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In questo numero

 

Il ponte della Lombardia  - settembre 2004  n. 69

 

 

Al via la nuova edizione

della Carovana antimafie

Ancora una volta in marcia

Luigi Lusenti

 

Il punto di vista

della magistratura

Mafie meno sanguinarie,

ma più pericolose

Gian Carlo Caselli

 

La strategia

delle mafie oggi

Un potere economico,

una minaccia per la regione

Enzo Ciconte

 

Nel silenzio di decenni,

l’irresistibile ascesa del crimine organizzato

"Lombardia: Terra di conquista per le mafie" 

Lorenzo Frigerio

 

Le mafie in Lombardia

L'impegno di LIBERA per la legalità democratica

Jole Garuti

 

La collaborazione tra Libera e Prefettura di Milano

Prevenzione e repressione: le ragioni del dialogo

L.F.

 

Vigevano e la lotta alle cosche mafiose

Beni confiscati e società civile

Davide Salluzzo

 

L’impegno delle istituzioni

Fiducia in una società retta da regole e da valori

Maurizio Carbonera

 

Uomini liberi” a Lodi

La frontiera del carcere

Andrea Ferrari

 

Caporali e schiavi nei grandi cantieri 

Marco Di Girolamo

Franco De Alessandri

 

Lavoro nero

e informazione

Maurizio Andriolo

 

******************

 

Il ponte 

della Lombardia

 

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, A. Celadin, A. Corbeletti, G. Falabrino, 

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

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Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

LOMBARDIA: TERRA DI CONQUISTA PER LE MAFIE

di Lorenzo Frigerio

 

 

 

Ancora oggi c’è chi si ostina a negare quella che è una verità di fatto incontrovertibile: la mafia, o meglio le mafie – vista la contemporanea presenza in Lombardia di Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra Corona Unita – è un problema che affligge ormai da decenni la nostra regione. A piccoli e misurati passi, senza troppo clamore, le mafie hanno saputo costruire lentamente una discreta capacità di controllo del territorio e dotarsi di una potenzialità in termini di forza armata e di attività illegali davvero devastante per l’ordine pubblico.

 

Una pericolosa sottovalutazione

L’espansione della presenza mafiosa è avvenuta sostanzialmente nell’indifferenza delle istituzioni e della pubblica opinione: l’ignoranza della pericolosità del fenomeno, un inconscio desiderio di rimozione, la presunzione che si trattasse di un problema delle regioni del sud sono le ragioni che stanno alla base di una mancata presa di coscienza da parte dei cittadini.

Numerosi episodi e vicende relative alle infiltrazioni mafiose sono stati raccolti e ampiamente documentati nelle inchieste del circolo e dalla rivista “Società Civile” prima e dal “Comitato di iniziativa e di vigilanza sulla correttezza degli atti amministrativi e sui fenomeni di infiltrazioni di stampo mafioso”, più  comunemente conosciuta come la Commissione antimafia del Comune di Milano, diretta da Carlo Smuraglia poi. Ebbene proprio il destino del prezioso lavoro svolto da questa commissione è la spia della sottovalutazione perlomeno colposa, se non propriamente dolosa, data al fenomeno. La relazione, datata 14 luglio 1992, non venne mai discussa in Consiglio Comunale e il testo con i documenti allegati non furono mai pubblicati.

A rendere parziale giustizia all’opera dei consiglieri comunali, pensò la Commissione parlamentare antimafia, guidata da Luciano Violante, che il 13 gennaio del 1994, approvò la relazione, redatta dallo stesso senatore Smuraglia e intitolata significativamente “Insediamenti e infiltrazioni di soggetti e organizzazioni di stampo mafioso in aree non tradizionali”. In quest’ultimo lavoro si riprendono le conseguenze ultime delle ricerche effettuate dall’organismo comunale, compreso un passaggio fondamentale: “la domanda se Milano sia sede o no di infiltrazioni mafiose in varie forme è pleonastica…trattandosi di un dato ormai incontestabile”.

Dopo le prime rivelazioni della Commissione parlamentare antimafia, sono state le indagini e i procedimenti penali promossi dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Milano a svelare affari e complicità delle più potenti organizzazioni mafiose nella regione lombarda.

 

I boss in trasferta

Ormai da quasi sei decenni, infatti, la criminalità organizzata italiana, nelle sue varie espressioni, oltre a mantenere il controllo su i territori delle regioni meridionali, ha contemporaneamente rivolto la propria attenzione ai territori che offrono le opportunità migliori di sviluppo e investimento e tra questi vi sono sicuramente il Nord Italia e la Lombardia.

