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In questo numero

 

Il ponte della Lombardia  - ottobre 2000 n. 58 

 

Appello alle associazioni e alla sinistra milanese per un'alternativa nella citta' in vista delle elezioni comunali 2001

 

Milano e la sinistra tra realta' e fantasie

Paolo Pinardi

 

La forza e il coraggio di un progetto realmente alternativo

Basilio Rizzo

 

Immigrazione occasione per un programma concreto

Piero Basso

 

Miracolo a Milano

Luigi Lusenti

 

La sinistra e il lavoro

a cura di Lella Bellina

 

Il sindacato americano

Bruno Cartosio

 

Brescia: immigrazione risorsa non clandestinita'

Salvatore Cinque

 

Work&Time: Lavoro@tempo

Fiorano Rancati

 

Dal Psi alla Lega

Emanuele Tortoreto

 

Piazza Fontana: otto processi per trovare i colpevoli 

Saverio Ferrari

 

Il capitano Ultimo

Jole Garuti

 

Diario di immigrazione

Antonio Corbeletti

 

Il caso Necchi di Pavia

A.C.

 

Il laboratorio sudafricano

Carlo Gnetti

 

Mozambico dolcenero

 

Garantire i diritti degli italiani in Istria

Giacomo Scotti

   

Pane e garofani

Marcello Moriondo

 

******************

 

Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

G. Falabrino, L. Miani

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

Fax 02/28.22.423

ilponte@galactica.it

 

Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

In vista delle prossime elezioni comunali

Milano e la sinistra tra realta' e fantasie

 

Di seguito troverete il testo completo dell’appello formulato a Giugno e rivolto all’intero mondo dell’associazionismo politico-sociale della citta' oltre che ai partiti della sinistra milanese.

L’intento era - ed e' - quello di iniziare subito un lavoro in queste aree per arrivare preparati alla scadenza elettorale del Comune di Milano sulla base di una premessa tutta politica:  il no alla candidatura di Moratti che in quelle settimane dominava le pagine dei quotidiani milanesi.

Non sappiamo, mentre chiudiamo questo numero de il ponte, se Moratti confermera' la candidatura: sappiamo che le considerazioni contenute nell’appello valgono in ogni caso, in quanto ragionamenti politici sul centro-sinistra e non riserve sulla singola persona.

Sappiamo anche che nell’interesse di una citta' stremata da un decennio (in cui hanno prevalso largamente i valori oltre che le giunte della destra liberista) e di una sinistra conciata ancor peggio, l’appuntamento elettorale del 2001, a differenza del passato, non si puo' delegare ai soli partiti; questo non tanto per le solite e scontate critiche nei loro confronti, quanto per il semplice fatto che la situazione  e' talmente disperata da richiedere la messa in campo di tutti quelli disponibili, di tutto quanto si e' mosso, ha resistito, e' vivo a Milano: da quelli che l’opposizione l’hanno fatta sul serio a Palazzo Marino e nei quartieri, ai comitati contro le gronde, il traffico e l’invivibilita' di questa citta'; dalla Milano del lavoro, dei lavori e dei sindacati che hanno creduto nel conflitto sociale e hanno provato non solo a difendere i diritti acquisiti; dai movimenti antiliberisti e contro la guerra, ai centri sociali, a quelli che la battaglia per una citta' multietnica la fanno quotidianamente.

Ecco perche' non possiamo che guardare con interesse all’iniziativa del 2 ottobre promossa da altri compagni che con analogo spirito si rivolgono al popolo della sinistra per superare ritardi e attendismi vari e che pensiamo anch’essi molto critici verso il significato della candidatura Moratti.

Sappiamo infine, anche per diretta esperienza di molti di noi che fanno questa rivista - che ha nel suo Dna l’unita' della sinistra - che tentare sempre di demandare alla scadenza elettorale e ad un candidato unico il recupero delle ragioni dell’unita' quasi mai praticate nei quattro anni precedenti,  non sempre e' credibile e utile, anche perche' non ci si riesce quasi mai. L’esperienza delle precedenti comunali del 97, dove per otto lunghi mesi si cerco' l’intesa unitaria, col risultato e le conseguenze che sappiamo, e' rivelatrice di un film che si puo' ripetere anche oggi. Del resto, i Ds, oggi ancor piu' del 97,  piu' subalterni e virtuali nel rincorrere le scelte moderate si debbono affidare ai sondaggi e all’immagine dei vari Rutelli o Moratti; e' significativo l’assenza totale della sinistra Ds, prigioniera della sua scelta di non fare politica e di rinchiudersi dentro un partito che ha liquidato con un giorno di discussione della propria Direzione il fallimento strategico di un decennio (forse non bastano le continue richieste di convocazione degli organismi dirigenti).

Far fronte alla personalizzazione e americanizzazione della politica, recuperare voti e impegni dall’area della delusione e del  non voto, mantenere aperta la prospettiva unitaria,  significa prendersi delle responsabilita', mettersi in gioco, non aspettare il diluvio del dopo-vittoria di Berlusconi, dare qualche segnale anche all’immobilismo della sinistra a livello nazionale. Rifondazione da sola non ce la puo' fare e non puo' pensare di ripetere l’esperienza del candidato di bandiera.

Venezia non e' Milano; ma dalla laguna qualche onda arriva.

 

La forza e il coraggio di un progetto realmente alternativo

Ba

Quali sono le funzioni ovvero l'utilita' "sociale" di  una istituzione come il Comune? Ragionevolmente ci si puo' ricondurre a due grandi aree:

 •  la gestione /controllo/regolamentazione del territorio contemperando i diversi interessi che vi contendono;

  l 'erogazione di servizi ai cittadini.

 La rappresentanza - tramite i consiglieri eletti - all'interno dell'istituzione delle diverse istanze dovrebbe assicurare che dal confronto emerga, come risultante, l'interesse collettivo.

Per decenni questo schema ha funzionato (ovviamente scontando i limiti -notevoli come si sa- con  cui la rappresentanza istituzionale e specchio fedele della societa'") facendo prevalere nel governo della citta' questi o quegli interessi risultati maggioritari alle elezioni.

La stessa prassi corruttiva - l'intreccio politica/affari - rientra comunque in questo quadro interpretativo: la politica si "fa pagare" (leggi: scelte urbanistiche, grandi infrastrutture, ecc.), ovvero "fa la cresta" sulle spese per l'erogazione dei servizi che pero' continua a fornire (da cui la nota cinica frase "i socialisti rubavano, ma facevano...”).

Con la giunta Albertini avviene un mutamento "genetico".

 Il Comune progressivamente viene portato a ritrarsi dalla sua funzione di "regolamentazione" del territorio teorizzando il trasferimento ditale funzione “al mercato" che ovviamente fa emergere la supremazia degli interessi forti che non a caso sono quelli di riferimento della giunta Albertini (da cui il rifiuto di ogni politica di piano, la neutralizzazione di ogni regola in campo urbanistico etc.).

• Sul piano dei servizi viene teorizzata e praticata la progressiva rinuncia ad ogni presenza pubblica nell'erogazione dei servizi, compito che va assegnato appena si puo' ai privati (versione neo-liberista del principio di sussidiarieta').

Come corollario vi e' lo smantellamento delle aziende e dei settori dell'Amministrazione a cio' preposti con la cessione/svendita della ricchezza in esse incorporata e delle aree di business connesse, all'imprenditoria privata meglio se "amica" (vedi vendita AEM, Centrale del latte, Farmacie, assistenza, etc...).

