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In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - ototbre 1999 n.54

 

Per non dimenticare

 

Perchè sono stato a favore dell'intervento della NATO in Jugoslavia

 Candido

 

Le notti attiche

Pierluciano Guardigli

 

No ai referendum radicali

Paolo Cagna

 

Mio caro sindaco

Interventi di: Antonio Corbeletti - Luigi Lusenti - Iole Garuti - Lella Costa - Luciano Guardigli - 

Maria Grazia Mazzocchi - Maria Vittoria Mora - Donata Schiannini

 

Milano: un patto per il lavoro? 

Franco Calamida

 

Milano era diversa

Derar Muhsen

 

Bossi: addio Braveheart

Guido Caldiron

 

Brescia: prove di multietnicità  

Roberto Nicoletti

 

Figli di un Dio minore

Fabio Sottocornola

 

Roma città eterna

Carlo Gnetti

 

Bassolino asso pigliatutto 

Eugenio Lucrezi

 

Algeria: altra sponda del Mediterraneo 

Luciana Mella

 

Filò: edizioni sul filo della memoria 

Fiorano Rancati

 

Le vie del cinema 

F.R.

 

Maria non balla

Luca Rossetti

 

L'America si muove

Giovanna Giorgetti

 

Carta dei diritti del lettore

 

 

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Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

G. Falabrino, L. Miani

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

Fax 02/28.22.423

ilponte@galactica.it

 

Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

 

 

Intervento Nato in Kosovo: perché sono stato a favore  

1. Prima di tutto perché la Costituzione Italiana ha abolito il ricorso alla guerra per dirimere le controversie internazionali. Ma 23 Paesi della NATO avevano ragione, e la Serbia aveva torto: quindi non era una controversia.

2. Per fedeltà al patto costitutivo della NATO, che è dichiaratamente un patto offensivo, e non difensivo, come osa affermare anche quel pericoloso bolscevico che è Giulio Andreotti.

3. Perché fino a due giorni prima dell'inizio dei bombardamenti, in Kosovo c'erano gli osservatori dell'OSCE che impedivano scontri e stragi. Cominciata l'azione militare senza la presenza degli europei, i serbi hanno potuto iniziare la pulizia etnica per permetterci di dire che i bombardamenti erano giusti ed utili.

4. Per coerenza. Perché la NATO é sempre intervenuta dovunque si dovesse affermare il diritto d'intromissione negli affari interni di un Paese quando sono in gioco i diritti umani fondamentali; così la NATO è intervenuta:

- nel 1973 in Cile contro Pinochet e i generali che, rovesciato il governo legittimo, torturavano e uccidevano gli oppositori; - in Argentina (idem); - in Grecia, al tempo del governo dei colonnelli (idem); - contro la Nigeria che schiacciò ferocemente la secessione del Biafra (1967-70); - in tutte le guerre tribali che hanno insanguinato l'Africa centrale e, in particolare, per impedire le stragi tra hutu e tutsi; - in Sudafrica, contro l'apartheid; - nel Sudan, dove la dittatura araba stermina i cristiani del Sud; - in Afghanistan contro i sovietici che l'avevano invaso, e poi contro i talebani che hanno instaurato la dittatura islamica; - nel Tibet, snazionalizzato dalla Cina; - nel 1995 in Croazia per impedire che la vittoria nella Krajna facesse fuggire dal Paese 400 mila Serbi; - in Turchia, per impedire ad uno dei più importanti membri della NATO, di perseguitare i Curdi; - in Cecenia, contro le ripetute invasioni russe; - a Timor (1999); - nel Kosovo, per disarmare le bande dell'UCK, autrici delle "contro-stragi" di Serbi.

5. Per coerenza storica, cioè per rivalutare Vittorio Emanuele III e Salandra che avevano dichiarato la guerra del 1915 senza consultare il Parlamento, e per rivalutare Vittorio Emanuele III e Mussolini che dichiararono la guerra nel '40 senza convocare nè il Gran Consiglio del Fascismo nè la Camera delle Corporazioni, così come questa volta é avvenuto negli Stati Uniti, in Italia e in altri Paesi. Ma quelle erano guerre e Mussolini un dittatore, mentre la guerra del Kosovo non era una guerra ma un intervento umanitario, che quindi non aveva bisogno della dichiarazione di guerra.

6. Infine, per coerenza con gli obiettivi della NATO; - favorire la purga etnica nel Kosovo; - svalutare il ruolo dell'ONU; - togliere la Russia dall'isolamento e rivalutare il suo ruolo come capofila del mondo slavo; - ridare alla Cina una funzione anti-occidentale; - impedire la reale unificazione politica e militare dell'Europa, fuori dal protettorato americano.