Le avvisaglie di una presenza mafiosa si registrano intorno alla metà degli anni Cinquanta, con i ripetuti e cospicui investimenti nell’economia legale di “denaro sporco” e la trascurata presenza in Lombardia di Joe Adonis, Angelo La Barbera, Gerlando Alberti, Gaetano Badalamenti e altri capi di importante levatura, inviati spesso al nord con la presunzione, poi rivelatasi fallace, che recidendone i collegamenti con il territorio di origine, sarebbe stato possibile estirpare la mafia. Proprio l’istituto del soggiorno obbligato si rivela un boomerang per lo Stato, diventando nelle mani delle cosche un potente strumento per espandere il loro raggio d’azione anche al nord.

 

“A Milano e in Lombardia le varie organizzazioni mafiose sono arrivate lungo i medesimi sentieri percorsi in tutte le altre regioni del nord, al seguito dell’enorme flusso di lavoratori meridionali durante l’epoca del cosiddetto boom economico e per effetto di una legge dello Stato che pensava di spezzare i legami dei mafiosi con l’ambiente di origine inviandoli in soggiorno obbligato nei lontani comuni del nord Italia. Una quota estremamente minoritaria di mafiosa ha seguito i contadini e i disoccupati meridionali. Inoltre, durante la lunga stagione del terrorismo le forze dell’ordine e la magistratura – preoccupate da quella grave emergenza – ignorarono totalmente la presenza e l’attività dei mafiosi i quali approfittarono d questa inattesa opportunità e sfruttarono nel modo migliore l’enorme libertà di movimento per consolidare e rafforzare legami e rapporti in precedenza avviati” (E. Ciconte, Estorsioni e usura a Milano e in Lombardia, Edizioni Commercio 2000).

 

A Milano si tengono le segrete riunioni dei boss della mafia siciliana e i primi incontri di affari con alcuni imprenditori soprattutto nel settore edile, ben propensi a servirsi dei capitali della mafia per investire nel boom economico del Nord: nel 1970, in pieno centro di Milano, durante un controllo di routine, i carabinieri fermano una vettura con a bordo boss del calibro di Totò Riina, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti. Se allora fossero scattate le manette, la storia della mafia e anche del nostro paese avrebbe preso un’altra direzione. Invece bastano dei documenti falsificati ad arte per consentire ai capi emergenti della mafia siciliana di allontanarsi indisturbati.

Un altro business avviato negli anni Sessanta e Settanta è quello dei sequestri di persona che colpì a più riprese la nostra regione e i suoi abitanti, dagli esordi fino agli ultimi casi di Giuseppe Soffiantini e Alessandra Sgarella, con un ruolo di primo piano giocato dagli uomini della mafia siciliana e calabrese.

 

Tangentopoli: città aperta per i mafiosi

La presenza della mafia in Lombardia quindi è ampiamente documentata da decenni e a nulla sono valsi i tentativi di sminuirne il peso e le ripetute rassicurazioni circa la loro assenza, espresse a più riprese da diversi soggetti, politici e non: nella migliore delle ipotesi, costoro sono soltanto interessati al mantenimento del cosiddetto buon nome del capoluogo lombardo, mentre, nella peggiore, si tratta di soggetti pienamente attivi negli affari criminali e quindi dolosamente impegnati a far perdere le tracce di scomodi rapporti.

Una significativa convalida di ciò viene dalle inchieste svolte dalla magistratura milanese che hanno portato alla scoperta di Tangentopoli: dalla prima indagine di rilievo quale la “Duomo Connection” per finire a tutte le acquisizioni del pool milanese di “Mani Pulite”, è emerso con chiarezza il livello di corruzione e di collusione raggiunta tra mafiosi, politici, burocrati ed alti esponenti del mondo economico. L’estrema pericolosità delle mafie per la democrazia risiede proprio nella rete di collusioni intrecciata con soggetti della politica, delle istituzioni e dell’economia.

Secondo quanto ricostruito dai magistrati, nel corso dei decenni lo stravolgimento della normale prassi burocratica e amministrativa è stata la norma non scritta che ha permesso alle famiglie mafiose di strumentalizzare a proprio vantaggio tutta una serie di atti amministrativi, viziati tanto nel merito quanto nella legittimità. Violazione di leggi e inosservanza di procedure amministrative interne, palesi disparità di trattamento: questi gli abusi più macroscopici che, nell’edilizia e nel commercio, nell’industria e nella finanza, hanno consentito il raggiungimento di profitti ingiusti.

Le infiltrazioni mafiose nell’amministrazione sono stati funzionali all’ottenimento di una serie di atti amministrativi utili alle proprie imprese ed attività e all’accaparramento clientelare dei finanziamenti pubblici.

