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In questo numero

 

Il ponte della Lombardia  - ottobre 2003  n. 67

 

 

Un Ponte diverso

Luigi Lusenti

 

Un Ponte mirabilmente

allungatosi dalla Lombardia

Costanzo Ioni e e Eugenio Lucrezi

 

Milano e Napoli

capitali dell’Illuminismo

Gian Luigi Falabrino

 

Napoli: una cartolina da Milano

L.L.

 

L’eclissi della città promessa

Percy Allum

 

Prezzi e consumi a Napoli: alcune osservazioni di prospettiva

Gianni De Luca

 

La politica dei trasporti in Campania: strategie per una Regione in movimento

Ennio Cascetta

 

Il progetto della metropolitana regionale metrocampania

 

Il metrò del mare

   

Comune di Milano: 10 numeri da ricordare

Aurelio Volpe

 

Sull’urbanistica milanese tra storia e attualità

Matteo Bolocan Goldstein

   

La dismissione industriale nell’area napoletana: il caso Italsider

Andrea Buonajuto

 

 

Alfa di Arese:  l’impatto e la dismissione, il tessuto sociale  politico e il territorio

Lella Bellina e Paolo Pinardi

 

Napoli tra pianificazione culturale e programmazione urbanistica

Maria Federica Palestino

 

A Napoli, per le strade dell’arte

Belinda Vella

 

L’editoria di cultura a Napoli

Ugo Piscopo

 

Said

Maria De Gennaro

 

La cultura, a Milano, c’è: 

basta pagare

Pier Luciano Guardigli

 

Sicurezza e insicurezza a Milano: tra tabù e luoghi comuni, le mafie operano indisturbate

Lorenzo Frigerio

 

Partono ‘e bastimiènte’... l’immigrato in Campania tra ghetto e integrazione

Pino Gaglione

 

 

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Il ponte 

della Lombardia

 

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, A. Celadin, A. Corbeletti, G. Falabrino, 

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

Fax 02/28.22.423

ilponte@ilponte.it

 

Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

Un ponte diverso

Il ponte, per sua natura, si estende, scavalca, unisce.  Questo numero de “il ponte della lombardia” ha voluto estendersi fino a sud, scavalcare mezza Italia e la capitale, unire nella riflessione e nella pubblicistica due realtà distanti, a seconda della strada che si preferisce percorrere, circa ottocento chilometri. Un lungo pezzo del “bel paese” sta sotto a questo ponte: province, città, paesi più o meno noti, più o meno importanti ma tutti con una storia, una cultura, delle tradizioni. Luoghi che meriterebbero senza riserve, oltre che di essere visti, anche di venire raccontati.

Un giornale come il nostro, che porta nel titolo il nome di una regione, non ha mai coltivato né coccolato il localismo, ha invece percorso mezzo mondo. Spingersi oggi fino a Napoli, per chi come il ponte è giunto nell’Europa unita e nei Balcani, in Africa, in Asia e in America Latina è un po’ come fare una gita fuori porta. Ma di tutte le innumerevoli volte che siamo usciti dai confini della Lombardia questa è una delle più importanti.

Non è uno dei molti collaboratori della redazione a narrarci una realtà “straniera”, ma due interi gruppi di giornalisti e di intellettuali che parlano di Milano e di Napoli. Napoli non a caso, non solo perché lì ci sono nostri amici,  persone impegnate politicamente e culturalmente  che già altre volte hanno dato una mano al il ponte.

Ci sono posti che hanno una storia a parte, una storia trascendente ai luoghi che li circondano, una storia che si proietta nel mondo ben al di là della sua collocazione geografica. Così è per Roma, la capitale, la città santa, la città eterna. Ed infatti, attorno a Roma, all’immensa urbanizzazione che la contraddistingue, non vi sono altri centri capaci anche solo di essere satelliti minori del pianeta madre. Perfino l’epopea del Tevere nasce e finisce con Roma. Ciò non vale né per Napoli né per Milano. Che sarebbe della città di Gioacchino Murat e dei Borboni senza le isole dell’arcipelago, senza Pozzuoli e la solfatara, senza Caserta, Nola e Battipaglia. E della città del Cat-taneo e degli Sforza senza il Ticino, il Po e l’Adda, senza la Brianza decantata dal Baretti, i laghi manzoniani, l’Oltrepò del Beccaria?

Napoli e Milano davvero capitali, o per non far confusione, riferimento della bassa e dell’alta Italia.

Come succede spesso nel nostro paese, patria dei mille comuni, luoghi vicini quasi si ignorano e luoghi lontani quasi marciano appaiati. Ecco uscire una realtà che non scopriamo certo noi del ponte: Napoli e Milano, nei secoli e nel presente, hanno, molte volte, avuto storie e destini paralleli. Storie e destini che si sono poi evoluti secondo modi e forme originali, contaminati dal territorio, dalle culture locali, dalle diversità climatiche. Un esempio per tutti: l’illuminismo di cui ci parla nel suo articolo Falabrino.

Come i presbiti che hanno la caratteristica di vedere bene lontano e veder male vicino, oggi noi siamo meno in grado di riconoscere i parallelismi del presente ma vogliamo offrire al lettore una mappa, diversa e diversificata, delle due città. Per alcuni argomenti l’immagine è allo specchio, per altra ha una sola faccia, ma per tutti vale ciò che disse Leonardo da Vinci: “da oriente ad occidente ogni punto è divisione”. Con la presunzione che valga anche il suo contrario e che unità e divisione non siano caratteri contrapposti ma qualità complementari.

 

 

 

 

 

L'eclissi della città promessa

 

Oggi a Napoli la gente appare sfiduciata. Gli entusiasmi del cosiddetto 'rinascimento bassoliniano' degli anni '90 si sono spenti da tempo. Gli anni del nuovo millennio hanno l'aria piuttosto tetra, quando non francamente triste.

Ciò è, in un certo senso, nella natura delle cose. I grandi entusiasmi collettivi, assieme alle grandi mobilitazioni, sono quasi sempre, come i sociologi ci hanno insegnato, di breve durata. Lo 'stato nascente', come l'innamoramento, al quale Francesco Alberoni lo ha più tardi assimilato, è un'esperienza, come egli stesso ha scritto, esaltante, in cui "un tipo nuovo di uomo o un nuovo tipo di società appare possibile, o comunque realizzabile". Recentemente, un intellettuale napoletano ha fatto ricorso ad una parabola biblica per descrivere il suo stato d'animo - credo che non sia solo suo, ma condiviso da tanti dei suoi concittadini - nei confronti della situazione politica attuale: "Quando a Mosè fu promessa una terra in cui scorrevano latte e miele, il patriarca manifestò incredulità. E fu punito: gli fu concesso di vederla da lontano quella terra, ma non di entrarvi.

Quando a me e ai miei concittadini fu promessa una nuova Napoli frutto di vigorose trasformazioni a est e a ovest, ho avuto fede. Ma chi sa se la vedrò.

La città promessa, soprattutto la futura Bagnoli, è in progetto da una diecina d'anni; quaranta ne sono occorsi a Mosè per uscire dall'Egitto e raggiungere il Giordano; quanti ne occorreranno per vedere la Napoli promessa?

E' una domanda che, sfiduciato, comincio a pormi da qualche tempo, e vorrei proprio avere risposta; dai fatti, dalle realizzazioni, più che dalle verbali assicurazioni".

A mio parere c'è un insieme di motivi che spiega l'incapacità di realizzazione politica del centro-sinistra, sia al Comune che alla Regione, di cui si lamentano non soltanto molti napoletani, ma anche tanti campani, e che sta alla base del loro presente stato d'animo largamente sfiduciato.

Un primo elemento, che si può definire fisiologico, nel senso che fa parte della natura storica della Sinistra come forza politica,  è la sua tendenza scissionistica. Si può riassumere schematicamente la differenza tra Destra (conservazione) e Sinistra (movimento, progresso), con una battuta, dicendo che mentre i quattrini tengono unite le forze della destra, le idee dividono quelle della sinistra, e ancora di più quelle del centro-sinistra. A ciò si deve aggiungere un protagonismo esasperato dei suoi diversi componenti, e questo costituisce un secondo elemento.

