www.ilponte.it

In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - settembre 1998 n.5

Numero speciale "Verso l'Europa sociale"

 

Milano, 19 Settembre 1998  Camera del Lavoro

Documento di convocazione del Forum
Giorgio Cremaschi, Giorgio Lunghini, Dino Greco, Gigi Malabarba,
Betti Leone, Heinz Birnbaum, Gian Paolo Patta, Ugo Spagnoli, Alessandra Mecozzi, Luca Casarini, Giacinto Botti

Francoforte, 3 Ottobre 1998

Horst Schmitthenner, Fulvio Perini, Adriana Buffardi, Mario Agostinelli, Rosa Rinaldi, Nicola Nicolosi

 

******************

 

Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

G. Falabrino, L. Miani

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

Fax 02/28.22.423

ilponte@galactica.it

 

Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

 

  Relazione di Giorgio Cremaschi

Le considerazioni che faro' sono di carattere esclusivamente personale, anche se cercano di tenere conto della discussione che ha portato alla stesura del documento preparatorio. Vogliamo che questa iniziativa sia un momento di incontro tra persone che nel sindacato, nell'associazionismo, nel mondo della cultura, nel giornalismo continuano a mantenere esperienze, differenze, valutazioni e quindi collocazioni differenti. Un incontro di persone diverse, cui proponiamo di mettere a fattore comune un terreno di ricerca e di impegno in senso antiliberista. Siamo militanti, funzionari, persone che operano nel sociale, scontente di quello che sta avvenendo in relazione alla gravita' dei problemi e alle misure che vengono messe in campo, ma allo stesso tempo non rassegnati al fatto che sia inevitabile che una ricerca, una cultura, un'iniziativa antiliberista debbano restare limitate ad aree ristrette o marginali della politica e della cultura. L'obiettivo esplicito che ci poniamo e' la costruzione, in rapporto ad altre esperienze che stanno sorgendo in Europa, una iniziativa perche' anche in Italia vi sia un dibattito e, diciamo pure, uno scontro politico-culturale sul liberismo. Troppe cose qui da noi vengono date per scontate: in altri paesi europei c'e' una maggiore frantumazione certo, ma anche maggiore conflitto sui nodi di fondo; maggiore ribellione, maggiore ricerca alternativa rispetto alle questioni poste dal pensiero unico e, soprattutto, dalla pratica unica del liberismo. Credo sia giunto il momento, visto che siamo entrati in Europa dal punto di vista monetario, di entrare in Europa anche con la costruzione di una cultura sociale e politica, di una pratica antiliberista fino ad oggi assente nel nostro paese. Perche' usiamo il temine "liberismo" ? Perche' qui, ad esempio, a differenza che altrove, una parte della maggioranza di governo (che in altri paesi sarebbe chiamata di sinistra) non accetta semplicemente alcune regole liberiste, ma assume il liberismo come valore. C'e' anche un problema di linguaggio. Da noi il termine "liberismo" ha assunto un carattere di neutralita' superiore che in altri paesi europei, e il senso di questo incontro e' anche di ripristinare il senso e il valore delle parole e non dare per scontato, che quello che per noi e' ovvio, altrettanto ovvio sia, non dico per il paese, ma neppure per le forze cui facciamo spesso riferimento, e in cui operiamo. Anche la dimensione europea non e' affatto scontata nella nostra discussione, o lo e' solo apparentemente, ma e' una dimensione importante proprio di fronte a cio' che sta avvenendo in questo periodo, alla crisi finanziaria e mondiale che, per la prima volta con molta chiarezza, sta dando a livello di massa (anche a livello di mezzi di comunicazione la massa) la sensazione che sia vero cio' che molti di noi hanno detto nella piu' totale incomprensione: che il meccanismo globale della finanziarizzazione dell'economia, puo' portare il mondo a disastri economici e produttivi senza precedenti. Oggi questo viene sostenuto da molti: qualche giorno il Direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, in un articolo usava parole come "pensiero unico" e, prendendosela con il mondo monetario internazionale, attaccava la mancanza di regole della globalizzazione. E tuttavia, e' troppo facile e troppo scontata una discussione in questi termini, tanto e' vero che, finita la giaculatoria contro il fatto che viviamo in un mondo senza regole, quando si parla di misure concrete, siamo esattamente alla riproposizione delle regole e dei contenuti precedenti. Ci sono ormai quattro slogans che vengono continuamente riproposti come soluzione ai problemi economici in Europa e nel mondo: riduzione delle tasse; riduzione della spesa pubblica; flessibilita'; privatizzazioni. In sostanza, i centri economici fondamentali, le banche centrali, le confindustrie ci dicono che, proprio perche' siamo in una fase di crisi economica e finanziarizzazione, bisogna ridare forza allo sviluppo riducendo le tasse sui capitali e la spesa pubblica, aumentando la flessibilita', incrementando le privatizzazioni dello stato sociale e dell'economia. Puo' venire il dubbio che una parte fondamentale della crisi sia dovuta al fatto che tutti i paesi hanno adottato queste misure, e quindi si e' costruita una competizione globale non fondata sull'idea della crescita mondiale, ma sull'idea della guerra competitiva tra aree che corre il rischio di provocare una vera e propria recessione mondiale. Ma il pensiero prevalente nel nostro paese e' che il liberismo abbia fallito perche' era non era