 

Sindona e Calvi, i precursori

In questa ricostruzione, non possiamo certo trascurare le storie ricche di ombre di Michele Sindona e Roberto Calvi, spregiudicati bancarottieri al soldo delle organizzazioni mafiose che offrono i propri servigi per riciclare i soldi delle cosche e diversificarne gli investimenti finanziari, sulla piazza di Milano. In pochi si accorgono per tempo dei pericoli insiti nelle manovre spericolate dei finanzieri d’assalto, che si muovono grazie anche alle entrature offerte dalla Loggia massonica P2 di Licio Gelli. Tra le poche voci isolate che si alzarono per denunciare i rischi deve essere senza dubbio ricordata quella dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, inflessibile commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, ucciso a Milano da un killer della mafia: un “eroe borghese” il cui profilo è stato ben delineato nel libro di Corrado Stajano prima e nel film diretto da Michele Placido poi.

Ad accomunare i percorsi professionali e umani di Sindona e Calvi è la disponibilità ad utilizzare ogni mezzo per i propri fini e in particolare le relazioni con uomini dell’establishment politico ed economico: sotto la regia dei due finanzieri senza scrupoli, Milano e la Lombardia richiamano il denaro e gli investimenti delle cosche, attirate dalle diverse possibilità di riciclaggio di denaro bisognoso di essere occultato rapidamente per farne sparire le tracce agli inquirenti.

Le parole di Francesco Marino Mannoia, collaboratore di giustizia dei più affidabili, sono senz’ombra di dubbio rivelatrici:

 

“…Lo Iacono chiese il motivo [dell’omicidio di Calvi] e Pullarà gli disse che Calvi si era impadronito di una grossa somma di denaro che apparteneva a Licio Gelli e Calò. Il Pullarà disse pure che il Calò e Gelli avevano recuperato (non disse se tutto o in parte) i soldi prima della morte di Calvi…si trattava di somme ingenti nell’ordine di decine di miliardi…avevo sentito dire da Stefano Bontate e da altri uomini d’onore della nostra famiglia che Pippo Calò, Salvatore Riina, Francesco Madonia ed altri dello stesso gruppo avevano investito somme di denaro a Roma attraverso Licio Gelli che ne curava gli investimenti e che parte del denaro veniva investito nella “Banca del Vaticano”. Di queste cose parlavo con Stefano Bontate e Salvatore Federico che erano i “manager” della nostra famiglia. In sostanza come Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo avevano Sindona gli altri avevano Gelli…anche Carboni era un canale dell’attività finanziaria di Pippo Calò. Il Pullarà mi disse che Calvi si era impadronito di decine di miliardi di Calò e Gelli, che tali somme erano state recuperate ma che ormai Calvi era inaffidabile…” (I banchieri di Dio, a cura di M. Almerighi, Editori Riuniti 2002)

Esaurite le vicende di Sindona e Calvi, anche se le risultanze processuali attualmente disponibili non sono in grado di rispondere a tutte le domande rimaste in sospeso, rimane da chiedersi quali siano oggi i finanzieri e le realtà imprenditoriali che offrono i loro servigi alle mafie per investire i propri soldi. Non è pensabile che i rozzi corleonesi abbiano movimentato da soli in questi anni l’enorme massa di denaro derivante dalle loro attività illegali. I crack di Parmalat e Cirio per finire alla recentissima inchiesta su Enipower potrebbero riservare delle sorprese in tal senso.

 

Lavanderie a buon mercato

Le possibilità fornite dai mercati finanziari e la disponibilità date da parte di certa imprenditoria hanno permesso alle mafie di diversificare i loro investimenti e di far fruttare al meglio i proventi di reati di diversa natura.

Nel corso di complesse operazioni, senza alcuna possibilità di controllo, un’enorme massa di “denaro sporco”, la cui origine criminale deve essere occultata, viene “lavata” (l’espressione inglese che viene utilizzata è “money laundering”), cioè ripulita e successivamente immessa sui mercati di tutto il mondo.

La complessa rete del riciclaggio si avvale di società finanziarie e di banche di fiducia che movimentano vorticosamente il denaro sporco, utilizzando una serie innumerevoli di scambi e operazioni fittizie, portate a termine sulle piazze finanziarie internazionali e nei cosiddetti “paradisi fiscali”, sparsi in tutto il mondo (Antille Olandesi, isole Cayman, Bahamas, Cipro, Austria, Svizzera, Lussemburgo, Nigeria): qui, al riparo di normative bancarie estremamente permissive, ingenti quantità di denaro sono facilmente ripulite e rimesse in circolazione.