Va detto, inoltre, che quest'ultimo fattore è stato rafforzato dalle riforme istituzionali comunali e regionali degli anni novanta, le quali si sono rivelate molto più ambigue e meno forti di quanto si poteva credere inizialmente. Infatti, esiste una contraddizione macroscopica, insita sia nella legge elettorale dei Comuni del '93 che in quella delle Regioni del '99, che favorisce oltre misura gli interessi particolari - persino settoriali e corporativi - dei vari consiglieri, dei gruppi, ecc. In effetti, se il sindaco o il presidente della Regione è direttamente eletto a due turni, i consiglieri sono eletti separatamente su liste di partito, con voti di preferenza. Ciò combina due logiche contrastanti: quella del maggioritario, dinamica, e quindi fatta di vincitori e vinti, e quella proporzionale, statica, e quindi compartecipativa.

Inoltre, la separazione dell'attività della giunta da quella  consiliare ha ridotto i singoli consiglieri a un ruolo largamente passivo: approvare o rifiutare i progetti della giunta, formulati altrove, spesso escludendo i singoli consiglieri, in un'epoca in cui i partiti contano sempre meno. Situazione che non può che aumentare la frustrazione dei componenti del consiglio.

Questi ultimi, in altre parole, hanno perso quel ruolo di input e di iniziativa progettuale che potevano avere avuto con il vecchio ordinamento. Ciò li spinge spesso o a votare contro la proposta della propria giunta (vedi il caso recente del PRG della giunta presieduta da Ersilia Salvato, a Castellammare di Stabia), o ad assentarsi dalle sedute del consiglio comunale/regionale, facendo mancare il quorum, e quindi riducendo le sedute ad un nulla di fatto (come si è verificato in numerose occasioni nel corso dell'ultimo anno, tanto a Palazzo San Giacomo quanto a Santa Lucia).

E' vero che il sindaco e il presidente della Regione hanno il diritto di scegliere la propria giunta, e che quest'ultima ha autonomia di iniziativa: ma se non riesce a fare approvare le proprie politiche da parte del consiglio, non è più in grado di governare; lo ha sperimentato dopo la sua elezione alla presidenza della Regione Campania, per più di un anno, l'ex sindaco di Napoli, Antonio Bassolino.

La sola arma di cui dispone il sindaco/presidente per superare un conflitto tra esecutivo e legislativo sono le proprie dimissioni, che comportano automaticamente lo scioglimento del consiglio e nuove elezioni per entrambi: conseguenza estremamente seria per il primo, perché potrebbe significare la fine della sua carriera amministrativa nonché una grave sconfitta per la propria parte politica. A questa miscela, certo non indolore, è necessario aggiungere  l'ambizione, comune a molti politici, di voler essere 'grandi pesci' anche in un piccolo stagno, piuttosto che accettare di essere 'piccoli pesci' in un grande stagno (che potrebbe essere l'Ulivo, ad esempio). Non c'è che da rammentare le 'correnti' di ieri,  che somigliano tanto ai 'partitini' di oggi.

Da qui la rissosità che il presidente della Regione ed i sindaci dei numerosi Comuni della provincia, amministrati dal centro-sinistra, hanno dovuto affrontare quotidianamente, con le conseguenze per i loro progetti che sono sotto gli occhi di tutti i napoletani, cioè quelle dei tempi biblici.

E' vero che né il presidente della Regione, né la sindaca di Napoli, sono Mosè, ed è poco probabile che scorrerà mai a Napoli latte e miele, ma comunque…!

 

 

La dismissione industriale nell'area napoletana: 

il caso Italsider

A partire dalla metà degli anni Settanta nelle economie e nelle società occidentali si verificano grandi cambiamenti. Con la crisi petrolifera e la fine del sistema economico fissato dagli accordi di Bretton Woods si determina un forte rallentamento della crescita nei paesi industrializzati, in particolare nel settore dell'industria di base, segno questo della fine della lunga fase espansiva cominciata con la ricostruzione postbellica.

La struttura e l'aspetto di tante città occidentali muta radicalmente, in seguito a profondi processi di ristrutturazione industriale o di vera e propria deindustrializzazione. La grande fabbrica fordista, dei settori di base ad organizzazione verticale, non è più al centro dello sviluppo economico e sociale. Essa da potente mito della modernità diventa, con la sua dismissione, il simbolo ed il problema del postmoderno.

Muta radicalmente la stessa concezione di settore industriale sottoposto a processi di cosiddetta terziarizzazione, cioè di esternalizzazione di funzioni precedentemente svolte all'interno dell'impresa. Questi mutamenti producono: aumento del decentramento, diminuzione della dimensione media delle imprese, aumento del terziario per l'industria.

Il riassetto del settore industriale si accompagna poi ad un trend di risparmio del lavoro, a causa sia delle innovazioni tecnologiche, sia di vero e proprio ridimensionamento produttivo operato con l'abbandono di intere produzioni soprattutto nei settori di base.

In seguito a queste trasformazioni, all'interno delle grandi aree urbane si determinano dei vuoti da riempire e da riutilizzare. Interi quartieri e interi settori sociali vedono messe in discussione la loro funzione e la loro identità; si rompe un legame storico che ha segnato intere generazioni, un rapporto strettissimo tra la fabbrica e il territorio circostante.

Agli inizi degli anni '80 tutto l'apparato industriale napoletano, come documentato da molteplici analisi, manifesta un'esplicita dinamica di disarticolazione interna e di revisione della sua organizzazione territoriale, con una tendenza alla delocalizzazione verso le aree interne. L'industria napoletana è caratterizzata da una grave crisi che provoca un forte calo dell'occupazione compensato solo in parte da nuove occasioni di lavoro nel terziario, a differenza delle città del Nord. Nel napoletano, secondo la prassi consueta, ci si affida alla Pubblica Amministrazione che funziona da ammortizzatore sociale. La società locale, in mancanza di un piano organico di sviluppo, non si decide ad imboccare in modo netto la via della modernizzazione e del riordino funzionale, accumulando ritardi e tensioni sociali, che saranno causa di gravi crisi e fratture non ancora del tutto sanate.

Il caso Italsider è estremamente emblematico da questo punto di vista, inoltre esso è pienamente rappresentativo dell'involuzione subita dall'industria italiana a partecipazione statale, molto presente in particolar modo nel Mezzogiorno (ma anche in alcune realtà del Nord, come ad esempio Genova).

La storia dell'Ilva/Italsider è anche la storia di una parte essenziale della città di Napoli nel Novecento: quella della sua industria e della sua classe operaia. Basti pensare che, durante il "biennio rosso", l'Ilva di Bagnoli diventa il teatro dello scontro delle due anime del socialismo italiano: quella della frazione comunista di Amadeo Bordiga e quella riformista di Bruno Buozzi.

Com'è noto la storia dell'Ilva prima, Italsider poi, comincia nel 1904 con la legge speciale per Napoli, ispirata da Nitti, che prevede la costruzione di uno stabilimento siderurgico, che alla fine verrà installato in una delle aree più belle del Mezzogiorno: tra la collina di Posillipo, la spiaggia di Coroglio e la strada per Pozzuoli. Per questa zona esistono anche dei progetti alternativi, finalizzati ad uno sviluppo turistico, il più noto dei quali- oggi riscoperto dagli urbanisti più avveduti- è quello dell'ingegnere inglese Lamont Young, che, alla fine dell'Ottocento, prevede, proprio per la zona dell'Ilva, la realizzazione di un quartiere residenziale costituito da una serie di isolette e canali, che dovrebbero costituire il cosiddetto "Rione Venezia".        