sufficientemente "spinto" troppo poco. Siamo di fronte ad un meccanismo che ha anche chiari avvitamenti di carattere ideologico ma che ci colpisce nel profondo. La maggior parte degli economisti di fronte al malato economico si comportano come i medici del seicento che praticavano salassi indipendentemente dalla cura e dalla malattia, perche' non sapevano fare altro. Da questo punto di vista la condizione politica e sociale dell'Europa non mi tranquillizza affatto, perche' e' vero che qui abbiamo il sistema sociale piu' giusto, o meno ingiusto rispetto a quelli presenti nel mondo, ma e' anche vero che proprio in Europa, da parte dei governatori delle banche centrali, della Banca Centrale Europea, delle forze conservatrici, del grande padronato, viene l'attacco piu' duro al sistema sociale, che tentano di far saltare, usando come strumento la moneta unica. Se dovessi ipotizzare degli scenari, direi che l'equilibrio sociale del pianeta si gioca in qualche modo in Europa. Se usciremo da questa fase di crisi e di recessione economica con un giro di vite liberista in Europa non e' vero che entreremo in una fase di ulteriore sviluppo, ma in qualche modo il modello americano, il modello della privatizzazione totale delle relazioni e dei rapporti sociali in economia verra' accentuato. In questo periodo e' di moda protestare contro il fondo monetario internazionale, ma anche nel pensare comune, il fondo monetario internazionale sta a Washington. Certo che la banca mondiale sta li', ma gran parte della cultura che ispira i banchieri e gli esperti che governano il fondo monetario internazionale viene ispirata da intellettuali conservatori europei, da forze conservatrici europee. In questo senso ho l'impressione che si stia riproducendo, paradossalmente, una situazione molto simile a quella degli anni '30: allora la crisi mondiale era nata negli Stati Uniti, ma le politiche rigoriste, monetariste dei governi democratici europei, in particolare della Germania, ma anche dell'Inghilterra, la aggravarono enormemente portando al disastro politico e sociale. Questa e' una riflessione che dobbiamo fare: l'Europa e' il terreno su cui si gioca lo scontro sui cardini di quello che e' stato chiamato "patto di stabilita'" che accompagna il Trattato di Maastricht. Vedo nel patto di stabilita' e nella sua successiva gestione, una follia monetarista tanto piu' grave nel momento in cui questa si misura con una recessione economica. Qualche giorno fa sul Manifesto un economista si chiedeva giustamente: dopo Maastricht, con enormi sacrifici tutte le economie sono state allineate al 3%, perche' adesso puntare al 2%, o all'1%? Basterebbe mantenere i canoni della spesa pubblica in tutta Europa al 3% (obiettivo che si stanno dando tutti i governi, compreso quello italiano) per liberare decine di migliaia di miliardi per gli investimenti, per il lavoro, per lo sviluppo. E invece no, si procede per giri di vite successivi, e tutti questi processi tendono a liquidare, a mettere in discussione in maniera radicale lo stesso sistema sociale europeo. Si e' fatta la moneta unica, ma non c'e' nulla di paragonabile ed equivalente sul piano delle politiche sociali. E anche quando si sentono esponenti politici non conservatori parlare di regole ("perche' crollano le borse, crollano i capitali e quindi ci vogliono delle regole"), non viene mai specificato il senso, e lo scopo di queste regole. Siamo di fronte ad una situazione paradossale: dopo la moneta unica, la gran parte dei governi tende a tradurre il patto di stabilita' in singoli patti sociali nei singoli paesi fatti in competizione l'uno con l'altro. Viene da chiedersi: ma se la prospettiva dell'unita' europea e' quella della svalutazione concorrenziale dei sistemi sociali e dei diritti per l'Italia, la Francia, la Spagna, l'Inghilterra e cosi' via, perche' e' stata fatta la moneta unica? Mantenere la flessibilita' delle monete, tutto sommato avrebbe creato meno danni. E' impensabile la moneta unica mentre i singoli stati continuano a svalutare le pensioni, i salari, i sistemi sociali e a porre come punto centrale della competizione il costo del lavoro. E' possibile continuare in politiche che propongono sviluppo e lavoro partendo dalla tesi di fondo che se l'economia diventa piu' virtuosa, si riduce il costo del lavoro, aumenta la capacita' produttiva del sistema, automaticamente si creeranno le condizioni per cui gli investimenti costruiranno lavoro? Le difficolta' economiche in arrivo dimostrano che si puo' insistere producendo meccanismi di incentivo, ma se non si cambia strada non avremo una ripresa dell'occupazione e del lavoro. Su questo occorre aprire una discussione in Italia ed Europa: continuando con le politiche monetariste e liberiste, o accentuandole, e magari aumentando la competizione tra area ed area, territorio e territorio, al massimo si trasferisce occupazione da un posto all'altro. Per affrontare il problema dei 18, 20 milioni di disoccupati, e dei 50 milioni di poveri dell'Europa continentale bisogna fare altro. E non possiamo neppure dirci soddisfatti della tenuta del sistema sociale europeo. Molti di noi, anche per storia, hanno una radicale avversione per il modello sociale economico americano, ma i dati dimostrano che in questi ultimi anni l'andamento della distribuzione dei redditi, l'andamento dei profitti e delle disuguaglianze reali e' stato piu' forte in Europa che negli Stati Uniti.