Grande enfasi viene attribuita alla tematica sicurezza nell'accezione "garanzia patrimoniale" (ogni cosa e' riferita alla perdita di valore degli immobili!) con beneficiari privilegiati nei fatti, anche se tutti gli strati sociali ne subiscono l'impatto sul piano ideologico, i ceti ricchi.

Sulla base di questa analisi, va da se' che non si tratta di con correre con migliori proposte programmatiche accettando pero' di restare nei nuovi confini/compiti assegnati all'istituzione comune, ma di rifiutare questa sorta di controriforma ancorche' non scritta, del centro-destra e richiedere il ritorno del Comune all'esercizio del suo ruolo sociale a difesa dei ceti piu' deboli e dell'equilibrato contemperare, con regole certe, i diversi interessi nel governo del territorio. Noi rappresentiamo realmente una alternativa radicale in quanto non esitiamo a propone per il Comune:

• Una presenza attiva e "forte" di indirizzo nelle scelte urbanistiche;

  l'esercizio diretto dell'erogazione dei servizi;

  un patrimonio significativo di enti, aziende, demanio, controllate dai pubblico che siano risorse o le generino per dare risposte a bisogni reali dei cittadini.

La difesa della presenza del pubblico, pur nel quadro di una compresenza del privato laddove processi di liberalizzazione abbiano determinato una reale concorrenza (che non puo' essere pero' desistenza forzosamente imposta al pubblico!) e' obiettivo prioritario e risponde anche a migliori garanzie sul piano della qualita' del servizio offerto (assistenza, mense) o del valore strategico dei settori d'intervento (energia, risorse idriche, telecomunicazioni, etc..) nei quali spesso si opera in regime di concessione che con troppa disinvoltura vengono "girate" ai privati!

Non si puo' accettare l'implicito assunto di fondo secondo il quale una gestione del pubblico e' di per se' piu' costosa, fonte di sprechi di una gestione privata la cui economicita', peraltro , al suo apparire quasi sempre e' riconducibile al ricorso a manodopera utilizzata senza garanzie, senza diritti, senza controlli, economicita' che svanisce non appena, sparito il "pubblico", si consolida come unica scelta possibile quella dell'appalto ai privati.

Va chiarito che non si intende qui, o per ragioni ideologiche, demonizzare l'utilizzo di risorse finanziarie non pubbliche di presenze di imprenditoria privata, di canalizzazione di risparmio: anzi! Si tratta pero' di affermare la necessita' di una guida e di un controllo maggioritario del pubblico per tutelare la priorita' da assegnarsi all'interesse collettivo.

 

Spunti di programma per Milano

 

LA QUALITA’ DEL VIVERE URBANO

 

Il traffico - priorita' al trasporto pubblico

- aree a traffico limitato e/o isole pedonali integrali non solo in centro, ma anche in zone semicentrali e periferiche

- parcheggi di corrispondenza solo alle porte della citta'

- taxi urbani a percorso fisso ed a chiamate

- niente sviluppo urbanistico in assenza di infrastrutture trasporto pubblico su ferro.

Urbanistica - priorita' alla residenza

- recupero a residenza del terziario inutilizzato

- no ai quartieri monocenso

- Sviluppo ed incentivi alla residenza in affitto / incremento del patrimonio pubblico

- Uso anche della leva fiscale per riportare nella disponibilita' gli alloggi sfitti

- Uso delle aree industriali dismesse per “oasi vitali” (verde e strutture ed attrezzature sociali)

Ambiente - finalmente la depurazione delle acque

- controllo dell’inquinamento atmosferico (divieti del traffico privato e gratuita'  del trasporto pubblico in caso di necessita')

- progressiva trasformazione ad elettrico del parco mezzi enti pubblici

- pulizia della citta'  / riesame della politica di smaltimento dei rifiuti

- vigilanza sull’elettrosmog

Uso soddisfatto e sereno della citta'  (quella che viene chiamata sicurezza)

- l’immigrazione c’e': deve essere ricondotta a risorsa con interventi strutturali (centri di aggregazione, spazi per le comunita') e vigilanza su chi la sfrutta (affollamento di posti letto a caro prezzo, la manovalanza della delinquenza, il lavoro nero, etc.)

- non generica e pietistica solidarieta', ma riconoscimento dei diritti di cittadinanza e di vita (casa, lavoro, scuola etc.)

- non negare i problemi indotti, ma la responsabilita' e' di anni di non governo della citta': prima la giunta leghista, poi quella del polo hanno demonizzato gli immigrati, ma non hanno affrontato i problemi e li hanno anzi sempre piu' aggravati. Il disagio e' colpa loro ed invece colpisce i ceti popolari

- antiproibizionismo contro la piccola delinquenza

- la citta' a misura di bambini (il ricorso agli oratori e' la confessione di una assenza colpevole)

- le barriere architettoniche

- l’abbandono degli anziani

Servizi sociali            - non solo strutture “ghettizzanti” per anziani

- il problema dell’anziano non autosufficiente

- gli asili nido

- la presenza del pubblico, il privato sociale (purche' aiuti a risolvere i problemi, non lavoro sottopagato e senza garanzie ovvero l’assistenza come business)

- alcuni settori che riguardano diritti fondamentali non possono essere regolati con le leggi del mercato; bisogna avere il coraggio di dirlo: non e' “vecchiume” di cui vergognarsi ! (es: sanita', assistenza etc.).

 

CONTRO L’ALIENAZIONE

DELLE RICCHEZZE DEI MILANESI

 

(Dopo lo sceriffo di Nottingham c’e' bisogno di Robin Hood)

- le cosiddette privatizzazioni sono un trasferimento di risorse dal pubblico a poteri forti privati. (AEM, Centrale del Latte, Farmacie, SEA etc.)

- se Albertini ha creato l’assessorato alle privatizzazioni, noi dovremmo forse proporre provocatoriamente un “assessorato al tesoro ed alle partecipazioni comunali” che difenda e sviluppi la presenza pubblica in settori strategici per la vita dei cittadini

- SpA o aziende a controllo pubblico non sono incompatibili con una politica di liberalizzazione e di mercato. Se liberate dalla “malagestione” possono creare ricchezza per usi sociali. (Gli utili AEM, Farmacie, le potenzialita' (svendute) delle TLC etc).

 

I VALORI ED I DIRITTI DEI CITTADINI

E DEI CONSUMATORI

- Cultura e tempo libero (per tutti e non privilegi di pochi) / i centri giovanili e sociali

- Sport: spazi per l’attivita' di base

- Il commercio e la grande distribuzione

- Vigilanza sui prodotti offerti in citta'

- Le mense restino sotto il controllo pubblico / no ai cibi transgenici / prodotti biologici nelle scuole e nelle strutture assistenziali

- Servizio idrico a controllo pubblico

 

IL LAVORO E IL VOLONTARIATO

 

- riportare occasioni di lavoro in citta', la formazione professionale, la    new-economy, la tutela dei nuovi lavori (un autentico patto per il lavoro!)

- ripristinare le quote di legge di legge per l’occupazione delle categorie protette

- il volontariato / il quarto settore fenomeno sia economico, sia sociale ed ideale

- Campagna contro le morti bianche, per la sicurezza. “Il lavoro deve dare vita, non morte”.