Il nuovo stabilimento, inaugurato il 19 giugno 1910,  con la Grande Guerra lavora a pieno regime grazie soprattutto alle commesse statali per l'industria bellica. Durante gli anni Trenta si ha un notevole sviluppo dello stabilimento, che però, in seguito alle vicende del secondo conflitto mondiale, viene quasi completamente distrutto dall'esercito tedesco in ritirata. Con la liberazione di Napoli, sono le stesse maestranze operaie con i tecnici ad adoperarsi per cominciare a riattivare la fabbrica. Negli anni della ricostruzione postbellica e poi dello sviluppo economico, l'Ilva conosce una lunga fase di espansione, trasformandosi nel 1961, attraverso la fusione con Cornigliano e altre imprese minori, in Italsider. E' durante gli anni Sessanta che si comincia a parlare di delocalizzazione dell'acciaieria all'interno di una pianificazione dello sviluppo del "comprensorio napoletano" (Piano Piccinato del 1962), anche se tale disegno non verrà mai realizzato.

Con la crisi degli anni Settanta gli effetti sulla siderurgia italiana sono drammatici e lo stabilimento di Bagnoli ne viene investito in pieno. Tra il '76 e il '77 due Rapporti tecnici commissionati dall'Iri (Rapporto Storoni e Rapporto Armani) danno un giudizio estremamente negativo sulla situazione dell'Italsider, e il Rapporto Armani prospetta per la prima volta l'ipotesi di "una progressiva chiusura del Centro". Viene elaborato allora un "Programma finalizzato per la siderurgia", che per Bagnoli prevede un Piano di ristrutturazione, basato essenzialmente sull'installazione di due impianti di colata continua e di un laminatoio per coils a caldo. E' in questa fase che comincia la lunghissima e travagliata vicenda che porterà infine alla chiusura dell'acciaieria. Il biennio '82- '84 è segnato dal processo di ristrutturazione ed ammodernamento della fabbrica, accompagnato da una serie infinita e drammatica, per i suoi risvolti umani e sociali, di agitazioni e proteste operaie. Un primo Accordo viene raggiunto a fatica il 5 novembre 1982, dopo 35 giorni di lotta e di manifestazioni, in cui, per la prima volta dopo molto tempo, si verificano anche scontri con le forze dell'ordine. Ma la prevista riapertura dello stabilimento per l'aprile '83 non viene rispettata a seguito di ulteriori tagli richiesti dalla Cee. Gli altri paesi europei (come pure USA e Giappone) hanno da tempo ristrutturato i propri impianti ed investito sui settori ad alta tecnologia dell'economia. In Italia invece ancora nel 1980 si ha una crescita del numero di occupati nel settore siderurgico, in contrasto con tutti gli indicatori di crisi. In questo contesto, in mancanza di una programmazione economica nazionale e di una seria politica industriale, la classe politico- sindacale napoletana, nella sua quasi totalità, finisce per schierarsi, con motivazioni diverse, a difesa di una fabbrica, il cui mantenimento diventa il simbolo della garanzia di una soglia minima di civiltà a Napoli, sintetizzata nello slogan: "L'Italsider non si tocca!". La città e le istituzioni comunali si raccolgono attorno ai caschi gialli: il sindaco comunista Maurizio Valenzi si pone alla testa dei cortei, va a parlare in fabbrica e giunge a minacciare le dimissioni in caso di chiusura del Centro siderurgico. Dopo l'Accordo del 1982 e la nuova richiesta di tagli e di riduzione della capacità produttiva proveniente da Bruxelles di cui si è detto, si arriva all'Accordo del 10 maggio 1984, che divide i sindacati e i lavoratori, con il Consiglio di fabbrica che contesta la firma apposta dalla Federazione sindacale unitaria. Per la prima volta allora in una grande fabbrica italiana, l'Accordo sul riavvio dell'attività produttiva diventa oggetto di un Referendum aziendale, che, dopo altre spaccature e contestazioni, viene definitivamente approvato dai lavoratori, nonostante l'invito all'astensione da parte del Consiglio di fabbrica. Ma, sebbene i lavoratori affrontino continui e pesanti sacrifici, tutto ciò non basta ed ha solo l'effetto di prolungare nel tempo il lento declino dell'acciaieria, suscitando rabbia, frustrazione e il sospetto di manovre speculative sui suoli alle spalle degli operai.

Sono poche le voci che si levano ad indicare soluzioni alternative: qualche associazione ambientalista come "Italia Nostra", dell'architetto Antonio Iannello, che invita a prendere atto della crisi della siderurgia e ad investire nei settori più avanzati e moderni dell'economia, come l'elettronica e la telematica; i Verdi, che da tempo portano avanti la loro battaglia per la chiusura della fabbrica ed il rilancio turistico dell'area, che però, in mancanza di precise prospettive occupazionali, viene fortemente osteggiata dagli operai e dalle principali forze politiche che ad essi fanno riferimento; qualche sparuto sindacalista, come Enzo Mattina, socialista della Uil, il quale in un'intervista del '94 ricorda come già nell'87 egli sostenesse che l'Italsider andava chiusa, suscitando sia l'opposizione legittima e comprensibile degli operai in difesa del posto di lavoro, sia quella di chi era mosso solo dall'ideologia operaista, sia quella in malafede di un vero e proprio comitato politico-affaristico, che attorno a Bagnoli "voleva creare una nuova situazione di emergenza, una sorta di terremoto degli anni '90 che mungesse soldi allo Stato".

Si giunge così nell'ottobre 1990 alla chiusura dell'area a caldo dello stabilimento, nuovamente denominato Ilva, ed alla cessazione definitiva, nel 1991, di ogni attività produttiva.

Si conclude così una fase storica durata ottant'anni, praticamente l'intera storia del Novecento della città di Napoli. Insieme alla fabbrica scompaiono anche i soggetti che la rendevano viva: coloro che ci lavoravano.

Oggi il modo migliore per rendere omaggio a questa storia secolare sarebbe quello di far tornare a pulsare in quell'area, nelle forme nuove e moderne, il lavoro di uomini che costruiscono e progettano il loro futuro.

 

 

Alfa di Arese: l’impatto e la dismissione, il tessuto sociale politico e il territorio

Nel 1910 l’Alfa è una fabbrica milanese (il Portello) di 250 dipendenti che produce trecento auto all’anno; viene venduta l’anno prima dalla francese Darracq,  che voleva costruirci le sue vetture, ad un gruppo di finanzieri della regione (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili). Nel 1915, a seguito della sua messa in liquiqazione, la società viene rilevata da un ingegnere napoletano Nicola Romeo. Dopo la prima guerra mondiale, diventata Alfa Romeo, la sua produzione è rivolta sopratutto alle vetture da competizione, tanto da dominare la scena sportiva mondiale in tutto il periodo fra le due guerre mondiali. Nel 1933 l’Alfa Romeo passa sotto il controllo dell’IRI e nel 1938 avvia la costruzione di uno stabilimento presso Pomigliano d’Arco per la produzione di motori per aeroplani, mentre con l’avvicinarsi della seconda guerra mondiale, il Portello produce autocarri e motori marini.

In questa prima metà del novecento l’Alfa già si caratterizza per questo suo intreccio tra ricerca e qualità, tra tecnici e operai. Le prime iniziative di propaganda antifascista si hanno all’inizio del ‘43 con l’uscita di quattro numeri de “La Scintilla”, giornale degli operai dell’Alfa, d’ispirazione comunista. I grandi scioperi del marzo del ‘43 vedono sostanzialmente assente l’Alfa, anche se nei mesi successivi e sopratutto nel ‘44 arrivano le fermate e un pesante tributo con 17 operai arrestati e spediti in Germania che non faranno più ritorno.

Difesa e ricostruita la fabbrica,con gli anni cinquanta l’Alfa assume un ruolo importante sia sul versante produttivo che sociale a Milano e a livello nazionale.

Con la produzione della Giulietta, si avvia la produzione su larga scala (a fine anni 50 ne vengono prodotte 150 al giorno, 80 Dauphine e 15 tra Spider e Berline in uno stabilimento di 7.000 lavoratori), senza mai avere il coraggio di fare concorrenza alla Fiat nel vero segmento di massa costituita dall’utilitaria (come invece hanno sempre rivendicato le rappresentanze politiche e sindacali); lo stesso accordo con la Renault per la produzione della Dauphine si dimostrerà un palliativo.