Oggi il panorama è in continua evoluzione: l’arrivo dell’Euro, la finanziarizzazione dell’economia e il fatto, che grazie agli sviluppi delle reti informatiche, i mercati mondiali siano aperti ininterrottamente sono tutti fattori destinati ad accrescere le ricchezze mafiose.

Il processo di invasiva internazionalizzazione delle organizzazioni criminali può essere spiegato solo se si pensi alle possibilità di massimizzare le opportunità di profitto che vengono offerte dai mercati internazionali e, conseguentemente, di minimizzare il rischio di essere identificati e catturati e quindi di vedersi sequestrate le ricchezze illecite.

 

Le mafie nell’era della new economy

Non a caso oggi si parla di una vera e propria “economia mafiosa”, cioè un sistema basato sulla capacità delle mafie di diversificare la loro presenza, tanto sui mercati legali che su quelli illegali, giocando in proprio o per interposta persona. Denaro, intimidazione, estorsione, usura sono gli strumenti a disposizione delle cosche per imporsi in ogni attività che generi profitto.

Le imprese direttamente controllate dalla mafia o partecipate in sede di finanziamento possono contare su illimitate risorse economiche, sulla capacità di intimidazione nei riguardi dei potenziali concorrenti e, in alcune casi, sull’inosservanza delle norme a tutela dei lavoratori.

 

“In una città come Milano, ricca di traffici e di affari, con la presenza di migliaia di società di ogni tipo, tra cui in crescente aumento quelle finanziarie e nella quale solo le società import-export coprono, con le loro attività, il 60% delle operazioni complessive di tutta l’Italia, è del tutto evidente che un fortissimo interesse, per le associazioni di stampo mafioso, è rappresentato dall’inserimento nel mondo economico, negli affari, nelle finanze. La casistica, qui, è immensa e svariata e va dalle false fatturazioni, all’usura, all’acquisizione di società in stato di decozione, all’estorsione e così via. Né mancano i fenomeni che si possono definire più nuovi ed originali, come l’interessamento alle aste giudiziarie o il fenomeno che un magistrato ha definito come “scoppio delle aziende” (la metodologia è semplice: su aziende deboli, intervengono gruppi criminali organizzati che a poco a poco, con vari metodi, si sostituiscono al titolare; dopo di che, si acquistano beni e merci per valori rilevanti e rivendono anche sottocosto; l’azienda va verso il fallimento ma scompaiono anche i gruppi e i singoli soggetti che hanno operato in concreto” (La mafia al nord, Atti della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla mafia, Rubettino 1994).

 

Il salto di qualità nelle attività economiche delle organizzazioni mafiose si è compiuto con la finanziarizzazione progressiva dell’economia mondiale e il contemporaneo sviluppo dei sistemi di telecomunicazioni e della tecnologia informatica, che hanno consentito maggiore rapidità e minori controlli alle transazioni economiche da un capo all’altro del mondo, tra cui sono ovviamente comprese anche quelle di origine criminale.

Grazie anche a queste innovazioni, l’economia mafiosa, il cui fatturato annuo complessivo sfugge ancora anche alle stime elaborate con i criteri più affidabili interagisce costantemente con l’economia legale, alterandone i corretti meccanismi di funzionamento e provocandone l’inevitabile inquinamento.

La libera circolazione di persone e capitali in Europa, i processi di globalizzazione in atto da una parte all’altra del mondo offrono ai mafiosi ampie possibilità di muoversi da un continente all’altro, costruendo rapporti, patti con altri soggetti criminali.

La new economy mafiosa trova una sintesi unica qui, oggi, nella nostra regione.

 

Gli affari di sempre

Accanto ai meccanismi propri dell’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, non si può dimenticare che le attività illegali tradizionali continuano ad costituire il principale impegno delle cosche mafiose.

Dopo le stragi palermitane, è stato sostenuto che la mafia siciliana, una delle organizzazioni più temibili nel panorama della criminalità organizzata, starebbe vivendo un periodo di indebolimento relativo, causato dalla lunga lotta con lo Stato e dalla crisi della Prima Repubblica che ha minato dalle fondamenta i pilastri dell’organizzazione.

Secondo questa lettura, gli uomini delle famiglie siciliane presenti al nord non avrebbero quindi la forza per muoversi con profitto all’interno della complessa società milanese.

Purtroppo le cose non stanno così e di fronte ad un ridotto impegno dei siciliani, si è assistito all’aumento della potenza dei calabresi e all’arrivo prepotente di albanesi e nigeriani, particolarmente attivi nello spaccio di sostanze stupefacenti e nel controllo della prostituzione.