 

Immigrazione

occasione per un programma concreto

L'immigrazione rischia di diventare uno dei principali temi della campagna elettorale della destra, che cerca furbescamente di assimilare il fenomeno della crescente presenza di manodopera straniera nel nostro paese a quello della microcriminalita' e della sicurezza dei cittadini. Poco importa che questa confusione tra due temi cosi' diversi sia fatta in buona o cattiva fede, per catturare i voti di chi e' preoccupato o spaventato dal crescente numero di stranieri nella nostra citta'; in ogni caso non serve a risolvere i problemi reali posti dalla presenza di questi uomini e donne.

L'elevata percentuale di stranieri in carcere non e' affatto la prova di una maggiore propensione a delinquere, ma e' la prova che, oggi come ieri, in Italia come negli altri paesi, in galera finiscono solo i piu' poveri, spacciatori o topi d'auto colti in flagrante e processati per direttissima, mentre i delinquenti ricchi (i cui reati non si chiamano spaccio, furto o scippo, ma corruzione, frode fiscale, inquinamento) riescono sempre ad evitare il carcere, e spesso anche la condanna, grazie a stuoli di avvocati che tirano i processi per le lunghe sino a che sopravviene la prescrizione, la vera amnistia di oggi. Anche tra i piccoli criminali, inoltre, la carcerazione e' molto piu' probabile per lo straniero, che non puo' usufruire di pene alternative, come gli arresti domiciliari (semplicemente perche'‚ non ha una casa) o che si vede negare la sospensione condizionale della pena. Questo non significa, naturalmente, che non sia attiva in Italia una pericolosa criminalita' legata alle mafie straniere, che spesso sfrutta in modo feroce i propri concittadini, ma contro questi criminali l'azione della polizia e della magistratura incontra grandi difficolta'.

Anche la presenza di stranieri in condizione irregolare (cioe' non in regola con le leggi italiane sul lavoro) va chiarita: lungi dall'aver compiuto una scelta di clandestinita', come sostengono la destra e mezzi di informazione sempre piu' disinformati, questi fanno di tutto per regolarizzarsi, come dimostrano le lunghissime code davanti alle Questure e agli uffici del lavoro, non soltanto in occasione di una sanatoria. Sanno benissimo che solo la regolarita', col conseguente pagamento di tasse e contributi previdenziali, puo' permettere loro l'accesso ad un lavoro regolare, all'affitto di un appartamento, all'assistenza sanitaria. Il mantenimento di un'area di irregolarita' torna piuttosto a vantaggio di chi trova conveniente farli lavorare in nero, affittare un appartamento senza contratto, e quant'altro, sapendo che questi lavoratori non potranno reagire.

Gli stranieri in Italia, sia in possesso di un permesso di soggiorno, sia in condizione irregolare, sono circa un milione e mezzo, un numero molto grande rispetto solo a vent'anni fa, quando l'Italia era ancora un paese che esportava manodopera anziche' importarne, ma un numero molto piccolo rispetto alla presenza di stranieri in tutti gli altri paesi europei, Francia, Germania, Gran Bretagna, dove sono due o tre volte piu' numerosi (e ancora piu' numerosi, in proporzione alla popolazione, sono in alcuni piccoli paesi come il Belgio o la Svizzera). La stragrande maggioranza di questi sono occupati, sia in piccole attivita' di servizi (ristoranti, imprese di pulizia e di facchinaggio), sia presso famiglie (domestiche, assistenza anziani), sia, in numero crescente, come operai nell'edilizia e nelle fabbriche. Quelli che vediamo questuare ai semafori, o impegnati in piccolissimi commerci agli angoli delle strade o nei mercati rionali, sono certamente piu' visibili, ma sono solo una piccola minoranza, spesso in attesa di un lavoro vero.

La presenza di lavoratori stranieri in Italia, e in particolare nelle zone piu' ricche del paese, non e' solo un fenomeno ormai consolidato, come dimostra anche il numero elevato di ricongiungimenti familiari, segno che il sogno di rientrare al piu' presto al paese d'origine viene via via sostituito dal progetto di una lunga permanenza nel paese ospite, ma e' un fenomeno in crescita, che nessuna legge, nessun controllo alle frontiere, nessuna repressione, potranno fermare, sino a quando ci sara', qui da noi, bisogno del loro lavoro. Che i flussi migratori siano determinati assai piu' dalla domanda di manodopera a buon mercato che non dalla disponibilita' di tale manodopera e' dimostrato da tempo, e bene lo sintetizzava recentemente il grande scrittore peruviano Mario Vargas Llosa: i migranti saranno anche brutti, sporchi e cattivi, ma non sono stupidi: se affrontano i costi, i disagi, i sacrifici di una vita di emigrazione, e' perche' sanno che, al termine del loro viaggio, c'e' il lavoro, in nero o regolare. Se non ci fosse richiesta per il loro lavoro, non verrebbero.

e' ormai chiaro a tutti che non c'e' concorrenza sul mercato del lavoro tra italiani e stranieri, se non in pochissimi casi marginali, in quanto ben pochi italiani, oggi, accetterebbero, per lo stesso salario, di fare molti lavori che gli immigrati svolgono. Nessuno piu' nega che i lavoratori immigrati rappresentano una indispensabile risorsa per il paese, e sono numerose le associazioni industriali che sollecitano una politica piu' aperta all'arrivo di immigrati nel nostro paese. Ma, come disse una volta lo scrittore svizzero Max Frisch, parlando degli italiani emigrati in Svizzera, "Aspettavamo braccia: sono arrivati uomini". Braccia a vantaggio delle imprese piccole e grandi che li assumono, delle famiglie del ceto medio che trovano chi assiste bambini e anziani, dei piccoli speculatori che prosperano sul lavoro nero e sugli affitti neri; ma anche "uomini", cioe' esseri umani con i loro bisogni, che si rivolgono legittimamente a servizi pubblici gia' carenti (case popolari, scuola, assistenza sanitaria, trasporto), entrando talvolta in concorrenza con i ceti popolari fruitori degli stessi servizi. Si innesca cosi' una pericolosa "guerra tra poveri", alimentata e favorita proprio da quei rappresentanti delle istituzioni che hanno le maggiori responsabilita' nel degrado di tanti servizi. Quale dimostrazione piu' chiara della contraddizione marxiana tra un modo di produzione che richiede la disponibilita' di manodopera a buon mercato, e rapporti di proprieta' che scaricano sulla collettivita' (la societa' di immigrazione e piu' ancora la societa' di origine) i  costi sociali della creazione e mantenimento di questa forza lavoro?

Tornando al tema della prossima campagna elettorale, questa deve essere un’occasione per recuperare il troppo tempo perduto fingendo di non vedere i problemi di convivenza, o predicando in astratto, o, peggio, inseguendo la destra sul terreno della demagogia e del razzismo. Un'occasione per avviare e portare avanti un discorso che parli alle coscienze dei cittadini e prepari un programma concreto e realizzabile che risponda alle legittime richieste dei vecchi e nuovi milanesi. In questo programma deve certo entrare anche la "sicurezza", intesa come la possibilita', per tutti, di uscire la sera, di non subire aggressioni, di trovare, in caso di necessita', aiuto e riparazione. Vuol dire anche, piu' modestamente, poter camminare su un marciapiede non invaso dalle auto, poter entrare in un bar anche se sei una donna sola, poter riposare senza il fracasso di motorini e televisori, non essere insolentito se i tuoi riflessi non sono piu' quelli della giovinezza, non essere insultato se hai la pelle diversa dalla nostra. Sono problemi che non si risolvono facilmente, e certamente non con la "tolleranza zero" rivolta esclusivamente ai piu' poveri (proviamo a pensare a un giorno di "tolleranza zero" verso le auto in sosta irregolare). Sono problemi che e' possibile cominciare a risolvere con una polizia a contatto coi cittadini (per chi ama i "modelli" d'oltre Atlantico, la collaborazione tra forze di polizia e cittadini e' al cuore del "modello Boston", che ha avuto risultati ben migliori del modello repressivo di New York), con una giustizia sollecita, con strade piu'  illuminate, piu' negozi aperti, piu' zone pedonali, mezzi di trasporto piu' frequenti anche nelle ore serali, con un'educazione che purtroppo sta sparendo dalle strade, una volta civili, di Milano, e che deve ricominciare dalla scuola.