Sul versante politico-sindacale, l’Alfa inizia a svolgere un ruolo trainante all’interno del movimento milanese. La Fiom, nelle varie votazioni delle Commissioni Interne, ha sempre la maggioranza assoluta tra gli operai (più del 70% agli inizi degli anni 50 e piu del 60% alla fine degli anni 50) e relativa tra gli impiegati. Se l’attenzione alle condizioni salariali e di lavoro all’interno del Portello è fortissima e fondamentale per conquistare e mantenere il consenso, l’attenzione alle questioni più generali della Milano e dell’Italia di allora e alle prospettive produttivive dell’azienda comincia ad essere altrettanto importante.

Questa è la sintesi di una azienda che con gli anni 60 e la motorizzazione di massa compie la svolta trasferendo il Portello  fuori Milano ad Arese; a Pomigliano costruisce un nuovo stabilimento.

 A regime, nel nuovo e moderno stabilimento di Arese che occupa una superficie di due milioni e mezzo  di metri quadrati e ha una capacità produttiva di circa 150 mila vetture all’anno sono impiegati circa ventimila lavoratori operai, tecnici e impiegati.

Il trasferimento dello storico stabilimento nell’hinterland milanese modifica la struttura  urbanistica non solo di Arese ma anche di tanti comuni limitrofi, tra i quali Bollate, Garbagnate, Lainate e Rho influenzandone la vita sociale e politica.

Per far funzionare a pieno regime la grande fabbrica, infatti, non bastano i lavoratori provenienti da Milano e nel giro di pochi anni, si assiste all’ingresso al lavoro di migliaia di operai, in maggioranza giovani, provenienti dal Sud.

Il nuovo stabilimento, nato sotto la spinta della motorizzazione di massa, diviene anche il simbolo delle assunzioni di  massa.

In quegli anni la classe operaia dell’Alfa e milanese fortemente sindacalizzata e politicizzata si incontra con migliaia di giovani che in molti casi non hanno alcuna esperienza di lavoro in una grande fabbrica e che si ritrovano ad affrontare contemporaneamente condizioni di lavoro e di vita  diverse da quelle da cui provengono.  Qui viene vinta socialmente, ancor prima che politicamente o sindacalmente, la battaglia dell’unità e dell’integrazione sulla base di contenuti radicali che influenzeranno una intera stagione. 

Le amministrazioni comunali sono costrette ad affrontare una serie di questioni legate alla presenza o al passaggio sul proprio territorio di migliaia di lavoratori, primi fra tutti il problema degli alloggi e quello dei trasporti.

Nel maggio del 1962, ben prima che lo stabilimento di Arese entrasse in funzione a pieno regime, su “Il Portello”, periodico dei lavoratori dell’Alfa Romeo un gruppo di operai scrive “Siamo andati in privato ad esplorare le zone dove sta nascendo la nostra nuova fabbrica. Naturalmente abbiamo girato attorno a quella immensa spianata di terra battuta senza più un filo di verde o una pianta ed abbiamo poi percorso su e giù strade e paesi nei quali la nuova comunità alfistica si è cominciata ad insediare. (…) E’ cominciata tra noi una discussione sui principali problemi che riguardano il trasferimento. Ecco i principali quesiti che ci siamo posti: lo spostamento di una grandissima fabbrica come la nostra pone subito il problema di come si sviluppano i cosiddetti “insediamenti industriali” e della evidente necessità del coordinamento di un  piano e di accordi tra le amministrazioni locali e la nuova azienda; (…) inoltre l’arrivo di migliaia di famiglie a Rho, Bollate, Arese, Lainate, ecc. porrà grossi problemi di opere pubbliche supplementari (scuole, strade, acqua, fognature, illuminazione, ecc.) che non devono evidentemente pesare solo sulle amministrazioni comunali ma dovrebbero secondo logica gravare anche sull’azienda che si trasferisce; vi è poi il problema del collegamento non solo di tipo industriale ma anche diciamo civile: chi porterà i lavoratori sul posto di lavoro? ed a quali tariffe, ed in quanto tempo?”.

Con gli anni sessanta inizia una stagione di lotte operaie e studentesche: per quanto riguarda  Arese e dintorni un intero territorio si ritrova a fare i conti non solo con le vertenze dei lavoratori e con le loro richieste ma anche con un impegno che, fuori dai cancelli della fabbrica, per molti di loro prosegue naturalmente nei comuni.

All’altissimo tasso di sindacalizzazione e ad una grande coscienza di se, infatti, la classe operaia dell’Alfa unisce una forte connotazione politica: attorno alla fine degli anni sessanta la sezione di fabbrica del Pci, la Ho Chi Minh, ha circa cinquecento iscritti che arrivarono ad essere quasi ottocento attorno alla metà degli anni settanta.

La presenza dei lavoratori e le loro lotte hanno ricadute anche concrete sul territorio: in quegli anni, oltre che sulle questioni attinenti all’organizzazione del lavoro, dall’Alfa vengono richieste e si costruiscono mobilitazioni per ottenere un sistema dei trasporti che permetta a migliaia di persone di raggiungere la fabbrica, fino ad allora una sorta di cattedrale nel deserto.

“In una gelida mattina di un sabato del passato inverno – scrive Giulio Chiesa su Il Portello del gennaio 1973 -  alcune persone entrarono quasi timidamente nel piccolo ufficio di una azienda di trasporti pubblici di Corsico. Dietro la vecchia scrivania il titolare, senza tante formalità, chiese il motivo di quella visita. “Vorremmo – rispose una di quelle persone – che ogni mattina, pagando si intende, ci facesse portare con una sua corriera fino ad Arese e che la sera ci facesse portare indietro”. “Non posso – rispose il padrone – non ho la concessione di questa linea e rischierei di perdere la licenza”. “Ma lei non noleggia le corriere per le gite?”. “Si, certo”. “Allora ogni giorno noi faremo una gita fino ad Arese, passeremo la giornata tra le incantevoli catene di montaggio dell’Alfa, faremo lauti pranzi alla mensa e a sera lei ci riporterà a casa. E ogni giorno, dal lunedì al venerdì, noleggeremo la corriera per queste gite di piacere”. Il padrone della corriera non poté rifiutare quella richiesta e da quel giorno quelle persone che non sono altro che lavoratori dell’Alfa di Arese che abitano a Corsico, Rozzano e Cesano Boscone, hanno risolto almeno parzialmente il problema dei mezzi di trasporto”.

A questo proposito,  con la vertenza del ’73-’74 i lavoratori ottengono che l’azienda versi una quota a Regione ed enti locali perché i rispettivi consorzi di trasporto potenzino le linee che, dai paesi del circondario, raggiungono la fabbrica.

Non solo: un’altra battaglia viene ingaggiata per il potenziamento e l’estensione dell’orario d’apertura degli asili nido, in modo da poter consentire alle donne che hanno figli di lavorare.

Nel numero de “Il Portello” dell’ottobre 1970 il “gruppo di studio impiegate Alfa Romeo” scrive: “(…) Esiste una legge, la n.860, che fa obbligo ai datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze più di 30 donne fino ai 50 anni, di istituire asili nido e camere di allattamento all’interno delle aziende. Questa legge è però tranquillamente ignorata e anche l’Alfa Romeo non fa eccezione alcuna, salvo che per una convenzione con Onmi che garantisce peraltro l’assistenza ad un numero irrilevante di bambini. La soluzione migliore a tale problema è la gestione degli asili nido da parte del Comune con il finanziamento delle aziende. E’ arrivato il momento, anche per l’Alfa Romeo, di occuparsi seriamente della realizzazione di questo servizio sociale con i fatti e non soltanto con le parole”. Qualche tempo dopo viene siglato un accordo sindacale che obbliga l’azienda a versare un contributo ai comuni della zona per la realizzazione di nuove strutture per l’infanzia.

Per quanto riguarda gli alloggi, in quegli anni si crea una sorta di “contrapposizione” tra Arese e Garbagnate: mentre ad Arese vengono costruite le villette per i dirigenti e i quadri dell’Alfa, a Garbagnate, attraverso la legge 167 sull’edilizia popolare vengono costruite le case per i lavoratori.