In Lombardia, nel decennio scorso, sono stati arrestati e processati più di tremila affiliati a cosche mafiose: una cifra complessiva di gran lunga superiore a quelle che si registrano nello stesso periodo in realtà a tradizionale insediamento mafioso come Palermo e Napoli.

La Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, dopo Napoli, è stata quella che ha il più elevato numero di collaboratori di giustizia per i quali è stata richiesta l’ammissione al programma di protezione. I cosiddetti “pentiti” utilizzati nell’ambito delle inchieste milanesi a partire dalla fine del 1992 e dall’inizio del 1993 a tutt’oggi sono circa 150.

Sono loro che hanno permesso la ricostruzione del progressivo impiantarsi delle cosche in Lombardia e hanno fornito la descrizione delle alleanze tra le diverse mafie e la mappa dei gruppi ancora oggi dominanti. Sono sempre loro che con le loro confessioni, messe a verbale nell’ambito di quasi una quarantina di inchieste, hanno consentito alle forze dell’ordine e alla magistratura di arrestare e processare quasi tremila aderenti alle cosche mafiose.

Oggi, stando alle dichiarazioni rese ufficiosamente da alcuni importanti magistrati milanesi, lo Stato avrebbe “scaricato” i collaboratori, sottoponendoli ad una serie di restrizioni tanto vessatorie da far pensare che, di fatto, non si voglia più incentivare, ma anzi scoraggiare la rottura dell’omertà mafiosa.

La fase di stallo che attualmente interessa le inchieste della DDA milanese è stata del resto ammessa, con toni di preoccupazione, proprio all’inizio del 2003 dall’allora Procuratore della Repubblica Gerardo D’Ambrosio.

 

“Va evidenziata la notevole contrazione delle indagini per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. (associazione di tipo mafioso N.d.R.) risultando iscritti solo 3 nuovi procedimenti per detto reato. Questo dato potrebbe anche essere attribuito all’intensa attività posta in essere da questa D.D.A. negli anni pregressi, che ha consentito sicuramente di sgominare gran parte delle associazioni mafiose già operanti sul territorio; si impone peraltro particolare cautela nella sua interpretazione, non potendosi certamente affermare la avvenuta totale eliminazione di siffatto fenomeno criminale, di cui si appalesano invece inquietanti segnali nel campo del cd. “narcotraffico”. Va allora evidenziato che tale contrazione appare contestuale a quella dei nuovi collaboratori di giustizia, secondo un fenomeno che appare ormai inarrestabile; il dato statistico appare infatti di palese evidenza in quanto, a fronte di 214 complessive proposte di ammissione a programma di protezione avanzate da questa D.D.A. dalla sua costituzione, solo 1 risulta presentata nel periodo 2001-2002” (G.D’Ambrosio in Inaugurazione anno giudiziario, Corte d’Appello di Milano, 2003).

 

Crocevia dei traffici di droga,

armi ed esseri umani

Dalle inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia effettuate nello scorso decennio, emerge un dato ancora oggi pienamente valido: Milano è uno dei crocevia europei più importanti per il narcotraffico. Le mafie italiane hanno da tempo rinunciato ad ogni conflittualità, arrivando finanche a stipulare un vero e proprio patto.

Lo dimostra la non belligeranza in atto da oltre un decennio: gli ultimi scontri risalgono alla fine del 1991, in coda alla guerra di ‘ndrangheta, scoppiata qualche anno prima a Reggio Calabria tra gli Imerti - Condello da un lato e i De Stefano - Libri e Tegano dall’altro.

Passano dalla Lombardia la gran parte delle rotte degli stupefacenti: la cocaina arriva dal Sudamerica, tramite la Spagna; dal Marocco giunge l’hashish, mentre dall’Albania, tramite la Puglia, passa la marijuana. Da ultima, le qualità migliori di eroina continuano a venire dalla “Mezzaluna d’oro” (Pakistan, Iran, Afghanistan) e dal “Triangolo d’oro” (Laos, Cambogia e Thailandia), nonostante i conflitti nei Balcani abbiano imposte nuovi percorsi e nuovi accordi con le organizzazioni criminali che controllano il territorio. A Milano quindi si fissa il prezzo della maggioranza delle sostanze stupefacenti per l’Italia e il nord Europa.

Altrettanto redditizio è il traffico di armi, nato a margine di quello delle sostanze stupefacenti e oggi pienamente autonomo, vista l’accresciuta domanda di armamenti leggeri e pesanti.