Vuol dire anche un programma per Milano fatto soprattutto di "luoghi" che il Comune e le istituzioni possono e devono contribuire a creare e a far funzionare:

• veri centri di accoglienza (non strutture quasi carcerarie) che aiutino i primi passi verso un lavoro e una casa;

• alloggi ad affitto sostenibile per le decine di migliaia di famiglie, italiane e straniere, che non possono accedere alla casa in proprieta' o sostenere i canoni di mercato;

• spazi di incontro e di aggregazione, che siano, come suggerisce un recente studio dell'ARCI, luoghi di svago e di servizio, alternativi a case troppo piccole, al bar o alla strada.

Non concorrenza tra diversi per servizi scarsi, ma impegno comune per ottenere

piu' servizi per tutti.

Non sono cose nuove: le ritrovo, quasi tali e quali, in un vecchio discorso del nostro indimenticabile Carlo Cuomo. Di fronte al degrado di alcuni quartieri ascolto talvolta frasi del tipo "Con tutti i problemi che gia' abbiamo, ci mancavano anche gli stranieri", oppure "Abbiamo piu'  diritto noi, che siamo italiani"; non sara' facile, ma necessario, far prevalere un'altra logica: "Operiamo insieme per aumentare e migliorare i servizi per tutti, e per garantirli innanzitutto non sulla base del passaporto, ma a chi lavora onestamente e rispetta la legge".

Il contrario di quanto troppo spesso avviene.

Infine, abbiamo il coraggio di riprendere il tema del voto agli stranieri residenti, non solo perche' si tratta di una vecchissima rivendicazione democratica a cui non potremmo rinunciare senza perdere l'anima ("Niente tasse senza rappresentanza"), ma anche perche' contribuirebbe potentemente ad accrescere la responsabilita' ed il senso di appartenenza a una comunita'.

 

La sinistra e il lavoro

 

Milano, festa di Liberazione, 7 luglio, ci si interroga sulla trasformazione del mondo del lavoro, sull’attacco ai diritti ed anche sugli errori, sui limiti e sulle reticenze di una sinistra  che “non riesce a sfondare” e di un sindacato che vive una crisi di rapporto profonda con chi dovrebbe rappresentare.

Tra gli altri, rispondono alle domande di Augusto Rocchi, Rossana Rossanda e Maurizio Zipponi. 

(testi non rivisti dagli autori)

 

Il lavoro e' sempre stato l’architrave su cui la sinistra ha definito identita',  politiche, capacita' di essere protagonista di un progetto generale. Oggi non e' piu' cosi' anzi, c’e' chi addirittura ha teorizzato la fine della centralita' politica del lavoro salariato nonostante i dati evidenzino che, nel mondo, in forme e con nomi diversi,  il lavoro salariato e' aumentato.

E allora perche' il lavoro non e' piu' al centro dell’ identita' strategica, politica e progettuale della sinistra?

 

Rossana Rossanda

 

Vorrei porre ancora piu' drammaticamente la questione.

Il problema non e' solo della sinistra: nel senso comune della societa' italiana ed anche dei movimenti che si dicono antagonisti (penso al movimento delle donne, ad alcuni movimenti della sinistra diffusa) e che mantengono una idea forte di conflitto (di genere, di sesso, antistatale, o sull’ambiente) la questione della centralita' del lavoro (ossia del conflitto tra il capitale e le figure sociali che hanno interessi diversi) e' venuta meno.

Quando sono entrata in politica era senso comune che l’interesse del capitale di accrescere i profitti e gli interessi dei lavoratori fossero differenti e che, quindi, il conflitto fosse fisiologico (anzi, alcune persone che oggi stanno nella sinistra di governo sostenevano allora che il conflitto era persino utile).

Perche' si e' smarrito questo senso comune, perche' questa certezza e' venuta meno?

Per diverse ragioni che si riflettono poi anche nelle posizioni delle sinistre europee.

Ad eccezione della Francia, il cosiddetto socialismo europeo non considera piu' il conflitto capitale-lavoro come l’anello fondamentale da cui poi dipendono o derivano gli altri rapporti sociali.

Cosa e' accaduto?

Per prima cosa il capitale si e' liberato di ogni vincolo ai propri movimenti: se fino al 1992 in Europa per spostarsi esplicitamente fuori dal proprio paese doveva subire controlli, poi, mentre noi, giustamente anche,  eravamo impegnati a seguire le vicende di Tangentopoli, e' venuta meno la possibilita' dello Stato di verificare i movimenti del capitale, e di una sinistra all’interno dello Stato di correggere gli andamenti specifici del mercato.

Abbiamo assistito, quindi, a livello mondiale, ad una estensione del capitale ed all’aumento di un lavoro che senza essere salariato all’interno della fabbrica e' comunque dipendente dalla direzione economica dell’azienda.

Il lavoro e' cresciuto mondialmente e si e' articolato dal punto di vista tecnologico (occorre meno manodopera per fare lo stesso prodotto) e nelle forme della produzione.

Allora, per prima cosa possiamo dire: non e' vero che il lavoro non e' piu' centrale perche' ce n’e' meno (infatti ce n’e' di piu'); non e' vero che il lavoro e' diventato indipendente e autonomo, perche', se a causa dell’enorme concentrazione dei grandi capitali le voci dell’economia si sono unificate, le forme di riferimento sono diverse.

Cosa e' venuto meno?

e' venuta meno la speranza, la fiducia che ha accompagnato generazioni come la mia, nel fatto che nel mondo ci fosse un modo di organizzare i rapporti, il modo della gente di vivere e di produrre, altro da quello capitalista. Dalla caduta dell’Unione Sovietica, ma gia' prima, il fatto che il capitale sia l’unico sistema economico mondiale oggi realizzato e vivente, ha distrutto l’autonoma persuasione che la storia la fanno gli uomini e che si puo' organizzare un modo diverso di vivere e di produrre.

Ma forse si e' perso anche qualcosa di meno: l’idea che magari e' difficile sconfiggere il capitalismo, ma che lo si deve correggere, l’idea socialdemocratica e l’idea che lo Stato, attraverso le sue proprieta' e la contrattazione politica (non quella sindacale che fanno i lavoratori) deve correggere gli effetti darwinisti del mercato, perche' il capitale in se' usa la forza lavoro e la distrugge.