 

 

Mio caro sindaco

I tempi che scandiscono la vita di un periodico sono tremendi. Prima della pausa estiva la lettera ai concittadini del Sindaco Albertini teneva banco, tanto da stimolarci ad affrontarla nel numero di settembre. Il panorama di commenti e giudizi che ospitiamo in queste pagine ci conforta nella scelta fatta. Ma l'attivismo, spesso condito da atteggiamenti impolitici, naturali o ricercati, dell'ex presidente di Federmeccanica, é andato oltre le due paginette da bigino ambrosiano spedito ai milanesi. L'elenco é presto fatto. A luglio i fuochi d'artificio del pre-accordo all'insegna della flessibilità con CISL e UIL, le manovre per Fossa alla SEA, l'autodefinizione compiaciuta di "falchetto" che vuole collegare Romiti (suo vecchio sponsor) a Berlusconi, l'asse automobilistico con il neo-sindaco bolognese. Segnali e uscite diverse, alcune apertamente fumose - come la lettera i cui contenuti sono più o meno facilmente smontabili - altre decisamente più pericolose, come il citato patto o preaccordo (al quale dedichiamo uno spazio apposito su questo numero). Apriamo una piccola parentesi: sono logiche di protagonismo comuni a molti sindaci - spesso politicamente inventati, senza esperienze di confronto al di fuori della propria professione, diventati simboli dello schieramento proponente e poi quasi piccoli "podestà" autonomi ed in grado di scavalcare gli stessi partiti e la coalizione di sostegno - eletti con le nuove norme elettorali. Quelle, tanto per capirci, che dovevano restituire ai cittadini il rapporto diretto con la politica ma che prospettano una "modernizzazione" fatta solo di personalismi esasperati, immagini patinate, e poche idee, spettacolarizzazione e nuova delega passiva di una parte, sempre più ridotta, di votanti. Chiusa la parentesi. Eppure ragionare sulla lettera di Albertini e interrogarsi sulle forme e gli esiti della politica, qui, in Lombardia e nella sua metropoli, non ci sembra altra cosa rispetto al calo della partecipazione elettorale e all'esito negativo e per molti versi drammatico per le sinistre del voto di giugno (già rimosso e accantonato?). Visto poi che tra qualche mese sarà in ballo il governo della Regione e non basterà certo una faccia più o meno alternativa al pio Formigoni per ridare motivazioni e stimoli a chi vuole restarsene a casa. Pur con i nostri tempi vorremmo usare l'autunno per continuare a discutere. Per questo abbiamo chiesto ad alcune persone che vivono o lavorano a Milano di commentare "garbatamente" la lettera del Sindaco Albertini e la sua campagna pubblicitaria intitolata "Milano fa bene".

 

 