Ma permettetemi di fare un'altra considerazione: il lavoro in Europa e', se dobbiamo ascoltare quello che ci viene spigato a volte anche da esponenti dell'area progressista, diviso in due: ci sono gli esclusi e gli inclusi, c'e' una massa di lavoratori precari, senza diritti, e poi un nucleo di lavoratori, piu' o meno ampio, che invece e' privilegiato. Per noi e' una sciocchezza, tuttavia credo che dobbiamo ragionare su questo, per capire il senso di cio' che sta avvenendo. I lavoratori europei hanno piu' diritti degli altri, ma nei meccanismi del mercato mondiale, questi diritti affondano sulla sabbia, e lo sanno prima di tutto i lavoratori. In realta' ci sono lavoratori precari e lavoratori che si sentono in via di precarizzazione, e gran parte del lavoro dipendente vive questa condizione di angoscia: si avverte nelle grande fabbriche, dove i diritti sono tutelati, in molti settori dei servizi, spesso nel mondo del servizio pubblico. Quindi non c'e' solo la condizione di precarieta', c'e' la minaccia della precarizzazione, che distrugge i diritti e i poteri contrattuali, ma spesso distrugge qualcosa di piu' profondo: l'identita', il senso dell'avere diritti, la passione, e crea rassegnazione . Rispetto al dibattito che percorre la sinistra sulla partecipazione, la rassegnazione, la delega c'e' l'altro grande contrasto che viviamo in Europa. In Europa abbiamo il massimo di organizzazione delle forze sociali, i piu' forti sindacati, la sinistra organizzata in tutte le sue anime e articolazioni, c'e' in fondo una cultura sociale dei diritti piu' avanzata che in altri paesi, eppure sentiamo tutto questo profondamente minacciato. E sentiamo anche che la maggioranza vive con inerzia rassegnata quello che sta avvenendo: siamo di fronte ad un processo di cui al massimo e' possibile limitare i danni, ma non e' possibile cambiare. Questo produce rassegnazione, mancanza di partecipazione e distruzione di identita'. In Europa non si arrivera' alla cancellazione totale dei diritti, ma non dobbiamo sottovalutare il rischio del dibattito economico e sociale sulla competitivita'. Nessuno sostiene che si devono abbattere tutti i diritti, ma che i diritti, questo e' il nodo di fondo, devono essere in qualche modo funzionalizzali all'economia, contrattualizzati, sottoposti ad un principio di sussidiarieta' per cui valgono in funzione delle condizioni salvo uno zoccolo minimo. Ma quando poi si prende in esame questo "zoccolo minimo" di diritti sociali, cioe' la carta dei diritti dell'uomo, si scopre che nel 90% del mondo non c'e'. Nella nostra cultura e' presente l'idea del mercato, delle regole economiche, pero' ci sono diritti che si chiamano "indisponibili", che nessuno piu' toccare nemmeno il soggetto interessato. Sono i diritti che configurano la dignita' della persona a prescindere dalle regole economiche, ed e' compito del nostro vivere collettivo salvaguardarli e difenderli. Oggi, nella prevalenza della logica del mercato, questi diritti indisponibili corrono il rischio di essere totalmente disponibili e variabili,. Del resto il meccanismo economico corre il rischio di creare anche nella concezione comune l'idea che non c'e' parita' di diritti, infatti, anche nel linguaggio corrente l'impresa ha assunto una forte centralita' ed e' diventata in qualche modo una fonte neutra non una parte della societa'. Per questo la maggior parte di quelli che vengono definiti "interventi per il lavoro", sono in realta' finanziamenti alle imprese, perche' e' l'impresa che da lavoro. Quindi c'e' un problema di linguaggio, di rapporto e di scelte. Noi partiamo dall'idea che sia possibile costruire una critica al pensiero dominante, che fa della centralita' dell'impresa e dei meccanismi di mercato valori naturali incontestabili e che subordina a questi, in particolare in Europa, i diritti indisponibili delle persone, ma per fare questo e' necessario mettere assieme in pensiero, un progetto e un'iniziativa. Nel documento che oggi presentiamo ragioniamo sulla necessita' di un progetto economico, sociale in qualche modo neokeynesiano, in cui l'intervento pubblico non sia demonizzato, e per il lavoro si costruiscano iniziative, non solo dal punto di vista della politica dell'offerta, ma anche da quello della politica della domanda; un progetto che punta ad un nuovo modello e ad una diversa qualita' della sviluppo, che rifiuta di mettere in contrapposizione, come oggi sta avvenendo, il diritto al lavoro al diritto di chi lavora.