Insomma, e' venuto meno l’aspetto della soggettivita', la persuasione che ci si deve e ci si puo' opporre, ben altra cosa dall’idea, sposata da buona parte della sinistra che si chiama socialdemocratica ma secondo me non e' neanche piu' tale, che dall’interno del mondo del lavoro ci si possono guadagnare delle posizioni di relativa difesa.

e' venuto meno il protagonismo della figura sociale del lavoro, cosa di grande utilita' per un capitale che continua a sostenere (bisogna chiedersi perche' fino ad oggi vittoriosamente) che se cresce l’impresa stara' bene  anche il lavoratore e il lavoro aumentera'; che per crescere l’impresa deve essere competitiva; che per essere competitiva deve abbassare il costo del lavoro, perche' in Romania o nella ex Jugoslavia, per non dire in Tailandia,  il lavoro costa meno (si trova sempre qualcuno nel mondo che lavora a meno)  e che per mantenere il lavoro bisogna fare gli interessi dell’ impresa.

Sono sbalordita quando penso che oggi a Milano, in Lombardia e al Nord, luoghi dove e' nata la sinistra di classe, il senso diffuso dell’elettorato che vota Formigoni, Bossi o Berlusconi, e' che si deve tenere per le imprese, che tra lavoratore e il padrone c’e' un interesse comune. Cosi' il capitale riesce a dividere, tra impresa ed impresa, tra dipendenti e cosiddetti autonomi, tra lavoratori “indigeni” e immigrati.

Anni fa, quando Torino era la Fiat, Milano la grande industria, quando il Veneto era bianco e agricolo, l’Italia non era  industrializzata ma il senso comune che il lavoro fosse una cosa e il padrone un’altra non stava solo nelle famoso fabbriche fordiste.

Oggi, anche alcuni dei miei compagni di un tempo dicono “il fordismo non c’e' piu'”, ma quando mai c’e' stato il fordismo in  Calabria?

La verita' e' che quando si perdeva alla Fiat perdeva, si perdeva in Italia,  perche' ti sentivi unificato.

Ci sono state una serie di cadute della soggettivita'.

Quindi io credo che si debba per prima cosa analizzare, piu' seriamente di quanto la sinistra abbia sinora fatto, i motivi della caduta dei sistemi socialisti, che pure rappresentavano un’alternativa (non ne parliamo mai, ci sara' qualche ragione se quel sistema non ha funzionato, ma, ci piaccia oppure no,  la sua esistenza dava l’idea che una alternativa fosse possibile); comprendere perche' le trasformazioni del capitalismo conducono  a forme di dipendenza non salariata, a forme esasperate di flessibilita', e perche' siamo di fronte ad una aggressione ai diritti dei lavoratori piu' violenta di quella che ho conosciuto nel 1948.

Oggi la richiesta che viene avanzata e' che il lavoro non abbia piu' diritti, che sia un pezzo dell’impresa e della produzione (quando serve si tiene, quando non serve per essere piu' competitivi, si cancella). Cosi' non esiste piu'  conflitto di classe, il capitale e' un sistema unico, gli interessi sono gli stessi.

Nonostante si dica che il lavoro conta sempre meno nella produzione, la battaglia politica della destra, della Banca d’Italia e di gran parte della sinistra di governo,  e' per la riduzione dei diritti che il lavoro ha ancora. Se contasse cosi' poco non ci sarebbe bisogno di tentare di incidere sempre li'.

Ora, mentre ci si appresta a votare la finanziaria, si preparano le elezioni politiche nazionali che la destra vuole vincere, mentre la Cgil dovrebbe svolgere il suo congresso, la carta che si gioca, e' quella si' del lavoro, ma soprattutto dei diritti del lavoro e della sua autonomia e protagonismo.

Su questo la sinistra di governo, che considera finita la conflittualita', che pensa che di fatto ci sia  un interesse comune e che il  suo compito principale (viene detto esplicitamente, tranne che da una parte dei Ds) sia  aiutare l’impresa italiana ad esse competitiva ha pesanti responsabilita'.

Questo  non solo colpisce i lavoratori ma secondo me porta la sinistra alla sconfitta.

Le donne mi hanno insegnato molte cose.  Credo che ci sia un conflitto tra i generi, tra i sessi che e' altro dal conflitto tra lavoro e capitale. Noi comunisti abbiamo a volte pensato che la risoluzione del rapporto di lavoro risolvesse tutto, non e' vero, c’e' quel conflitto e altri conflitti che rimangono.

Ma credo che a ai compagni della sinistra diffusa, ai verdi, tra i quali ho molti amici, adesso che siamo ad una svolta dobbiamo chiedere: come si fa a sostenere che  i rapporti di produzione, non sono centrali nella vita? Possiamo togliere l’aggettivo (centrali), ma non passare oltre, perche' sono i rapporti di lavoro ed i diritti anche fuori dalla fabbrica a decidere della vita, della sussistenza degli uomini e delle donne.

 

Maurizio Zipponi

 

Rossanda ha anticipato il nodo della nostra discussione: siamo, oppure no, di fronte alla scomparsa del lavoro dipendente, e le forme di lavoro che lo sostituiscono danno, oppure no, piu' liberta' alle persone?

Aggiungo una considerazione alle sue osservazioni che condivido pienamente.

Facciamo finta sia vero:  il lavoro dipendente e' scomparso, rimpiazzato da un modo nuovo di lavorare; siamo tutti “indipendenti” nei mezzi che usiamo, nei rapporti con i clienti, con quello che facciamo, siamo padroni del nostro tempo.

Cosi' fosse il sindacato, le organizzazioni di massa dei lavoratori, sparirebbero, ma scomparirebbe anche Confindustria.  Non e' cosi'.

Oggi, il piu' grande partito politico italiano si chiama Confindustria: e' presente nel governo e nell’opposizione e decide ogni indirizzo del paese sulla base delle esigenze e delle trasformazioni dell’impresa e della finanza. Insomma, l’associazione degli industriali, da soggetto politico che organizza interessi si e' trasformato in soggetto politico generale.

E la sinistra, anche quando ottiene dei risultati, riesce a vanificarli: il 21 maggio, Confindustria ha invitato il popolo italiano a recarsi alle urne, a votare per il maggioritario e per i licenziamenti, cioe' si e' proposta come soggetto politico che rappresenta gli interessi del paese. Gli italiani, in larghissima parte, non sono andati a votare, e quelli che lo hanno fatto hanno detto un secco NO ai licenziamenti.

A quel punto, un sindacato serio avrebbe dovuto reagire dicendo: “il popolo italiano non e' andato a votare, oppure ha votato contro i licenziamenti, ora io chiedo che lo Statuto dei Lavoratori si esteso alle fabbriche con meno di 15 dipendenti dove vige il totale e assoluto arbitrio dell’impresa”. Non e' andata cosi'.

Questo episodio mi fa dire che anche quando, non per merito del sindacato, si registra che gli italiani dicono no all’imbarbarimento, non si e' capaci di entrare in sintonia con  il senso comune di chi si dovrebbe rappresentare.

Qui c’e' un problema grave.

La discussione se stia scomparendo o no il lavoro dipendente i dirigenti della sinistra la stanno prendendo sul serio, cioe' c’e' qualcuno che a sinistra sta pensando davvero che questo stia accadendo. Me ne viene in mente uno, il Segretario della Camera del Lavoro di Milano, che ogni volta che parla dice “scompare il lavoro dipendente”, confondendo il fatto che i lavoratori non si iscrivono al sindacato con il fatto che non ci sono piu'.

Non e' cosi', se non si iscrivono vuol dire che il sindacato ha un problema nel confronto con i lavoratori, non li sa ascoltare, capire, difendere.