Su Il Portello del gennaio 1971 appare un articolo dal titolo “La casa: un problema urgente” che recita così: “Nel corso dell’ultima lotta rivendicativa dell’Alfa Romeo i lavoratori hanno saputo ampliare l’interesse della lotta uscendo dai cancelli della fabbrica, andando a diretto contatto con l’opinione pubblica e con istanze democratiche quali gli enti locali. (…) Al termine delle manifestazioni le rappresentanze operaie sono state ricevute nelle sedi municipali dai relativi amministratori locali. Da questi incontri tra amministratori e lavoratori in lotta non solo sono venuti ordini del giorno manifestanti la solidarietà dei consigli comunali, e quindi della cittadinanza tutta, ma si sono discussi problemi importanti che  la stessa lotta chiamava in causa. Soprattutto è emerso il problema della casa. (..) Dagli incontri sono emerse le possibilità per risolvere questo grosso problema umano sociale che interessa quasi la totalità dei lavoratori italiani. Possibilità concrete. Ad esempio i comuni di Garbagnate e Cinisello Balsamo hanno da tempo reperito migliaia e migliaia di metri quadrati edi-ficabili in base alla legge 167 da destinare a costruzioni di carattere economico po-polare. (…) solo con una lotta generale per le riforme democratiche e una mobilitazione di massa si può venire a capo e risolvere questo vitale problema. Mobilitazione che costringa l’Alfa Romeo in questo caso, ma più in generale tutte le industrie a partecipare direttamente al finanziamento per la costruzione delle case popolari (…).” 

In quegli anni Arese, dove non c’è 167 ma sopratutto villette, è amministrata da  coalizioni di  centro sinistra (Dc-Psi) ed è guidata da sindaci prevalentemente democristiani espressione della dirigenza aziendale; nella confinante Garbagnate e in altri comuni con le case popolari il Pci arriva a percentuali assolute. 

Negli anni ottanta, passato il boom dell’edilizia popolare, nei singoli comuni inizia-no a sorgere cooperative di lavoratori per la costruzione degli alloggi.

Il nesso tra ciò che accade all’interno della fabbrica e quel che succede sul territorio è allora fortissimo.

Così come i consigli comunali si occupano di discutere ed approvare ordini del giorno relativi alle vertenze dei lavoratori, all’interno delle giunte cominciano ad essere eletti consiglieri e, successivamente amministratori espressione dei lavoratori.

Già nelle amministrative del 1970 oltre quaranta lavoratori dell’Alfa vengono candidati nei singoli comuni dell’area oltre che in regione e provincia e nel 1975 vengono eletti  un deputato, un consigliere regionale e un consigliere provinciale espressione dei lavoratori.

Altra vicenda che attorno alla fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta caratterizza le azioni di una classe operaia che non si rinchiude in fabbrica e rappresenta la saldatura tra movimento dei lavoratori e movimento degli studenti è la lotta per le scuole serali.

Quella lotta unisce la necessità di molti lavoratori di accedere ad una cultura generale, di prendere un diploma alla consapevolezza che questo sarebbe servito  anche a gestire meglio la propria situazione materiale, il proprio lavoro.

Questo significa in concreto richiedere i permessi per uscire prima dalla fabbrica, per gli esami, una proposta di legge che parla di 6 ore pagate 8 per i lavoratori studenti,  perché studiare, accedere alla formazione professionale e alla cultura significa anche aumentare la propria capacità lavorativa, la propria professionalità e questo ha una ricaduta positiva sia per i singoli che per l’azienda.

Nell’ottobre del 1971 la Commissione Lavoratori Studenti dell’Alfa Romeo di Arese avanza le seguenti richieste per il diritto allo studio: “La riduzione dell’orario di lavoro a sei ore pagate otto (nella prospettiva delle quattro pagate otto, soprattutto per trasformare la scuola serale in pomeridiana). Questo può sembrare un obiettivo corporativo ma non lo è se partiamo dal presupposto che le spese per l’istruzione sono un investimento che può assicurare un contributo all’avanzamento economico, sociale e civile dell’intero paese. (…); l’istituzione di sezioni serali di scuole statali nei comuni dove i lavoratori lo richiedono, per dare la possibilità a tutti di accedervi senza inutili perdite di tempo sui mezzi di trasporto; la gratuità dell’iscrizione e dei libri di testo, per difendere il salario del lavoratore e per l’abolizione delle scuole private a carattere speculativo. (…)”.

Tutto questo è in grande sintonia con il movimento che in quegli anni si sviluppa nelle scuole e nelle università ed in contrapposizione all’idea delle scuole aziendali che più che dare strumenti di conoscenza plasmano dipendenti sulla base delle necessità dell’impresa. Anche l’Alfa ha la sua scuola aziendale, gestita dall’Iri  e pagata con i soldi della Regione: la maggior parte dei giovani che la frequentano vengono poi assunti dall’azienda, nonostante questo molti privilegiano le scuole serali. 

Il movimento dei lavoratori studenti caratterizza internamente ed esternamente la fabbrica: tutte le vertenze aziendali contengono sulla questione punti specifici e proprio nelle lotte si formano quadri politici e sindacali.

Questo movimento risponde anche alla richiesta di scolarizzazione di massa dopo l’immigrazione degli anni sessanta e settanta.

L’impatto tra la tradizionale classe operaia milanese ed i giovani che arrivano dal Sud non è drammatico, sia perché in interi paesi dell’hinterland si creano comunità forti di immigrati che provengono dalle stesse zone, sia perché la straordinaria coscienza politica dei lavoratori “storici” dell’Alfa li porta a muoversi sulla via dell’integrazione: i sindacati, i partiti, le cooperative, gli stessi consigli comunali diventano espressione anche di questi nuovi lavoratori.

I giovani, attraverso il lavoro e le scuole serali hanno non solo la possibilità di stu-diare ma anche di incontrare la  politica ed il sindacato.

Certo, non è tutto rose e fiori. A volte chi entra in contatto con una realtà tanto di-versa dalla propria entra in crisi, in depressione, si sente isolato; il suicidio di un ragazzo che frequenta il Cattaneo serale provoca una delle manifestazioni più rilevanti del movimento dei lavoratori-studenti. Ci sono anche contraddizioni, non solo l’entusiasmo per le grandi lotte ma, certo, se un’ondata di immigrazione così forte si fosse verificata in anni di apatia, anche i problemi di inserimento sarebbero stati ben più esasperati.

Attorno agli anni settanta all’interno della fabbrica si determina un conflitto aspro tra il movimento operaio tradizionale, il suo sindacato ed il suo partito di riferimento (il Pci) ed espressioni della sinistra extraparlamentare che, in alcuni casi, fiancheggiano il terrorismo.

All’Alfa, a differenza che in altre realtà, la lotta contro il terrorismo è segnata da un impegno vero dei lavoratori e delle loro rappresentanze sulla base della teoria secondo cui il terrorismo è nemico della classe operaia.

La federazione milanese del Pci svoge un ruolo importante in questo senso. Essendo l’Alfa la fabbrica simbolo della classe operaia milanese, il Pci punta molto  su questa realtà, distaccando tecnici e operai  mandandoli a dirigere uffici fabbriche, zone di partito, leghe sindacali, cooperative e candidandoli alle elezioni non solo amministrative.

Questo legame che all’inizio produce risultati positivi come la promozione di veri quadri che escono dalle esperienze della fabbrica, degenera poi con gli anni ottanta quando, ad un calo della tensione politica e della mobilitazione, corrisponde una pericolosa tendenza a  cadere in una logica di rapporti di potere politico sindacale e a schieramenti tutti interni ai gruppi dirigenti.

Negli anni settanta quasi tutti i comuni vicino ad Arese esprimono non solo consi-glieri  ma assessori, sindaci, vicesindaci che vengono dalla fabbrica.

Comincia la grande esperienza degli amministratori che il movimento dei lavoratori dell’Alfa presta alla politica.

L’amministrazione di questi comuni si caratterizza all’inizio con esperienze interessanti (dai trasporti, agli asili, alla casa) ma negli anni ottanta subisce  una regressione.

In quella zona il Psi esprime il suo volto peggiore: la gestione della cosa pubblica è caratterizzata da affarismo e infiltrazioni mafiose. In alcune realtà il partito socialista raggiunge il 20-25% dei consensi alle elezioni amministrative contro il 10-12% delle consultazioni politiche, segno dell’esistenza di un sistema clientelare capillare.