La crisi dei Balcani, ancora oggi focolaio di conflitti locali e persino la minaccia mondiale portata dal terrorismo islamico sono state occasioni di business dai quali le mafie italiane hanno ricavato forti introiti con minimo dispiego di energie. La caduta dei regimi comunisti, inoltre, ha causato una forte disponibilità di materiale strategico e di armi nucleari e non convenzionali che, passate dal controllo statale a quello della mafia russa, sono a disposizione del miglior offerente all’interno di un mercato in notevole via d’espansione.

Negli ultimi due decenni le mafie operanti in Lombardia hanno impegnato risorse sempre più rilevanti nel commercio internazionale di esseri umani che, ridotti in schiavitù sono costretti a lasciare la propria terra.

Donne e bambini, provenienti dal sud est asiatico e ora dai paesi dell’est europeo, vengono avviati alla prostituzione oppure immessi nel circuito della pedofilia, creando così un ingente giro di affari. Negli ultimi anni sembra che il mercato della prostituzione a Milano e nel suo hinterland, ma anche nel resto della regione, sia stato lasciato nella disponibilità di albanesi e nigeriani. Gli italiani preferiscono utilizzare la rete delle prostitute gestite da altri criminali soltanto per controllare il territorio, senza dare nell’occhio, lasciando le incombenze pratiche alle mafie straniere.

Il dramma dell’immigrazione viene poi sfruttato per alimentare il lavoro nero: uomini di ogni nazionalità lavorano sotto il controllo della mafia, senza diritti o garanzie, in condizioni disumane. Ultimamente nella nostra regione sono stati scoperti alcuni laboratori clandestini dove cinesi o cittadini di altra nazionalità sono obbligati a cottimi defatiganti, abbruttenti e sottopagati.

 

Una diffusione a macchia d’olio

La conferma della pericolosità delle mafie per la Lombardia è venuta dalle indagini degli ultimi dieci, dodici anni che hanno innanzitutto dimostrato che nella nostra regione agiscono diverse mafie: dalla siciliana alla campana, alla pugliese, per finire a quella più organizzata e temibile, la ‘ndrangheta calabrese, così radicalmente infiltratasi, da esercitare un ruolo di predominio sulla piazza milanese.

Alle mafie più conosciute si sono unite ultimamente anche alcune associazioni composte da stranieri, per lo più russi, slavi, albanesi e nigeriani che si sono ritagliate ampie fette di mercati illeciti, d’accordo con i mafiosi italiani.

 

“Negli ultimi anni, inoltre, si è via via rafforzato un processo di una più funzionale integrazione tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta che attraggono nella loro orbita Camorra e Sacra corona unita. Sempre di più si sviluppano al nord le doppie affiliazioni non solo tra gli appartenenti a Cosa Nostra e alla ‘Ndrangheta, ma anche alla Camorra e alla Sacra corona unita. Sempre di più, inoltre, si infittiscono rapporti, relazioni, contatti, cointeressenze economiche in massima parte tra mafiosi siciliani e calabresi, ma non mancano certo i mafiosi campani e quelli pugliesi, sebbene risultino in netta inferiorità numerica. È difficile oramai trovare al nord organizzazioni composte da soli siciliani o da soli calabresi. Basata scorrere l’elenco degli imputati, a volte molto numerosi, davanti alle varie sezioni dei tribunali milanesi e lombardi per notare come oramai ci sia una varietà di presenze regionali. Ci sono calabresi, siciliani, pugliesi, campani; e poi ci sono i milanesi e i lombardi in numero elevato, sia quelli di antica origine, sia quelli di più recente acquisizione come i figli degli immigrati che oramai hanno certificati di nascita dove sono scritti non più i luoghi di comuni calabresi ma di quelli lombardi, pur essendo figli di mafiosi calabresi; infine, in questa varietà di rappresentanze non potevano mancare alcune presenze significative di altre regioni italiane” (E. Ciconte, cit.).

 

Fin dall’inizio della sua storia e pur nella diversità delle singole realtà in cui si è trovata ad agire, la mafia si è sempre presentata come una particolare associazione criminale che, grazie all’esercizio della violenza e alla forza dell’intimidazione derivante, ha avuto come obiettivi prioritari l’acquisizione del potere politico ed economico e la massima realizzazione di profitti.

Queste caratteristiche peculiari, che per decenni sono valse ad identificare la mafia siciliana, oggi valgono in pieno per le altre mafie, quelle cosiddette “emergenti”; basti pensare, infatti, alla potente mafia russa, particolarmente attiva in Emilia Romagna, ma anche in Lombardia.