E allora la discussione deve essere seria.

Per quanto riguarda la proposta di accordo  alla Zanussi (ndr: il 7 luglio non si era ancora svolto il referendum che bocciava l’accordo separato): ci rendiamo conto di cosa voglia dire chiedere ad un lavoratore di essere a disposizione dell’azienda ventiquattro ore al giorno, sette giorni la settimana, notte compresa, trecentosessantacinque giorni all’anno, non pagato, essere chiamato con settantadue ore di anticipo, per un massimo di cinquecento ore di lavoro all’anno?

Qui c’e' un salto di qualita': non ti vogliono pagare poco, far lavorare la notte, il sabato, non ti chiedono di essere flessibile, ti chiedono di cedere il tuo tempo di vita.

E allora si torna ad una questione che nel 1867 i lavoratori americani fecero esplodere a Chicago quando rivendicarono “otto ore di lavoro, otto di riposo, otto di svago”, quando, cioe', dissero: vogliamo riprenderci del tempo per la nostra vita, non vogliamo essere vincolati alle logiche del mercato e dell’impresa.

Dalla Zanussi faccio un salto a Milano: all’Ibm, azienda collocata nel settore piu' avanzato della trasformazione dell’impresa.

Ad un certo punto l’azienda fornisce ad alcuni lavoratori un personal computer dicendogli “cosa vieni a fare fino a qui, puoi metterti in rete e lavorare da casa”. All’inizio questi lavoratori erano, giustamente, contenti di non doversi spostare, di non passare ore in macchina o sui mezzi pubblici per arrivare al lavoro e pensavano, sempre giustamente “il telelavoro mi restituisce un po’ di tempo per la vita”.

Cosa e' successo dopo? e' successo che il lavoratore sta a casa, con il suo computerino, ma di giorno e' difficile collegarsi in rete, allora lo deve fare la sera e di notte;  e' successo che Imb ha commesse in tutto il mondo, con diversi fusi orari e quindi  il lavoratore non decide quando lavorare e quando staccare, ma lascia acceso il computer ventiquattro ore al giorno e risponde in tempo reale alle richieste che arrivano. Succede che, mentre prima i telelavoratori erano “privilegiati” oggi vengono considerati privilegiati quelli che entrano in azienda alle 8 del mattino e alle 17 sono liberi.

E, di nuovo, si torna al tempo.

L’impresa considera il tempo di vita delle persone una proprieta', e siccome e' una sua proprieta' sono le esigenze del mercato e la sua flessibilita' a decidere quando il lavoratore deve rispondere.

Quindi e' chiaro che il nodo del tempo torna ad essere unao del maggio '99, voluto dal ministero e dall'impegno morale di Tremaglia, che stonava in quell'altra malegiunta.

Per il resto, Albertoni vuole promuovere culture, lingue e parlate locali, e spettacoli, in " una prospettiva storico-antropologica che rafforzi il prestigio della tradizione lombarda", sempre s'intende nel "sistema padano", che pero' non si sa bene che cosa sia. E cita nientemeno che Carlo Porta e " la lingua famigliare del Manzoni", (e perche' non Delio Tessa?), dimenticando che quei grandi uomini furono campioni di critica e satira al Potere, quello che ora per mezzo di Mediaset tenta di sostituire con la menzogna sistematica ogni libera formazione di pensiero, di opinione, di giudizio.

E qui ci siamo. Anche a noi interessa sinceramente che la grande cultura lombarda viva. Ma se ci furono i Celti ( e i Longobardi che come insegnava anche Manzoni si fusero con i "romani") ci sono le nuovissime culture extra-comunitarie che vivranno col tempo in alcuni dei nuovi nati che fanno parte a pieno diritto della nostra identita', in nome dell'umanita' e del lavoro.

Ma combattere questo disprezzo per le altre culture, del tutto ignorate nel programma (e stupisce in un uomo di studi come Albertoni), e' solo un aspetto della nostra opposizione. In verita' al centro sta il rapporto tra " l'italo-telesivismo, gergo dove si usano si e no cinquecento parole", ricorda giustamente in Nostro, e la cultura "superiore". Che non e' un cenacolo o un villaggio che parlano in dialetto. e' quella che il neo-conservatore Blair chia americano ha fatto un congresso che ha sostituito tutto il gruppo dirigente. Il nuovo gruppo dirigente si e' posto subito un problema: la risindacalizzazione di tutto il mondo del lavoro, non dell’ingegnere che se lavora un mese prende uno stipendio talmente alto che puo' essere flessibile quanto vuole, ma delle donne delle imprese di pulizia che, quest’anno, a Chicago, hanno conquistato il contratto, la tessera sanitaria, il minimo salariale orario, cosi' come sono stati organizzati i lavoratori dell’Ups, che oggi hanno un contratto nazionale.

Quindi torna la sindacalizzazione, il contratto nazionale insomma, il sindacato.

Possiamo anche dire ad alcuni sindacalisti, e lo direi al segretario della Camera del Lavoro di Milano se fosse qui, di guardare la realta' con altre lenti, di cambiare occhiali. A Brescia, (leggo sul Sole 24 ore) mancano ventiduemila lavoratori. Chi sono? Operai. In Veneto (leggo su La Repubblica) mancano mille lavoratori. Chi sono? Operai.

Ma allora di cosa stiamo discutendo?

L’impresa si trasforma ed ai  lavoratori viene offerto un rapporto di lavoro che non e' piu' dipendente ma di collaborazione continuativa, a partita Iva, ecc. che tradotto significa: l’impresa abdica a qualsiasi responsabilita' verso i diritti dei lavoratori ed i lavoratori non controllano niente del proprio tempo, del proprio salario e delle proprie prospettive, cioe' non possono progettare il futuro.

e' qui il punto di crisi della Cgil: nel fatto che non e' in grado di dare prospettive.

E allora dovrebbe per prima cosa ammettere la sconfitta (dire la verita' sarebbe gia' un esercizio liberatorio), dovrebbe dire: non ho soluzioni, perche' ho perso nel confronto con il capitalismo. Ma se ho perso, e tu stai peggio di prima, e la sindacalizzazione e il contratto sono gli strumenti per ricostruire un’idea di trasformazione dell’impresa e di azione collettiva, riparto da due questioni.

La prima. La lotta al precariato e il mantenimento e l’estensione dei diritti: quindi una carta di nuove garanzie per il lavoro, l’applicazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori nelle aziende sotto i quindici dipendenti.

La seconda: la questione salariale. 

Sono molti gli intellettuali che si sono separati dalla nostra storia in questo periodo, tanto che avverto una grande solitudine quando si parla di questi temi, quando si parla di lavoratori, perche' nel senso comune e' passata l’idea che non ci siamo piu': hanno spento la luce e ci hanno lasciato dentro un teatro oscuro.

E allora concludo con la battuta di un intellettuale: “guarda che il sindacato per forza deve decidere di cambiare fase perche' all’impresa che governa tutto non esiste come alternativa il vuoto”.

Ha ragione. Il vuoto della Cgil viene riempito dall’idea corporativa della Cisl: ai lavoratori si da assistenza, gli si compila il 730, il 740, ma non gli si da' la speranza di cambiare la propria condizione di vita.

Se la Cgil non sara' capace di modificare radicalmente la propria linea si trasformera' in  un sindacato inutile; restera' la Cisl ed a quel punto il rischio che il conflitto sia puramente corporativo e che l’autonomia e partecipazione del mondo del lavoro vengano cancellate sara' altissimo.