Brescia: prove di multietnicità

Appena scendi dal treno, alla stazione di Brescia, hai l'impressione di non essere arrivato in una tranquilla e opulenta città della provincia norditaliana. I volti delle persone che incontri vengono da luoghi lontani, da un altrove diverso dal tuo. Diversi sono i suoni delle loro voci, diversi i colori dei vestiti che indossano. Osservandoli da vicino, ti accorgi comunque che essi non sono i soliti disperati che popolano le notti della stazione Centrale di Milano o di Roma Termini. Sai per certo che la maggior parte di loro si é ormai integrata nel tessuto economico locale. Lungo le vie della città sono rimasti in pochi gli immigrati che cercano, con insistenza, di venderti un accendino. Quelli che non sono in fabbrica o nelle campagne della bassa bresciana, hanno aperto botteghe nei quali puoi trovare molte delle merci una volta vendute dagli ambulanti, oppure prodotti alimentari di importazione o tessuti per confezionare gli abiti tradizionali. Il centro storico, poi, pullula di posti telefonici e luoghi di incontro dove con la scusa di telefonare ci si incontra per parlare e bere qualcosa. La stazione rimane certamente uno dei luoghi di ritrovo più frequentati, forse quello dove si può ancora coltivare l'illusione di ritornare "a casa". Ma non é l'unico. C'è la centralissima Piazza della Vittoria, frequentata soprattutto dagli immigrati asiatici, o il quartiere del Carmine, dove bazzicano invece gli africani. In tutti questi luoghi, col tempo, si é venuto a creare un diffuso associazionismo che, per ora, ha un carattere di solidarietà etnica. Tutto questo non può non farti tornare indietro nel tempo, agli anni del boom economico, quando l'Italia intraprese una veloce trasformazione che la trasformò in una società industriale. Anche allora gli immigrati, che provenivano dalle regioni del sud, si trovavano alla stazione; abitavano i quartieri delle città raggruppandosi in base alla regione di provenienza; promuovevano associazioni regionali; aprivano negozi con i prodotti tipici delle regioni meridionali. Naturalmente, oggi come allora, alla capacità di assorbimento di questo nuova manodopera nel sistema economico, non corrisponde una uguale integrazione culturale. Si tratta di processi che richiedono inevitabilmente molto tempo. In attesa che ciò avvenga, però, si é fatta strada l'idea che alcune parti della città siano cadute in mano a gruppi di delinquenti stranieri. Così che la zona della Stazione e, soprattutto, il Centro Storico, alla sera, diventano uno spazio deserto nel quale, dopo le otto di sera, é difficile trovare un bar aperto per bere un caffè o mangiare un panino. Quando i bresciani parlano di questi luoghi evocano la casbah, e qualcuno ci vede anche un immaginario cartello con scritto: lasciate ogni speranza o voi che entrate. Quelle che si raccontano sono per lo più leggende metropolitane. Questo non vuol dire che tutti gli immigrati sono delle persone per bene. Ma non può non infastidirti un pensiero che non distingue, che favorisce una condanna generale del diverso, dello straniero, di chi non é come noi. Tuttavia questa é una sorta di mitologia che é stata rafforzata dall'ultima campagna elettorale, per il rinnovo del Consiglio comunale, incentrata prevalentemente sul tema della sicurezza del cittadino. Nessuno può negare che questo sia un diritto sacrosanto di ogni persona. Il disagio ti nasceva dalla sensazione provata, ascoltando le dichiarazioni di molti politici, che si trattava di un problema che riguardava solo la popolazione italiana. Eppure anche i cittadini stranieri hanno lo stesso diritto di essere protetti dalla violenza delinquenziale, come peraltro essi stessi hanno dichiarato nei molti dibattiti che sono stati organizzati in quel periodo. Ma é poi giustificato tanto allarmismo? A giudicare dal prezzo al metro quadro delle case del centro storico si direbbe che il problema non esiste. Di fronte a questa constatazione senti il desiderio di liquidarlo semplicemente come un rigurgito razzista, ma riflettendoci con maggiore pacatezza ti rendi conto che sarebbe un imperdonabile errore. Brescia non é un'isola felice. E' una città di media grandezza che porta con sé tutte le contraddizioni che sono tipiche dei processi urbani della nostra epoca. Gli anziani sono giustificati nel loro timore di essere scippati quando vanno a prendere la pensione, come pure lo sono tutti coloro che si muniscono di antifurti, in casa o nell'automobile, perché gli scippi, i furti e le rapine non sono un'invenzione della propaganda di Forza Italia e di Alleanza Nazionale. Ciò che sicuramente non ti senti più di sopportare é il collegamento automatico che viene operato tra delinquenza e immigrazione. Se poi ti prendi la briga di girare per le strade e i vicoli del Centro storico non può sfuggirti che il futuro della vivibilità di Brescia non é messo in discussione dalla presenza dei cittadini stranieri che lo abitano ma da alcune decisioni che hanno innescato nuovi processi di trasformazione. Lo svuotamento del centro storico, ad esempio, é alimentato sicuramente da quelle mitologie a cui si é fatto riferimento, ma é anche consolato dalla creazione di alternative sempre più accattivanti. La costruzione di centri commerciali che simulano sempre di più la forma di città protette ed oggi l'apertura di una multisala cinematografica, che possiede questa stessa filosofia, costituiscono un'attrattiva irresistibile per i bresciani, che trovano sempre meno motivi per andare in centro. Tuttavia, quando si riduce il controllo sociale di un territorio, sottraendogli le occasioni di incontro tra le persone, lo si candida anche a diventare una zona franca nella quale hanno vita facile proprio coloro che sono portatori di