Le considerazioni fatte ci portano a due nodi della discussione.

Le regole. Dobbiamo avere il coraggio di usare un vecchio linguaggio del riformismo, cioe' chiedere come e' possibile sviluppare e introdurre il lavoro se non si pensa a redistribuire la ricchezza. Se la ricchezza, in Italia, in Europa e nel mondo non viene redistribuita come si fa a pensare che il mondo possa proseguire? Siamo di fronte ad un dato paradossale: la ricchezza si sta semplicemente autodistruggendo. E allora dobbiamo dire con chiarezza che le regole ci saranno se ci sara' una redistribuzione sociale, e se questa redistribuzione sociale sviluppera' una diversa politica economica, del lavoro e dei diritti.

Il Patto Sociale: sono convinto che non sia questa la strada da percorrere. Naturalmente si possono avere idee diverse su questo, ma c'e' un punto su cui tutti dobbiamo riflettere: il liberismo non se ne andra' da solo, perche' ha scoperto di aver fallito. Quello che sta avvenendo in Italia e nel mondo dimostra che senza mettere in moto un meccanismo di mobilitazione, senza rimettere in moto il conflitto sociale, il liberismo continuera' a produrre danni, e dilaghera' la sensazione che non ci sono alternative. E allora dobbiamo lavorare contemporaneamente su due binari: sulla necessita' del conflitto sociale, per imporre in Italia e in Europa una svolta keynesiana, ma anche sul fatto che il conflitto sociale cresce e si sviluppa solo se cresce e si sviluppa un progetto alternativo al liberismo. La costruzione del progetto, senza il conflitto sociale si trovera' di fronte le risate un po' beffarde dei banchieri, di Confindustria, degli industriali, ma i conflitti che gia' ci sono, che crescono dal basso, senza la costruzione di esperienze comuni e il sostegno di un progetto rischiano di essere isolati, frantumati. Ci proponiamo di lavorare insieme su questa ipotesi: un progetto antiliberista che serva al conflitto sociale e una discussione sulle regole e sulle condizioni del conflitto sociale nelle societa' moderne e nelle condizioni attuali.