Gli amministratori comunisti all’inizio non si contrappongono alla degenerazione e questo segna in modo negativo l’immagine di Amministrazioni come quella di Bollate; attorno alla metà degli anni ottanta, il Pci di quelle zone risponde al degrado amministrativo e affaristico da cui si salva forse il solo Comune di Novate;  negli altri comuni la spaccatura tra Psi e Pci è netta e raggiunge il suo apice con la formazione di giunte anomale (comunisti e democristiani) a Garbagnate e altre realtà; Queste giunte vengono osteggiate dalla federazione milanese del Pci impegnata a difendere un rapporto, non solo politico, a livello milanese e nazionale con il Partito Socialista. Non si coglie questo segnale che viene dalla periferia operaia e il Pci milanese perde l’ultima occasione di una battaglia politica contro il degrado politicoprima di essere travolto da Tangentopoli.

Da queste vicende emerge un dato: l’assenza di forti lotte operaie, la crisi del movimento dei lavoratori, il distacco dalla fabbrica evidenziano la fragilità dei gruppi dirigenti.

Nel 1989 la proposta di scioglimento del Pci avanzata dal suo allora segretario na-zionale ottiene all’Alfa la maggioranza dei consensi: tutto l’apparato politico sindacale di provenienza Alfa si schiera in quell’occasione con la Svolta di Occhetto  (“dobbiamo ritornare a vincere e sbloccare il quadro politico”) con buona parte degli operai della catena di montaggio contrari in quanto per loro significava cedimento e assimilazione.

Quella vicenda segna il definitivo seppellimento di un ruolo e di una presenza politica all’Alfa.

Il passaggio dell’Alfa alla Fiat nel 1986 è preceduto da uno scontro fuorviante tra chi preferisce come un futuro  Fiat (il Pci toriese) e chi (la federazione di Milano) avrebbe invece preferito che lo sta-bilimento di Arese venisse acquistato dalla Ford.

Solo una piccola parte del partito di fabbrica e territoriale e del sindacato tenta un ragionamento che privilegia la presenza pubblica sul modello Renault o Wolkswagen e chiede di affrontare i veri problemi della fabbrica; perdono coloro che chiedono di discutere su come tenere in piedi un’industria automobilistica autonoma, che parlano di innovazione, della necessità di nuovi prodotti, di un piano industriale vero.

Il clima non è più quello degli anni forti, quando partito e sindacato promuovevano conferenze di produzione ed iniziative caratterizzate dalla continua attenzione ai problemi dello sviluppo, della gestione e della qualificazione della fabbrica, momenti di discussione cui veniva invitata anche la dirigenza aziendale. 

La costante attenzione alla qualità del lavoro e all’innovazione aveva portato, alla fine degli anni settanta, ad una diversa organizzazione del lavoro (il cosiddetto lavoro ad isola) che, spezzando la ripetitività della catena di montaggio, puntava ad accrescere la professionalità ed a valorizzare il lavoro degli operai. Quelle esperienze sono finite.

Nel 1986 l’Alfa passa nella mani della Fiat. Nello stabilimento di Arese, contraria-mente a quanto accadde nelle fabbriche torinesi,  non si instaura un clima da caser-ma: all’Alfa, storicamente, c’era sempre stata una grande attenzione al rapporto tra i lavoratori e i quadri e ad un dialogo con gli stessi manager.

Per questo, nonostante la sconfitta operaia in Fiat, all’Alfa  si assiste in quegli anni a singoli episodi di emarginazione non alla messa in pratica di un sistema di repressione.

Al momento del passaggio in Fiat nello stabilimento di Arese sono occupate  circa 15.000 persone.

All’inizio degli anni novanta Fiat inizia un processo di pesante ridimensionamento della fabbrica di Arese chiudendo i reparti di fonderia, stampaggio, meccanica e spo-stando la produzione in altri stabilimenti del gruppo.

Dieci anni dopo , nel 1996, i lavoratori rimasti ad Arese sono 4.000 e di questi 2.000 sono in cassa integrazione: i capannoni della più grande fabbrica del milanese sono in gran parte vuoti e il sito in cui erano occupate ventimila persone si trasforma in un’area dismessa.

Nel 1996 la Provincia di Milano, la Camera di Commercio, i comuni limitrofi ad Arese, Fiat Auto ed altre due società costituiscono il Consorzio per la reindustrializza-zione dell’area di Arese. Scopo del consorzio: promuovere il reinsediamento indu-striale di “attività coerenti con la tradizionale vocazione ad alta qualificazione tecnica dello stabilimento”. In realtà le aree vengono vendute ad aziende che hanno, come unica clausola, quella di  assumere almeno due lavoratori dell’ex Alfa ogni 1000 metri quadri acquistati. Per i lavoratori che vengono “comprati” non esiste alcuna garanzia: vengono messi in cassa integrazione, rivenduti, licenziati. 

Il resto è storia di oggi: ne parleremo sul prossimo numero della rivista.

 

 

 

Sicurezza e insicurezza a Milano: tra tabù, luoghi comuni, le mafie operano indisturbate

Non ci sono emergenze criminali a Milano e provincia: questo è quanto emerge dall’analisi dei dati sugli andamenti criminali nella nostra realtà. Infatti, tanto analizzando i problemi sotto l’aspetto quantitativo, grazie ai dati forniti semestralmente dalla Prefettura, quanto osservando i trend di svi-luppo della criminalità di strada ricaviamo un quadro della sicurezza e dell’ordine pubblico a Milano e provincia decisamente migliore di tante altre realtà metropolitane italiane ed europee. Eppure pe-riodicamente, quasi a segnare ogni cambio di stagione e di meteo, assistiamo al balletto delle dichiara-zioni impettite, delle rivendicazioni ad alta voce, delle denuncie dello stato di abbandono in cui verse-rebbe la metropoli milanese, in balia delle orde criminali, per lo più straniere. Dichiarazioni, rivendi-cazioni e denuncie che suonano ancora più beffarde quando provengono dalle forze politiche alla gui-da della città, della provincia e finanche della regione.

Non è certo nostra intenzione recitare la parte di chi minimizza il dolore in casa dell’ammalato: come vedremo più avanti, infatti, dovrebbero essere ben altre le ragioni di preoccupazione. Vogliamo sola-mente ribadire come ogni allarmismo sia sicuramente ingiustificato: la professionalità messa in campo in questi ultimi anni dalle forze dell’ordine consente di affermare che la situazione dal punto di vista della sicurezza e del contrasto della microcriminalità, ragione principale dell’allarme, è ancora sotto controllo a Milano.

 

Non esistono ricette in tema di sicurezza

Ciò detto, rimane ed esercita il suo ruolo di “spada di Damocle”, con tutto il carico di angosce e drammi conseguenti, la possibilità che uno squilibrato esca e si metta a sparare all’impazzata oppure che un tabaccaio esasperato reagisca armi in pugno al tentativo di rapina al suo esercizio.

Si tratta, in entrambi i casi, del fattore imprevedibile, della follia di pochi secondi, in definitiva dell’imponderabile umano, che non può certo essere messo sotto controllo dagli occhi elettronici di un “grande fratello” tecnologico cui affidare la sorveglianza di ogni nostro movimento o dall’esasperata militarizzazione del territorio comunale e provinciale, idea spesso accarezzata da chi non trova altre risposte alla domanda di sicurezza proveniente dalla cittadinanza, in questo scorcio di inizio secolo.

La ricorrente insistenza, soprattutto in occasione delle tornate elettorali (vedi Brescia per citare solo l’ultimo caso in ordine di tempo, con la quale si invocano uomini e armi a presidio della collettività, alla fine non permettono agli operatori della sicurezza, agli amministratori locali e a tutti gli altri atto-ri che operano sul territorio di agire in una prospettiva di medio e lungo termine, incentrata sulla pre-venzione più che sulla risposta alle emergenze di turno.