 

Silenzi e verità

Se questo è il quadro a tinte fosche con il quale abbiamo a che fare, occorre ribadire la necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi dell’infiltrazione mafiosa, superando la tradizionale indifferenza e la conseguente scarsa attenzione della stampa, per dotarsi di strumenti di analisi e di conoscenza.

Bisogna però essere coscienti delle difficoltà che si possono incontrare, in quanto si deve fare i conti con una storica incapacità di leggere la realtà e di scorgere i segni della presenza mafiosa: ancora nel 1992 il Procuratore Generale di Milano diceva che la mafia non esisteva solo perché non vi erano processi in corso per l’art.416 bis del Codice Penale.

I rischi sono davvero alti; solamente negli ultimi anni le mafie proprio a partire dalla piazza di Milano hanno sperimentato nuove modalità di collaborazione che, se non opportunamente investigate e contrastate, potrebbero rivelarsi estremamente devastanti.

 

“Per quanto concerne, invece, le organizzazioni mafiose nazionali operanti sul territorio di questo distretto va segnalata la costante attività di associazioni criminali prevalentemente calabresi di natura “ndranghettistica” nonché di cosche “mafiose” siciliane; in misura minore operano invece associazioni “camorristiche” campane, ed un gruppo riconducibile alla “sacra corona unita”. Tali associazioni operano prevalentemente nel settore del traffico di sostanze stupefacenti in particolare eroina e cocaina, sia in proprio che in collaborazione con gruppi di etnia straniera, dedicandosi peraltro anche ad altre attività criminali di notevole rilevanza quali il traffico di armi, l’usura e l’estorsione nonché l’attività di riciclaggio del denaro provento di reato mediante reimpiego in svariate attività economiche, quali (1) costruzioni edilizie e settore immobiliare; (2) autorimesse e commercio di automobili; (3) bar e locali di ristorazione; (4) sale di videogiochi; (5) stoccaggio e smaltimento dei rifiuti; (6) discoteche, sale da ballo, “night clubs” e simili; (7) società di trasporti; (8) distributori stradali di carburante; (9) servizi di facchinaggio e di pulizia; (10) aggiudicazione di appalti; (11) finanziamenti pubblici e comunitari” (Vitiello in Inaugurazione anno giudiziario, Corte d’Appello di Milano, 2003).

 

A fronte di organizzazioni criminali che perseguono sempre una più profonda integrazione, si oppone una totale mancanza di informazioni e l’isolamento delle forze dell’ordine, non sufficientemente supportate da una pubblica opinione attenta e disposta a giocare il proprio ruolo.

È per questo che lo scorso anno, durante l’edizione 2003 della Carovana antimafie, Libera, Arci e Avviso Pubblico si sono incontrate con tutti i prefetti e i responsabili delle forze dell’ordine.

Oltre alla solidarietà per il lavoro svolto nel contrastare le mafie e l’illegalità, questi incontri sono serviti per discutere delle infiltrazioni mafiose in Lombardia.

Al termine dell’incontro tenutosi nella Prefettura di Milano, gli organizzatori della Carovana e le forze dell’ordine hanno emesso un comunicato stampa congiunto per denunciare il patto di spartizione dei mercati illeciti in atto a Milano e nella regione, suggellato da una pax mafiosa senza precedenti. Alla base della denuncia, la consapevolezza che “Il bisogno di sicurezza è maggiormente percepito del bisogno di legalità e questo può indirettamente comportare il rischio di non vedere o sottovalutare fenomeni di criminalità organizzata, che sono comunque un presupposto per l’affermazione della delinquenza urbana”.

Un grido d’allarme così qualificato è stato di fatto totalmente ignorato dalla stampa, impedendo nei fatti che l’opinione pubblica fosse informata dei processi criminali in atto.

 

Che fare allora?

L’impegno di Libera si sviluppa in un percorso di impegno civile che nasce dalla consapevolezza che per battere le mafie e la corruzione sia necessario investire, al di là dell’azione repressiva, sulla prevenzione, promovendo una antimafia dei diritti e delle opportunità.

Sono tre gli ambiti essenziali nei quali Libera si muove: la prevenzione, l’utilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia e l’informazione e la cultura.

Per quanto riguarda la prevenzione, questa significa essenzialmente un forte impegno per l’educazione alla legalità nelle scuole. La nascita di Libera ha significato il moltiplicarsi di una intensa attività di formazione per insegnanti e studenti nelle centinaia e centinaia di corsi organizzati fin dalla sua fondazione in tutta Italia.

Fin dalla sua costituzione uno dei primi obiettivi di Libera è stato quello di colpire il sistema economico creato dalla criminalità organizzata, puntando alla confisca dei beni ai mafiosi e all’utilizzo degli stessi all’interno di progetti in favore dei cittadini.