Quella a cui pensiamo e' una struttura di persone libere. Lo diciamo con chiarezza perche' su questo si e' discusso: non stiamo lavorando per una quarta, o una quinta componente per Cgil, ne' per il dibattito interno a Rifondazione, o al Pds. Non vogliamo nemmeno porci in alternativa ad altre esperienze, pensiamo pero' che ci sia tanta energia sprecata che in questo momento sarebbe bene mettere a frutto. Discuteremo assieme anche di come continuare il lavoro, di come trovare il modo di stare assieme. Ma di stare assieme c'e' bisogno, di costruire momenti di dibattito, di confronto comune c'e' bisogno, di incontrarci ancora c'e' bisogno. Questa e' la proposta che noi facciamo: provare a costruire un movimento culturale, sociale, di idee e anche di iniziativa, che esplicitamente metta in campo tutte le risorse che abbiamo contro il liberismo, che sicuramente e' giunto ad un punto di crisi ma che proprio per questo si fa ancora piu' pericoloso.

Heinz Birnbaum

Il Forum, nato dopo un incontro di dirigenti sindacali di diversi paesi all'inizio di quest'anno e presentato pubblicamente nel mese di giugno a Francoforte, ha successivamente visto l'adesione di dirigenti sindacali, intellettuali e ricercatori. Punto di partenza dell'iniziativa e' la constatazione che l'influenza sindacale sul processo di integrazione europea e' assai scarsa, sebbene sia ormai chiaro che proprio le politiche e le attivita' sindacali vengono determinate sempre piu' dall'integrazione europea, perche' le condizioni di lavoro e di vita, l'orario di lavoro, sono ormai questioni che esulano dai contesti nazionali. Il movimento sindacale europeo, purtroppo, e' poco sviluppato, i suoi organismi sono deboli e non hanno legami con i problemi reali del mondo del lavoro e, pur essendo importanti punti di partenza non sono sufficienti in assenza di una strategia politica. Il sindacato europeo e' in primo luogo una istituzione e non un movimento vero e proprio, rimane, come ha scritto Alessandra Mecozzi nel suo articolo sul Manifesto, qualcosa ancora da costruire. Con questa iniziativa vogliamo stimolare il sindacato ad uscire dalla subalternita' politica e sociale e diventare un movimento ampio e forte che incida sulle questioni fondamentali del lavoro e della vita. Un movimento sindacale forte a livello europeo non solo e' necessario per le attivita' sindacali stesse, ma anche per costruire una politica alternativa a quella neoliberista fino ad oggi prevalente in Europa. Una politica alternativa ha bisogno di un movimento sindacale forte, cosi' come il movimento sindacale ha bisogno di una politica alternativa. Le attuali condizioni non sono particolarmente favorevoli alla creazione di questa politica alternativa, ma neppure negative come le si dipinge: il modello liberista ha mostrato chiaramente i suoi limiti e la sua miseria (da questo punto di vista la situazione russa e' emblematica). Le contraddizioni della politica liberista sono immense, esprimono disoccupazione di massa, esclusione sociale, erosione dei sistemi di sicurezza sociale e problemi economici. La disoccupazione di massa, in particolare, e' a dimostrare che il modello liberista non sa governare i nodi fondamentali che abbiamo di fronte. Da questo fallimento, soprattutto in campo occupazionale, e' cresciuta la coscienza della necessita' di una politica occupazionale attiva che non affidi tutto all'impresa. La questione dell'occupazione, e le fratture sociali che ne derivano, spingono nella direzione di una politica alternativa orientata ai bisogni sociali e di una cultura politica dell'Europa che abbia come obiettivi fondamentali occupazione, sicurezza sociale e protezione dell'ambiente. Non credo che l'unica alternativa possibile sia tra un liberismo esasperato e un liberismo moderato: e' necessaria un'altra politica, un altro modello dello sviluppo economico e sociale, ed oggi abbiamo alcuni segnali che vanno in quella direzione Mi riferisco, ad esempio, alla politica del governo