È in fondo più facile “gridare al lupo” e strapparsi le vesti, in preda alla sindrome di accerchiamento, piuttosto che costruire quella rete di relazioni, di interventi, di supporti in grado di agire, in una logi-ca di progettazione, sul sentimento di insicurezza che sembra avere la meglio sulle intelligenze dei milanesi.

Insicurezza e chiusura

Comprendere e cercare di lenire il sentimento di insicurezza diffuso nella cittadinanza deve essere l’obiettivo prioritario da perseguire, perché a volte basta poco perché un atteggiamento di questo ti-po degeneri. I problemi a Milano non mancano, anche se non si può certo parlare di un degrado complessivo della qualità della vita. Anzia a volte verrebbe da dire che siamo in presenza di una sorta di “malessere da benessere” che sembra essere una delle maledizioni delle grandi metropoli della globalizzazione.

Non è quindi certo un caso fortuito se l’altra faccia della medaglia dell’insicurezza sia rappresentata dagli atteggiamenti di chiusura e diffidenza verso l’altro e il diverso, dalla scarsa collaborazione con le autorità e le forze dell’ordine, dall’eccessiva attenzione al proprio particolare o, nella migliore delle ipotesi, alla propria famiglia. Fino a quando si farà leva sui peggiori istinti dell’uomo, si creeranno le condizioni per la conflittualità e l’emergere della prepotenza e del sopruso, capace perfino di farsi legge dello Stato, come testimoniato recentemente a più riprese.

 Le  stesse politiche dei servizi sociali non vanno esenti da responsabilità, se puntano solamente a garantire coloro che sono già “inclusi” (magari investendo gran parte delle risorse per gli anziani, rite-nuti potenziali elettori e perciò stesso degni di ogni attenzione) e non riescono ad incidere sulle con-dizioni di vita di coloro che vivono ai margini della comunità civile: minori, soggetti con trascorsi car-cerari o di tossicodipendenza, stranieri e gli altri paria dei nostri giorni.

Così pure le scelte in materia di cultura hanno una notevole incidenza sulla capacità di aggregare i cit-tadini, chiamandoli ad appropriarsi nuovamente del territorio, sottraendolo alle intemperanze dei bulli o degli spacciatori e ai possibili affari illeciti dei criminali che gravitano nelle diverse vie cittadi-ne, ad ogni ora del giorno e della notte.

Se ben poniamo attenzione, alla fine il nodo principale in tema di sicurezza è proprio questo: se non si lavora sulla percezione che la comunità e i cittadini hanno del loro stare insieme, esiste la concreta possibilità che ogni minimo accadimento funga da detonatore, finendo per passare sotto silenzio i ve-ri problemi a cui si dovrebbe prestare attenzione.

Il silenzio delle mafie (e dei mass media…)

Infatti, il territorio milanese non è certo una zona tranquilla: crimine organizzato italiano e straniero, terrorismo di matrice interna ed internazionale, corruzione (Mani Pulite? Un secolo fa...) e disagio giovanile solo per citare le questioni più calde. Ecco il paradosso, alimentato dal disinteresse di larghi strati della popolazione lombarda e supportato negativamente dai mass media locali e na-zionali: di fronte al ripetersi dell’allarme sicurezza, rimane forte la convinzione che la criminalità or-ganizzata sia una questione meridionale, una delle tante irrisolte dall’unità d’Italia ad oggi.

Una significativa conferma della pericolosità di questa sottovalutazione è giunta al termine della Carovana antimafie, la manifestazione organizzata da Libera, Arci e Avviso Pubblico.

Un comunicato stampa delle suddette associazioni, concordato in ogni minimo dettaglio e condiviso da Prefettura e forze dell’ordine, avente per oggetto il rischio delle infiltrazioni mafiose nel nostro territorio, è stato del tutto ignorato dai mezzi di comunicazione, fatta eccezione per due radio (Radio Popolare e Circuito Marconi). Nel comunicato si registrava, con sempre maggiore preoccupa-zione, la pacifica convivenza tra le varie organizzazioni mafiose, italiane e straniere, operanti sul no-stro territorio, tale da far pensare ad una spartizione di affari e di mercati. Una sorta di pax mafiosa imposta per non attirare troppo la repressione, sancita dall’accordo sulla suddivisione dei grandi flussi di denaro illeciti, che nella metropoli e nella regione trovano poi modo di essere nuovamente immessi nel circuito economico legale.

“Il bisogno di sicurezza è maggiormente percepito del bisogno di legalità e questo può indi-rettamente comportare il rischio di non vedere o sottovalutare fenomeni di criminalità organizzata, che sono comunque un presupposto per l’affermazione della delinquenza urbana”: questo uno dei passaggi maggiormente sottolineati da parte dei responsabili dell’ordine pubblico a Milano e provin-cia nel testo diramato ai mezzi di comunicazione e totalmente ignorato perché considerato troppo poco interessante.

Le politiche della prevenzione

 Se questo è il livello di comprensione dei fenomeni criminali in atto, c’è poco da stare allegri. Il contesto politico e il sistema informativo non aiutano certamente a dare vita ad un clima comples-sivo dove coniugare le categorie della legalità e della sicurezza, dell’inclusione e dell’esclusione, del disagio e del crimine organizzato.

Ancora una volta si avverte la necessità di partire dal basso, dalla scuola: perché no?  I temi sui quali lavorare sono estremamente semplici, ma basilari allo stesso tempo: la responsabilità indi-viduale e il senso di solidarietà; i diritti di cittadinanza e il rispetto delle regole all’interno delle co-munità organizzate civilmente; la storia della criminalità organizzata e le ramificazioni a Milano e nella nostra zona; i rischi e i pericoli legati ad una scelta valoriale di tipo criminale.

La sicurezza, o meglio, il sentimento di sicurezza per crescere ha bisogno di una sana trasver-salità di approccio: la scuola può essere il punto di partenza, ma elementi imprescindibili sono il si-stema politico ed economico, passando per una necessaria rivalutazione del pensiero e della cultura che su questo tema e sugli altri collegati una società civile organizzata è in grado di mettere sul tappe-to.

Non si sciolgono le tensioni e le paure, con le telecamere e le divise ad ogni angolo della stra-da, perché l’effetto potrebbe essere opposto, con l’aumento dell’angoscia e della solitudine.

È necessario avviare la stagione del dialogo in materia di prevenzione, chiamando attorno ad un tavolo di confronto i diversi attori, pubblici e privati; occorre una contaminazione dei linguaggi e delle competenze per riuscire a trovare nuove risposte alle povertà di ogni genere che sono relegate ai margini della città e che servono ad alimentare paure e chiusure. Il cosiddetto “modello Milano” in materia di sicurezza, di cui si è parlato a più riprese in questi anni, è ora chiamato alla prova più difficile: coniugare la repressione con la prevenzione. Ce la farà a fornire risposte convincenti?

 

 

Partono 'e bastimiènte…l'immigrato in Campania

tra ghetto e integrazione

Non si può immaginare la vita umana senza mobilità; l'uomo si muove per i più vari motivi, quelli che preferiamo immaginare non sono di sicuro gli stessi che costituiscono il nostro argomento: i difficili e faticosi "viaggi della speranza", alla ricerca di migliori condizioni di vita, per abbandonarne una al limite della sopravvivenza per i motivi più vari, conflitti etnici o religiosi, povertà di risorse, impossibilità o incapacità di sfruttarle, debito con i paesi industrializzati, situazioni finanziarie interne al collasso, e così via.

Al contrario il nostro paese ha raggiunto un livello di benessere tale da divenire "appetibile" per coloro che vivono in aree del mondo ancora povere, la cui povertà peraltro è spesso determinata, in buona parte, dagli stessi paesi ricchi che ne sfruttano le risorse senza dare alcunché in cambio e che, con coerenza nell'assurdità di atteggiamento, cercano di proteggere dalle migrazioni le proprie "cittadelle fortificate" con sistemi doganali, "serpenti monetari" e altro fino a spettacolari azioni di espulsione.

Il fenomeno costituito da queste imponenti migrazioni, cui abbiamo assistito e che tuttora persiste, con solo minore risonanza sulle cronache giornalistiche, ci vede quindi "oggetto del desiderio" per coloro che provengono, in particolare per il nostro caso, da paesi come Marocco, Albania, Romania, Filippine, Cina, per citare nell'ordine i primi paese d'origine degli immigrati nel 2001, ma anche dal Nord Africa, Polonia, Ucraina etc.

