, nella maggior parte delle aziende, sarebbe una banca di sequestro delle ore, che non verrebbero restituite, ne' potrebbero esserlo. Perche' se un lavoratore accumula ore ma poi, quando le dovrebbe utilizzare per il riposo, chi lo dovrebbe sostituire non e' mai stato assunto, continuera' a lavorare. E allora non solo non funziona la Banca delle Ore, ma addirittura i lavoratori della Fiat non riescono a fare le quattro settimane di ferie. Quando si introducono meccanismi di flessibilita', quali sono gli strumenti per impedire che si trasformino in ulteriori strumenti di arbitrio nelle mani delle aziende? Una banca delle ore che non comporti contemporaneamente un aumento degli organici in proporzione a quanto si riduce l'orario, sarebbe un imbroglio e una forma di flessibilita' selvaggia. E infine voglio sottolineare un aspetto che considero fondamentale: in assenza di contrattazione, se si seguono comunque i tempi aziendali, il fatto, ad esempio, di avere orari estremamente flessibili, di lavorare alcuni giorni alla settimana e non altri, e' davvero tempo liberato? Questa e' la ragione della diffidenza dei lavoratori sulla flessibilita' degli orari: o c'e' un meccanismo di contrattazione, oppure, se si pensa di introdurre automaticamente migliori condizioni di lavoro, si rischiano sconfitte drammatiche nei confronti dell'opinione dei lavoratori. E c'e' un altro aspetto, non calcolato e non calcolabile ma decisivo, di allungamento dei tempi: per le giovani generazioni, ma non solo, la perdita del posto di lavoro garantito produce una condizione di precarieta' per cui si e' sempre a disposizione sul mercato del lavoro per poter trovare un nuovo posto. Cercare per giorni e giorni, magari per lavorarne quattro, aspettare davanti al telefono la chiamata di lavoro, e' tempo liberato? No, e' tempo di schiavitu', non e' tempo soggetto a diritti, non viene calcolato come tempo di lavoro e pagato, ma e' tempo di lavoro. Questo vale per il lavoro precario ma sta paradossalmente introducendosi anche per le alte qualifiche: oggi i manuntentori della Fiat sono costretti a contratti di reperibilita' che sostanzialmente li tengono a disposizione dell'azienda 60, 70, 80 ore alla settimana, sempre. Quindi il tempo di lavoro sta aumentando ed e' questo che il padronato sta difendendo. Le difficolta' di una battaglia per la riduzione di orario nascono anche dal fatto che il padronato italiano pensava di essersi incamminato su un lento, graduale percorso di aumento dell'orario e di governo assoluto e unilaterale del tempo di lavoro. Ho apprezzato il passaggio nella relazione in cui si dice che sarebbe bene rispondere con piu' forza agli industriali che sostengono di essere costretti a trasferire le produzioni in Romania e in Bulgaria a causa dell'orario di lavoro. Si trasferiscono in quei paesi non per gli orari, ma per i salari: i vantaggi non sono ne' sulla produttivita', ne' sulla flessibilita', ne' sugli orari, perche' non mi risulta che i lavoratori bulgari, rumeni e polacchi prendano 2 milioni al mese pur lavorando moltissime ore. E forse qualche risposta in piu' dovrebbe venire anche dal governo. Non riesco a non indignarmi di fronte ad un Ministro dell'industria che lascia smantellare l'Olivetti, si disinteressa o sostanzialmente considera le vicende di tutti i settori strategici come problemi di mercato. Faccio un esempio: l'SKM, multinazionale svedese che ha minacciato di investire altrove se in Italia si portera' l'orario a 35 ore, ha molti piu' stabilimenti in Germania, dove gia' lavorano 35 ore, eppure ha posto il problema dell'orario non in Germania, ma in Italia. Questo significa che il giudizio sul livello dell'industria italiana e' di un paese la cui qualita' industriale puo' competere solo ad un livello medio-basso. Questo e' il nodo della discussione sulle 35 ore. E' giusto non considerarlo di facile attuazione e sottolineare il fatto che richiede interventi strategici di politica industriale. E se l'idea che hanno della collocazione dell'Italia le classi dirigenti e dominanti di questo paese, e' a meta' strada tra i paesi dell'Est europeo, la Francia e la Germania, e' evidente che non solo le 35 ore, ma qualsiasi meccanismo di garanzia sociale, non e' ammesso, perche' non e' quello il livello competitivo. Ma allora, a maggior ragione, poiche' tutti