comportamenti basati sulla violenza e sulla sopraffazione. D'altronde questa é una preoccupazione presente nell'opinione del mondo politico, così come in quello associazionistico. Per questo non puoi considerare che positiva e importante la proposta fatta dal Sindaco Corsini ai maggiori proprietari immobiliari del centro storico per un recupero del patrimonio edilizio più fatiscente. Nello stesso tempo, però, occorre fare molta attenzione e creare gli strumenti più efficaci affinché, con essa, non si alimenti la sostituzione dell'attuale carattere residenziale degli edifici con una più remunerativa terziarizzazione. Quando arrivi a Brescia sai anche di giungere in una provincia che può vantare la piena occupazione per i suoi abitanti. Tuttavia, ben presto ti accorgi che dietro questa medaglia si trova un rovescio inaspettato: un esteso il fenomeno dell'abbandono scolastico. Non si può parlare di evasione dell'obbligo, piuttosto di una forte sfiducia nella cultura come strumento di promozione sociale e soprattutto personale. Non si parla solo dei cottimisti che ogni mattina partono dai piccoli paesi della Valcamonica e vanno a lavorare a Milano. Il loro é un fenomeno significativo, ma non é il più rilevante. Assai più frequentemente, infatti, la carriera scolastica di molti giovanissimi bresciani si conclude con un anno presso la "Scuola bottega" o presso qualche centro di formazione professionale, che, in uno o due anni, fornisce una qualifica da spendere immediatamente nel mondo del lavoro. Un mondo del lavoro che accoglie e offre occasioni a tutti, ma, nello stesso tempo, non garantisce adeguatamente la sicurezza personale. Nel bresciano, infatti, é molto alta l'incidenza degli incidenti sul lavoro, spesso anche mortali. Il paradosso é che tutto ciò si verifica in una realtà con una forte presenza e tradizione sindacale. Questa, di primo acchito, ti può apparire una contraddizione inspiegabile, ben presto, però, puoi scoprire che lo é solo in apparenza, perché, da queste parti, il lavoro possiede ancora un'etica di tipo ottocentesco, sulla quale però si é innestata una passione consumistica che ha portato a sottovalutare i rischi di incidenti e la necessità che venga rispettata la normativa di sicurezza. Peraltro il tessuto economico-produttivo bresciano é fatto soprattutto di imprese manifatturiere e a tecnologia matura che hanno dimensioni medie, piccole o piccolissime che alimentano il mito dell'imprenditorialità autonoma, da un lato, e sacrificano, dall'altro, la prevenzione. Limitandosi a questi dati, potresti essere indotto a credere di essere sbarcato nel paradiso del liberismo, ma sbaglieresti ancora una volta. L'economia di questa provincia é arricchita dalla presenza di un grande movimento cooperativo, di matrice prevalentemente cattolica, che ha saputo sviluppare una miriade di servizi alla persona (assistenziali, ricreativi e culturali) con il quale sarebbe possibile, già ora, il passaggio dal modello tradizionale welfare state, ormai definitivamente entrato in crisi, a quello più innovativo di welfare comunity. Cercando di capire meno superficialmente la realtà bresciana hai presto modo di constatare quanto sia importante questo tessuto. La recente costituzione del Centro servizi per il volontariato, per citare un esempio, ha potuto contare sull'apporto attivo di una base sociale formata da circa centocinquanta aggregazioni. Da quelle della protezione civile all'Avis, dalle organizzazioni che forniscono il servizio delle autoambulanze ai tanti piccoli e piccolissimi gruppi che si occupano di anziani, handicappati, ecc.. Ma la vivacità di questo mondo l'apprendi da un altro dato: da poco più di un anno e mezzo dalla sua apertura, il Centro servizi ha fornito la propria consulenza a circa duecento nuovi soggetti. D'altra parte si tratta di una realtà economica che si alimenta con un tessuto associativo estremamente ricco e diffuso, capace di una proposta fortemente innovativa. A Brescia, ad esempio, esistono tre consulte: la prima raggruppa le associazioni che si interessano di problematiche attinenti alla pace, un'altra quelle ambientaliste e l'ultima le associazioni che si occupano di servizi di volontariato rivolti alla persona. Ma il fenomeno non riguarda solo la città. Un città come Montichiari, di circa quindicimila abitanti, si é dotata di una consulta che mette insieme più di un'ottantina di gruppi e organizza ogni anno una Fiera del volontariato. Persino una un paese come Provaglio d'Iseo, che conta poco più di cinquemila abitanti, possiede un coordinamento delle diverse associazioni presenti sul territorio e pubblica un giornale mensile con le iniziative di ognuna di esse. In base a queste osservazioni potresti cadere nell'errore di credere che a Brescia é vivo e vitale un fenomeno partecipativo che é in netta controtendenza rispetto a quanto avviene a livello nazionale. Così non é. Anche qui la partecipazione vive una stagione di profonda crisi e la vitalità associazionistica non deve trarre in inganno, perché, spesso, la presenza dei cittadini é delimitata ad un ben circoscritto evento o interesse e non di rado muore con esso. Così come la vita dei gruppi é spesso estremamente autocentrata e, paradossalmente, si dimostra incapace di determinare una rete significativa di relazioni. Il carattere estremamente problematico e personale delle riflessioni che sono state esposte, può indurre a credere che, di fronte ad una realtà complessa, non si possa trovare un denominatore comune che permetta di elaborare una proposta. Fortunatamente non é così. Il tentativo che é stato fatto é, più semplicemente, quello di mettere in evidenza il carattere complesso della società bresciana e la necessità di evitare la tentazione di ricette semplificanti.