francese: l'esperimento francese non va sopravalutato, ma neppure trascurato. Se i francesi, che pure con questi processi in atto, sono riusciti ad inserire nella propria piattaforma di governo alcuni elementi innovativi come la riduzione dell'orario di lavoro, resteranno soli, non ce la faranno, per questo e' necessario un movimento europeo. Il sindacato non svolga un ruolo importante che gli sarebbe proprio, ma al contrario, in Europa fa una pessima politica: la contrattazione sindacale e' sempre meno in grado di redistribuire la ricchezza prodotta e sempre piu' assoggettata all'obiettivo della riduzione dei costi. Proprio per affrontare i grandi problemi sociali che abbiamo di fronte abbiamo bisogno di un sindacato forte, autonomo, di dimensioni non piu' nazionali ma europee. Non credo pero' che una politica dei patti sia sufficiente, al contrario, occorre costruire una strategia politica vera e propria, ma per fare questo e' indispensabile una discussione ampia, seria, che entri nel merito. Il Forum dell'Europa sociale intende essere uno dei luoghi di questa discussione. Vorrei sottolineare alcuni nodi centrali. Il primo: si devono trovare risposte alla disoccupazione di massa. La politica occupazionale e' certamente una delle questioni cruciali di una politica sindacale di sinistra: proprio per il fallimento della politica liberista su questo terreno, la sinistra deve sviluppare una alternativa convincente, i cui elementi centrali sono, in sintesi, una politica economica orientata allo sviluppo sociale e la redistribuzione del volume del lavoro attraverso una riduzione generale dell'orario. Se ci sara', come ci auguriamo, un patto tra la Francia e la Germania, sarebbe davvero disastroso che il movimento sindacale fosse assente. E' necessario un impegno piu' ampio del sindacato per quanto riguarda la politica occupazionale e la riduzione dell'orario di lavoro potrebbe essere un punto cruciale per fare avanzare l'occupazione. Il secondo nodo di fondo riguarda le condizioni di lavoro e di vita. Su questo il sindacato ha purtroppo perso molto terreno, e' necessario che riconquisti la capacita' di decidere nell'organizzazione aziendale del lavoro e di programmare meglio i processi produttivi. In questo contesto la questione della flessibilita' e' di particolare importanza: non e' ad esempio immaginabile una ulteriore riduzione dell'orario di lavoro senza che il sindacato riconquisti il governo degli orari. Poi ci sono altri temi importanti: la qualificazione, la formazione, i problemi del lavoro precario. Terzo punto, molte volte trascurato, riguarda la questione della redistribuzione. Negli ultimi anni la politica sindacale e' stata molto determinata dalla logica della riduzione dei costi, in particolare dei costi del lavoro, credo sia necessario invertire questa tendenza e mi auguro che il sindacato europeo sia in grado di ritornare a fare una politica offensiva. Di grande importanza sono la politica sociale e lo stesso stato sociale: e' una materia complessa ma decisiva per il futuro del sindacato e anche per il futuro della sinistra. Per quanto riguarda lo stato sociale dobbiamo trovare risposte corrispondenti alle esigenze, senza affidare lo stato sociale e la politica sociale al privato o alla cultura dell'impresa e del mercato. L'asse di una rifondazione del welfare non puo' che essere un nuovo modello economico e sociale Per concludere, e' necessario aprire un dibattito vero sul tema dell'Europa sociale che deve riguardare il sindacato stesso, la sua organizzazione e la sua democrazia interna. Il prossimo appuntamento di questo nostro percorso sara' il 3 ottobre a Francoforte. Anche la' vorremmo affrontare i temi della politica sindacale e piu' in generale di una politica alternativa, confrontarci con le esperienze degli altri paesi, trovare un modo per discutere in modo ampio e non settario e proseguire in un dibattito che esca dalla superficialita' e entri nel merito, individuando alcuni punti comuni.