 

Si avvicinano le elezioni amministrative e politiche. A livello locale,  il centro sinistra, in una sorta di ripetizione di errori compiuti nel passato, ricerca il proprio candidato nel mondo dell’impresa. Sul piano nazionale sembra che futuro leader del centrosinistra sara' Amato.

A sinistra non ci si pone il problema di ricostruire rappresentanza e un progetto di societa' altro da quello che viene riproposto in modo ossessivo.

Quali possono essere le linee di un disegno alternativo del lavoro della societa' ?

 

Rossana Rossanda

 

Parlando di elezioni, vorrei essere telegrafica.

Da quando esiste ho sempre votato Rifondazione, ma voglio ragionare su una questione per me assai rilevante.

Per prima cosa, sappiamo tutti che se non ci sara' un sussulto antiberlusconiano e antifascista, la sinistra uscira' sconfitta dalle urne.

e' vero che il referendum sull’art. 18 e' stato vinto, ma c’e' stata una forte crisi di partecipazione al voto e i risultati delle regionali fotografano una sinistra che non esiste praticamente piu' al Nord e che cerca di fare cose su misura per non sparire.

Questa sinistra perdera'. Non e' un augurio, non credo alle virtu' salvifiche della sconfitta, perche' in politica il “ho perso, mi correggo” non e' automatico.

La sinistra e' stata sconfitta  in Italia, e' in seria difficolta' in Gran Bretagna, ed in  Germania; l’unico paese dove dai sondaggi risulta una sinistra non in perdita e' la Francia.

La Francia e' il paese europeo dove la sinistra, almeno culturalmente e simbolicamente, mantiene l’idea della proprieta' pubblica, dei diritti del lavoro e del ruolo politico dello Stato.

Ma laddove una parte della sinistra e' passata ad un modello generalmente concertativo, la sua perdita non va a vantaggio dell’altra parte della sinistra plurale. Cosi' va in tutta Europa e, per quanto riguarda l’Italia, Rifondazione non ha affatto acquisito le posizioni perse dai Ds.

Non e' un nodo che si scioglie  con semplici appelli all’unita'. Sono convinta  che e' sempre meglio stare uniti che divisi, che contro Berlusconi in qualche modo andremo tutti, ma che e' intervenuta una crisi  profonda che non riguarda soltanto la sinistra ma la societa', la cultura diffusa e che va superata ridando fiducia, soggettivita',  programmi.

Mi guardo bene dal dirvi come deve essere un programma, ma credo che dei programmi siano possibili, perche' dobbiamo smetterla con l’idea che siamo obbligati a seguire una strada, che c’e' un percorso oggettivo.

Quali sono i due punti cultural politici sui quali credo dovremmo discutere?

Il primo: dobbiamo togliere dalla testa della gente e qualche volta anche dalla nostra, che l’economia ha vinto la politica, che l’economia ha ragione, che contro l’economia, il capitale e il mercato non si puo' fare niente, che il sistema di scambio del mercato e' un ordinatore della politica, del rapporto tra gli uomini, che e' meglio scambiare anche i valori come merci perche' tutto sommato nel mercato la moneta buona vince sulla moneta cattiva.

Questa idea che la politica non puo' e neppure deve e' una idea diffusa a destra e a sinistra. La parola d’ordine “meno stato, piu' mercato”, e' il risultato non solo della corruzione dello stato ma di una idea in cui la politica ha perso centralita'.

Ma cosa e' la politica? e' la possibilita' per noi, donne e uomini, di decidere del nostro destino.

In democrazia questo si puo' e si deve fare.

E il nemico principale che abbiamo oggi, immediatamente dopo il capitale, e' la sfiducia, l’astensione, il senso di impotenza.

In Europa abbiamo raggiunto il minimo storico delle ore di conflitto: non e' soltanto colpa della sinistra e del sindacato, e' intervenuta una sfiducia profonda tra i  lavoratori.

Allora la prima cosa da dire e' che non c’e' nulla di fatale, non siamo di fronte alla fine della storia; gli uomini, le donne, la politica hanno la possibilita' di decidere e la politica, la facciamo noi.

Quando mi sento dire da persone di sinistra che la gente non ha votato perche' non si fida piu' della sinistra, chiedo “Ma la sinistra chi e'? Perche' deve essere D’Alema?”, al mio giornale, e credo nemmeno a Liberazione, non sono stati inviati centinaia di messaggi di protesta quando Moratti e' stato proposto come futuro sindaco di Milano. C’e' una sorta di rassegnazione: il centro sinistra candida Moratti, Abete, Rutelli…allora lo punisco non votando.

Ma  l’unico modo per punire il potere e' organizzare un contropotere: al potere l’astensione va benissimo, cosi' come una opposizione che rimane circoscritta; il potere va scavato, diviso al suo interno.

La prima cosa del programma di una sinistra e' il riscatto: basta con i miagolii sulla crisi della politica.

Poi bisogna obbligare la sinistra a discutere sulla non comunita' di interessi tra capitale e lavoro, tra globalizzazione e soggetti, uomini e donne del pianeta, senza dimenticare, pero', che  e noi viviamo nella parte di mondo che sta bene. Le Nazioni Unite, annualmente, pubblicano un  rapporto da cui emerge che un miliardo e duecentomila uomini non hanno acqua potabile, che l’80% delle risorse viene utilizzato dal 20% della popolazione e noi continuiamo a vivere come niente fosse. Qui c’e' un dato di cultura che va molto piu' nel profondo di quanto poi si rifletta sulla crisi politica.

e' attorno a questo che poi costruisci un programma.

Per prima cosa credo che le sinistre europee, che usciranno sconfitte, debbano riappropriarsi di un sistema di intervento sul meccanismo economico, capitalistico, debbano stabilire un controllo sulla liberalizzazione dei capitali. A questo proposito ci sono proposte come quella della Tobin Tax, di Attac, che vanno portate avanti.

L’Europa non lo fa, il nostro governo e' stato scandalosamente reticente, noi dovremmo attivare una politica per l’occupazione e il lavoro.

Occupazione, salari, tempo questi allora sono i cardini.

Quando l’azienda dice a un lavoratore “sei a mia disposizione ventiquattro ore su ventiquattro” vuole dire che l’orario di lavoro e' totale.

Anche la formazione di cui tutti si riempiono la bocca e' rivolta a questo: formare un imprenditore o un venditore oppure formare un cittadino responsabile dei suoi diritti sono cose profondamente diverse.

Credo che una ripresa della forza e della possibilita' della politica e del conflitto, della contraddizione di fondo tra governanti e governati siano i temi da cui si puo' partire e da tradurre poi in programmi precisi all’interno delle cose esistenti.

La rottura del centro sinistra o la ottieni attraverso questo o non la ottieni, ognuno garantisce il suo posto, ma siamo messi di fronte ad una necessita' piu' vasta.

Lo stesso vale per la Cgil. La sorte del piu' grande sindacato italiano, che rappresenta gli interessi dei non proprietari dei mezzi di produzione, riguarda tutti, non le singole categorie, non solo le fabbriche ma anche il territorio, intendendo per territorio la societa' nazionale, cosi' come problema dei contratti riguarda il diritto dei cittadini e delle cittadine. Questa cosa fino a venti anni fa si sapeva, e questo bisogna ricostruire. Come? Penso ci sia un limite in tutti noi politici. Il Manifesto vende meno di trentamila copie, perche' cosi' poche? Non posso dire che su 57 milioni di italiani, e i soli buoni siamo noi. Dobbiamo domandarci perche' non sfondiamo, perche' parliamo un po’ troppo tra noi e un po’ poco al resto del paese, perche' le discussioni sono criptiche.