Peraltro, l'Italia si caratterizza, fra gli altri paesi-mèta, per l'eterogeneità delle popolazioni in arrivo che sono, chi più chi meno, nel tempo riuscite ad inserirsi nel nostro tessuto sociale, spesso andando a occupare quegli spazi (lo "scarto grasso") lasciati dagli autoctoni, finendo per svolgere un lavoro di frequente in "nero", ed a basso costo, a favore di imprese e famiglie, soggetti questi ultimi che, nonostante siano divisi fra posizioni contrapposte quali l'atteggiamento xenofobo ed il dover riconoscere, sebbene a denti stretti, che il flusso è divenuto funzionale per le proprie esigenze, necessitano di prestazioni lavorative non soddisfatte dal personale italiano.

Questa sola considerazione dovrebbe costituire un elemento fondamentale nella programmazione dei nuovi arrivi, che dovrebbe prevedere meccanismi di collocamento più agili, in collaborazione con i paesi di origine; iniziative non disgiunte, ma rafforzate, da una diversa cultura dell'accoglienza e della solidarietà caratterizzate dalla tendenza a favorire l'integrazione socio culturale senza tuttavia dimenticare la dovuta severità per chi deliberatamente non rispetta le regole.

Può essere infatti solo la programmazione a consentire di inquadrare  meglio la situazione e poterla quasi "guidare", invece di rincorrerla con i provvedimenti di regolarizzazione-sanatoria fra i quali l'ultimo, sebbene lodevole iniziativa, sta mostrando parecchi limiti ponendo in evidenza le situazioni più incredibili (dichiarazioni false, contributi fatti pagare ed a caro prezzo agli stessi regolarizzandi, tempi lunghi oltre ogni previsione, incertezza sull'esito, limiti procedurali tali da impedire anche l'adozione di possibili soluzioni di fronte ad un fenomeno che di per se è caratterizzato da una notevole mutevolezza di condizioni).

Le migrazioni, in presenza di forti

diseguaglianze sociali nel mondo, proseguiranno contro tutti i tentativi di frenarle, in fondo anche questa è "globalizzazione"; e nei confronti di costoro devono essere indirizzate le iniziative tese a favorire l'incontro, fosse anche per il solo obiettivo, minimo, di conoscere la reale estensione del fenomeno senza la quale non è possibile alcuna programmazione, in particolare in ambito socio-sanitario, e fino alle nostre stesse strategie politiche.

Oggi, anche se il fenomeno si può considerare ancora in fase iniziale per l'Italia, possiamo rilevare la presenza di immigrati che vivono da anni nel nostro paese, che hanno trovato lavoro, una casa, sono riusciti a ricongiungersi con i propri familiari, hanno perfino figli nati in Italia; le stime in merito, basate sul numero di domande di regolarizzazione presentate con la recente normativa (ca. 700.000), sommate al numero di coloro già regolari, incrementato dai "ri-congiunti", nonché da una certa componente numerica che, per i motivi più vari, resta ancora clandestina, fanno ritenere che la presenza di stranieri in Italia raggiunga e superi i 2.500.000. Di questi, molti sono ancora coloro che vivono ai margini della società e che rischiano di aumentare in misura direttamente proporzionale alle difficoltà di regolarizzazione. Eppure, con un rapporto di ca. 1 straniero ogni 25 italiani, ovvero il 3 - 4 % della popolazione, non siamo ancora ai livelli degli Stati Uniti (10 %), del Canada (16 %) o della stessa Svizzera (20 %).   

In generale, il nostro paese, nel quale la presenza maggiore di stranieri è concentrata al centro nord, è ancora oggi, quello che presenta la minore presenza di stranieri e, nel contempo, anche quello che, a causa della notevole presenza di coste, si presta a più facili ingressi al fine di potersi successivamente spostare in altri ambiti europei.

Alla fine dello scorso mese di Marzo, le Autorità sanitarie locali rilevavano, fra iscritti al Servizio Sanitario Nazionale e coloro ai quali è stata comunque prestata assistenza sanitaria, la presenza sul territorio regionale di poco meno di 15.000 stranieri; mentre le domande presentate in Prefettura in base alle modalità di regolarizzazione delle presenze, dettate dalle recenti norme in tema, sono ca. 36.500, ponendo in evidenza la Campania come una delle regioni a più forte pressione migratoria in cui, peraltro, le richieste sono, prevalentemente, di regolarizzazione per il lavoro domestico piuttosto che per quello dipendente.

Si può ormai quasi riuscire a individuare alcuni settori preferenziali di occupazione per le varie etnie, i cinesi lavorano soprattutto nel campo alimentare e di fabbricazione e rivendita di prodotti di abbigliamento, i singalesi sono i preferiti nel campo della collaborazione familiare e domestica in generale, dall'est europeo provengono coloro ai quali abbiamo affidato l'assistenza agli anziani, e dal nord Africa giunge la manovalanza agricola ed operaia di primo livello.

L'Azienda Sanitaria Locale Napoli 1, a seguito di quanto definito dalla stessa Regione Campania, ha conseguentemente strutturato alcune modalità di assistenza; oltre a confermare ulteriormente l'obbligo della erogazione delle prestazioni urgenti e/o essenziali, alle quali si affiancano quelle per l'assistenza materno-infantile, così come per la partecipazione a programmi di profilassi vaccinale, ha anche individuato alcuni ambulatori dedicati agli immigrati, in tal caso individuati con il codice STP (straniero temporaneamente presente), non in regola con il permesso di soggiorno.

Sebbene le nuove popolazioni vengano considerate alla stregua di "untori" manzoniani, vi è da rilevare che coloro che affrontano una tale avventura, proprio perché consci delle difficoltà cui vanno incontro, sono, in larga maggioranza, persone in discrete condizioni di salute.

Sono le condizioni di vita che si trovano ad affrontare, le difficoltà del viaggio, le diverse situazioni climatiche, diverse abitudini di vita, abitazioni non adeguate, assistenza sanitaria difficilmente raggiungibile, lo stesso senso di precarietà sofferto da chi è in attesa di una regolarizzazione che sembra non arrivare mai, che vanno a sommarsi all'iniziale conflitto interno di chi ha dovuto "rinnegare" il proprio paese di origine, a determinare il più facile insorgere delle patologie che, più frequentemente, sono rappresentate da ectoparassitosi, gastroenteriti, pneumopatie (fra le quali la tubercolosi).

 La migliore conoscenza epidemiologica di questo particolare tipo di popolazione consentirebbe di:

"poter approntare ed allocare al meglio le risorse sul territorio adattando, nei limiti del possibile, l'offerta alla domanda.

"adottare più facilmente misure di controllo in caso di patologie diffusive.

"realizzare interventi preventivi. 

C'è, infine, da augurarsi che il prossimo affrontare nuovamente questi temi, i prossimi incontri con gli immigrati, gli stessi interventi che si programmano per essi, non costituiscano una "ghettizzazione" della questione ma piuttosto il tentativo di cominciare un dialogo fra pari, nel rispetto della reciproca individualità e cultura, per confrontarsi pienamente e lealmente con altre realtà, un momento per scambiare le proprie esperienze, non per assimilare o per essere assimilati ma per una convivenza ed un'interazione più civili; la vera crescita infatti non sta nel rinchiudersi in se stessi (tempo fa si diceva che le istituzioni negavano se stesse) ma nell'adattare, in modo continuo, le proprie conoscenze ed i modi di vivere alle nuove situazioni; in fondo è anche nostro interesse sviluppare più adeguate modalità di accoglienza e far sì che i nuovi venuti possano sentirsi protagonisti nell'affrontare i problemi della società nella quale conviviamo. Del resto, qualsiasi altra situazione di estraneità, dove l'estraneo è tutto ciò che non può essere identificato con facilità e familiarità, può essere vissuta, nel contempo, come minacciosa ma anche dotata di fascino, come pericolosa per l'esistente ma anche come possibilità di rinnovamento.