sostengono che non vogliamo competere con la Corea, ma con i paesi piu' avanzati, la risposta al problema delle 35 ore non e' dire "il problema non esiste", ma e' usare le 35 ore come un grande strumento di innovazione sociale, affrontando da un lato i problemi dell'occupazione, e dall'altro lato quelli del modello di sviluppo. E' una grande sfida tecnologica e produttiva che non a caso puo' rappresentare un passaggio decisivo per l'industria italiana. La Volkswagen ha aumentato la sua quota di mercato in Europa producendo 28 ore alla settimana. La Fiat, tolti i guadagni della rottamazione, non ha aumentato la sua quota di penetrazione in Europa. Dietro la campagna violenta e furibonda degli industriali italiani c'e' la cultura conservatrice del padronato italiano, delle classi dominanti. Credo che quando il governo Prodi varera' la legge sulle 35 ore, lo fara' con adeguati meccanismi di controllo, di sviluppo e di incentivo per l'industria, cosi' la riduzione dell'orario potra' diventare il crinale su cui si sposta l'equilibrio sociale ed industriale in Europa. E' chiaro che questa e' anche una questione politica e culturale. Non e' casuale che gli industriali piemontesi abbiano usato come modello negativo la Francia e che, viceversa, apprezzino i paesi anglosassoni, la Spagna, i paesi della flessibilita' selvaggia. Per quanto riguarda il sindacato capisco le nostre difficolta', chiedo a tutti di comprenderle, pero' credo che il sindacato debba sottolineare un po' meno i rischi (che conosciamo) e cominciare a parlare delle potenzialita', altrimenti potremmo non essere compresi nei luoghi di lavoro. E se i padroni vinceranno questa battaglia, se riusciranno a impedire la legge sulle 35 ore, il riflusso nei luoghi di lavoro non sara' verso la solidarieta' e la concertazione, sara' il piu' barbaro riflusso verso l'aziendalismo e il corporativismo. Questa e' una grandissima occasione per ricostruire cultura e solidarieta' nel mondo del lavoro. Vorrei che fosse chiaro che non puo' essere solo una questione del sindacato: non possiamo pensare che, in una fase come l'attuale, la difesa dei rapporti di lavoro e della condizione del lavoro sia affidata ad una sorta di esclusiva del rapporto tra azienda e sindacato, che finirebbe inevitabilmente per introdurre un modello corporativo. La concertazione puo' saltare da destra mettendo in discussione i due livelli di contrattazione. Ho apprezzato il riconoscimento della necessita' di una legge che qui ha fatto Cerfeda. La legge e' un punto centrale perche', pur essendo a favore del movimento e della lotta di classe, ho presente i rapporti di forza: se non ci sara' un intervento politico generale che rimetta in marcia un meccanismo di intervento sul lavoro e sulle condizioni di lavoro, con i soli rapporti di forza aziendali, da un lato il sindacato, dall'altra il mercato e la mondializzazione, il meglio che possiamo fare e' difendere, perdendo pezzi, le condizioni che abbiamo. Dall'accordo alla Piaggio, (non mi permetto di giudicare quei lavoratori, perche' so bene che quando il padrone minaccia il licenziamento si concede sempre) ci viene un insegnamento politico generale: con i soli rapporti di forza sindacali non ridurremo l'orario. Non lo ridurremo anche perche' il padronato italiano (la Piaggio e' un esempio tipico), a differenza dei padronati di altri paesi, non ha proposte, non ha nemmeno discusso, considera il contratto di solidarieta' una violazione dei suoi diritti civili proprio perche' l'idea brutale (temperata dalle leggi) ma brutale degli industriali e' puntare alla continua selezione e al modello americano. La data della legge deve essere fissata, perche' gli accordi senza data e senza quantita' non sono accordi, e i padroni li percepiscono subito come tali. Ovviamente ci deve essere un rapporto con la contrattazione, anzi la contrattazione e' indispensabile. Ma perderemmo la battaglia sull'orario di lavoro se la considerassimo una battaglia per un pezzo della societa' che sta scomparendo, perche' il prossimo sara' il secolo del non lavoro. Questa e' una battaglia che si misura con i nodi centrali della mondializzazione nel nostro paese e in Europa e propone un compromesso al capitalismo. Ma per conseguire questo compromesso ha bisogno di una mobilitazione che ancora non c'e' e che va costruita.