Ascoltando a  Porta a Porta una discussione tra Mastella, Veltroni, La Loggia, mi chiedo: perche' questo dovrebbe parlare alla societa', ad un giovane, ad una donna?

Ho una grande paura che il dibattito politico diventi un dibattito per addetti ai lavori e che il dibattito sindacale corra lo stesso rischio.

Quindi alcuni grandi principi e un programma ragionevole a livello delle cose esistenti e' davvero alternativo.

E non si fa assieme  il capitale. E poi e' indispensabile allargare i nostri confini politici. Se non riusciamo a rompere questo isolamento forse qualche domanda dobbiamo iniziare a porcela.

 

Maurizio Zipponi

 

La reazione delle persone che incontro alla crisi e' l’astensione.

A questo porta, oggi, il non riconoscere che ci sono due punti di vista in campo, con la conseguenza che chi comanda continuera' a farlo.

Certo non aiuta a superare la sfiducia quello che si legge sui giornali, cioe' che nel piu' importante punto italiano della trasformazione dell’impresa, Milano (e non esiste un cambiamento politico e sociale del paese se a Milano, centro finanziario, industriale e politico non interviene un mutamento), il candidato proposto dal centro sinistra e' Moratti. Ma che storia politica ha, cosa rappresenta e chi?

Ci sono parole che vengono usate contro di noi e pesano. Cosi' il termine “modernizzazione” viene usato dalla destra, mentre la sinistra appare “conservatrice”. Ecco perche', e provo a rispondere a Rossanda, non sfondiamo, perche' fuori di qui si sono accreditate parole e significati diversi dai nostri.

“Modernizzazione” e' il lavoro a chiamata proposto alla Zanussi. Perche' e' moderno? Perche' viene dagli Stati Uniti. Con una piccola differenza: che il lavoro a chiamata  negli Stati Uniti si fa alla Microsoft, e gli interessati sono ingegneri informatici che se lavorano per un mese prendono compensi tali che per i rimanenti undici mesi possono fare quello che vogliono: possono permettersi di essere a “disposizione” perche' il loro reddito gli consente di riprendersi il tempo. In Italia il lavoro a chiamata viene proposto alle donne della Zanussi che lavorano alla catena su tre turni e prendono un milione al mezzo al mese.

Cosa sarebbe moderno facessero, allora, la sinistra e le organizzazioni sindacali? Contrapporre alla modernita' che ripropone solo un punto di vista, quello  dell’impresa, una carta dei diritti.

A Milano il 50% dei giovani lavoratori e' impiegato, l’80% e' precario, non hanno diritti, non hanno la malattia, la maternita', gli infortuni, la liberta' di parlare.

Non si puo' pensare di costruire una nuova carta dei diritti dei nuovi lavoratori senza dire che la dobbiamo smettere di stare negli uffici, alzarci la mattina, prendere un volantino e scrivere “Chi sono? Sono il sindacato. Cosa voglio fare? Fare in modo che anche tu abbia diritto alla maternita', il diritto ad ammalarti, la liberta' di parlare. Ti chiedo di venire domani sera a discutere di questo”. Questi sono messaggi diretti, forti, che possono combattere chi ha il potere delle televisioni.

Ma dobbiamo anche ripensare al modo di fare la politica del sindacato.

In caso contrario, l’affidarci a portatori di interessi dell’impresa vuol dire trasformare tutto in una partita di calcio, e credo che nessuno di noi abbia interesse a fare il tifo perche' altri vincano.

 

Dal Psi alla Lega

La cultura secondo Adalberto Albertoni nuovo assessore 

alla cultura in Regione Lombardia

 

Nuovo assessore alla cultura in regione e' tale Ettore Adalberto Albertoni, che negli anni '60 fondo' e diresse una rivista, Il Paradosso, che partecipo' non ignobilmente al dibattito del primo centrosininstra. Poi stette nel PSI, ed e' finito all'estrema destra.

In una intervista a La Padania del 24 Maggio prevede di "istituire undici assemblee provinciali con tutte le istituzioni che si occupano di cultura, compreso il volontariato culturale", e promette la sua presenza. Nelle scarne tre cartelle del programma presentato in Consiglio l'impegno, salvo errore, e' cancellato. Probabilmente il Governatore, che fa contratti con il popolo ma non discute in Consiglio non gradisce occasioni di confronto. I contratti e' meglio farli "di adesione".

L'assessore rispetta, e va bene, gli impegni istituzionali, tra cui il programma quadro del maggio '99, voluto dal ministero e dall'impegno morale di Tremaglia, che stonava in quell'altra malegiunta.

Per il resto, Albertoni vuole promuovere culture, lingue e parlate locali, e spettacoli, in " una prospettiva storico-antropologica che rafforzi il prestigio della tradizione lombarda", sempre s'intende nel "sistema padano", che pero' non si sa bene che cosa sia. E cita nientemeno che Carlo Porta e " la lingua famigliare del Manzoni", (e perche' non Delio Tessa?), dimenticando che quei grandi uomini furono campioni di critica e satira al Potere, quello che ora per mezzo di Mediaset tenta di sostituire con la menzogna sistematica ogni libera formazione di pensiero, di opinione, di giudizio.

E qui ci siamo. Anche a noi interessa sinceramente che la grande cultura lombarda viva. Ma se ci furono i Celti ( e i Longobardi che come insegnava anche Manzoni si fusero con i "romani") ci sono le nuovissime culture extra-comunitarie che vivranno col tempo in alcuni dei nuovi nati che fanno parte a pieno diritto della nostra identita', in nome dell'umanita' e del lavoro.

Ma combattere questo disprezzo per le altre culture, del tutto ignorate nel programma (e stupisce in un uomo di studi come Albertoni), e' solo un aspetto della nostra opposizione. In verita' al centro sta il rapporto tra " l'italo-telesivismo, gergo dove si usano si e no cinquecento parole", ricorda giustamente in Nostro, e la cultura "superiore". Che non e' un cenacolo o un villaggio che parlano in dialetto. e' quella che il neo-conservatore Blair chiama "l'eccellenza", i pochi cioe' che detengono tutti i mezzi di informazione e di comunicazione. Non dicevamo negli anni '70 che il padrone conosce diecimila parole e il popolo poche, e anche per questo e' lui il padrone? Non l'onesto dialetto ma questo rapporto e' il nemico. Non voleva forse il ministro nazista Rosenberg ridurre tutti i russi alla sola terza elementare? Il padrone di Mediaset (ma vogliamo credere anche non Albertini) vuole la stessa cosa, mutatis mutandis (tradotto per Bossi: cambiato quello che c'e' da cambiare). e' questo il vero terreno di confronto. Che dall'interno stesso del popolo delle cinquecento parole sorga una nuova cultura internazionalista, che si usi ogni nuovo mezzo per formarla (come ci insegnano dal Chiapas), con il dovuto sostegno di strutture pubbliche ne' provinciali ne' falsamente cosmopolite, lasciando a chi lo voglia di far teatro in lombardo o in senegalese, ma sapendo colpire i Rosenberg redivivi.