Ugo Spagnoli

Il mio intervento avra' un approccio un po' diverso rispetto a quelli che mi hanno preceduto, anche perche' sono stato invitato ad esprimere, dal punto di vista delle mie conoscenze, una opinione sui temi oggetto della discussione di oggi. Sono convinto che se la battaglia contro le condizioni liberiste verra' condotta solo sui terreno economicistico, i guasti prodotti dal liberismo non si limiteranno alla perdita di diritti ma si estenderanno a vari aspetti della vita sociale. E' stato detto in uno degli interventi precedenti: il liberismo e' riuscito a creare un "senso comune", ha creato un'ideologia, ha saldato le scelte di carattere economico con forza diabolica. Se non usciamo dal dato puramente economicistico ed allarghiamo i nostri orizzonti, rischiamo di essere schiacciati dalla "razionalita' economica" che contraddistingue il liberismo. Per dare un senso al mio intervento mi ricollego a una vicenda di circa un anno fa, quando un gruppo di sindacalisti chiese al sindacato di occuparsi delle questioni della bicamerale. Fu una presa di posizione coraggiosa, perche' fino ad allora il sindacato non aveva partecipato attivamente alla discussione, semplicemente, i tre rappresentanti dei sindacati avevano espresso una propria opinione sulla questione. E' merito di questi sindacalisti l'aver smascherato per primi l'inganno dell'articolo 56, e la condizione di superiorita' del privato rispetto al pubblico. Segui una polemica, anche all'interno del sindacato: non tutti furono d'accordo, anche perche' non ci si limitava a criticare l'art. 56 ma si affrontavano altre questioni. Questo venne interpretato come un attacco alla bicamerale, ma nel sindacato tutti comunque furono concordi nel sostenere che - in sostanza - non solo bisognava occuparsi di questi problemi, ma bisognava farlo tenendo ferma la posizione di difesa dei diritti contenuta nella prima parte della Costituzione. Speravo che queste 'sante parole' avessero un seguito. Devo dire invece che per quanto riguarda i diritti contenuti nella prima parte della Costituzione stiamo perdendo: quei diritti non sono piu' effettivi, non hanno piu' forza, non sono altro che solenni dichiarazioni prive di contenuto. Come ci riprenderemo i diritti contenuti nell'art. 36 della Costituzione? "Ogni retribuzione deve essere proporzionata alla qualita' e alla quantita' del lavoro prestato e tale da garantire un'esistenza libera e dignitosa alla famiglia": abbiamo difeso abbastanza questo articolo? E' lo stesso vale per il principio di uguaglianza, fondamento della nostra Costituzione: le disuguaglianze, infatti, sono complessivamente aumentate e se questo principio viene accantonato, cosa restera' di questa nostra Costituzione? Ma voglio dire di piu', riportandomi all'oggi, su un terreno pratico, quello dei licenziamenti. Il licenziamento in tronco e' dichiarato incostituzionale, nella Costituzione si afferma che non c'e' il diritto alla conservazione del posto di lavoro, ma altresi' che non c'e' il diritto da parte del padrone al licenziamento in tronco. Quando questa discussione e' iniziata - perche' questo e' il vecchio sogno dei padroni - la parte padronale e' stata sconfitta, infatti, il "licenziamento per giusta causa" , dopo anni di battaglie e' stata una grande vittoria del sindacato. Gia' allora, pero', un giurista scriveva: "giusta causa", parola mitica, ma state attenti, non hanno abbandonato la battaglia contro la giusta causa". E' infatti l'hanno riproposta perche' questo e' il sunto di uno scontro politico durato di quindici anni. I problemi si risolvono anche a livello costituzionale. Si e' fatta "strage di diritti" quali la sicurezza sul lavoro, i diritti relativi ai minori e tanti altri, fino a non farli divenire piu' tali. In sostanza i diritti sociali non sono diritti, sono bisogni cui lo Stato provvede solo se ha i fondi per farlo; i diritti sociali sono stati declassati a situazioni di mera opportunita'' senza una tutela per garantire quelli che sono considerati diritti inviolabili. Mi rendo conto che il diritto non puo' sovrastare in maniera assoluta l'economia, ma non e' possibile che il vincolo economico debba sempre e comunque schiacciare e mettere in un angolo i diritti sanciti dalla Costituzione. Se questa scompare dinanzi alle esigenze economiche, si colpisce la nostra democrazia sociale, allora la democrazia non e' piu' tale, e' altro. Questo deve diventare un elemento di polemica, di battaglia che porti non solo a svolte economiche ma anche a politiche sociali e di carattere istituzionale, che non accettino la logica imposta nel segno della governabilita'. Altrimenti rischiamo di non avere piu' la forza di riprendere una battaglia di questo genere. Quindi non so fino a che punto dovremmo continuare con la storia della flessibilita'; passata questa manovra finanziaria, mi chiedo se dobbiamo sempre accettare di fare un passo, poi un altro ancora verso situazioni che vanno ritoccate, o se ci sara' un limite oltre il quale la questione dei diritti, almeno di quelli di carattere istituzionale verra' affrontata. O davvero pensate che il "senso comune" che il liberismo ha conquistato Io accompagnera' anche quando altri diritti saranno toccati, altre spese sociali tagliate? E' pensate davvero che quando il liberismo tocca questioni sociali, etiche o morali, compia un'azione puramente economica e non anche ideologica? Per questo io ritengo che dobbiamo allargare il nostro orizzonte, e discutere con quanti, a livello europeo ritengano che l'affermazione della supremazia del liberismo debba avere dei limiti.