Nel 1995 fu promossa una petizione popolare per chiedere che venissero emanate nuove norme per contrastare la mafia proprio a partire dalle ricchezze illegalmente percepite. Un milione di firme costituì il risultato straordinario e senza precedenti nella storia del nostro paese: venendo incontro ad una richiesta così pressante il Parlamento giunse in tempi rapidi all’approvazione della legge 109 del 7 marzo 1996. Il complesso delle norme regola la restituzione alla collettività delle ricchezze accumulate illegalmente dalle mafie.

Grazie a questa normativa, a Corleone è stato possibile utilizzare la villa dei prestanome del boss mafioso Totò Riina per realizzarci la sede dell’istituto tecnico agrario. Sui terreni confiscati ai boss mafiosi, da anni ormai alcune cooperative lavorano e producono grano, vino, olio e altri prodotti che dimostrano come il cambiamento sia possibile.

Certo, lo scarto tra il volume d’affari delle mafie e quanto viene loro effettivamente confiscato rimane ancora troppo ampio, e in molte regioni questi meccanismi non sono stati attivati pienamente , come in Lombardia, dove i significativi risultati ottenuti a Vigevano e a Galbiate, devono diventare la norma e non l’eccezione.

Nel campo dell’informazione e della cultura, gli strumenti sono i più diversi, dall’organizzazione di incontri e dibattiti di approfondimento, alla rivista Narcomafie e Macramè.

Certamente il rischio è di essere tacciati per velleitari, a fronte delle disponibilità delle organizzazioni criminali, ma si tratta di un compito irrinunciabile cui la società civile deve far fronte, organizzando le proprie energie migliori. La prevenzione è assolutamente necessaria; non basta, infatti, la sola repressione per sconfiggere il cancro mafioso.

Tuttavia occorrono anche scelte politiche all’altezza. Affermare oggi il necessario primato della politica non deve significare chiedere ai giudici che hanno fatto il loro dovere di fare un passo indietro; è la politica che deve fare un passo avanti.

 

 

 

L'IMPEGNO DI LIBERA PER LA LEGALITA' DEMOCRATICA

 

di Jole Garuti

 

Chi chiede a un abitante della Lombardia se in questa regione esiste la mafia, si sente quasi sempre rispondere che la mafia è altrove, nel Mezzogiorno d’Italia o in paesi stranieri. Se in qualche località della regione si verificano episodi di violenza criminale, l’uomo della strada ritiene che siano opera di bande provenienti da fuori. Non a caso Giovanni Falcone nell’intervista di Marcelle Padovani (Cose di Cosa Nostra, pag.83) aveva detto “la tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci paiono diversi dai nostri”.

Quando poi si dimostra al cittadino ignaro, dati alla mano, che Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita sono in Lombardia da decenni, e che negli ultimi anni sono arrivate qui anche tutte le organizzazioni mafiose straniere, in particolare la mafia russa, cinese, albanese, il suo stupore è grande. Ma dopo lo sorpresa iniziale il commento è che però non sparano, quindi anche se sono qui possiamo non averne paura. Risulta così vincente la strategia adottata dopo le stragi del ’92 -’93 da Cosa Nostra e dalle altre organizzazioni mafiose: non organizzare stragi ma infiltrarsi subdolamente nelle attività economiche e spartirsele a priori per evitare di provocare il panico nella popolazione e la reazione repressiva dello Stato.

 

Mafie e corruzione in Lombardia

La Lombardia, si sa, è una regione ricca, dotata di infrastrutture importanti per le comunicazioni con l’estero (l’aeroporto intercontinentale di Malpensa) e soprattutto sede della Borsa, indispensabile per riciclare il denaro guadagnato illegalmente. Quando si portavano i soldi all’estero a spalla era importante avere basi qui per la vicinanza al confine, perciò le strade che portano alla Svizzera hanno visto radicarsi qua e là nuclei di presenze mafiose.  Ma la Lombardia è anche il teatro di Tangentopoli, ovvero della corruzione ai più alti livelli, quella che non si fa scrupolo di trattare con la mafia. Ha il suo eroe antimafia, Giorgio Ambrosoli, l’avvocato integerrimo ucciso da un sicario del banchiere Sindona venuto apposta dall’America. I collegamenti con l’alta politica (Sindona era protetto da Andreotti) sono sempre stati molto stretti. Si può obiettare che a Milano ci sono anche – come altrove ma certo più che in altre città d’Italia - magistrati determinati a combattere la corruzione e le mafie, ma alcune leggi emanate dal Parlamento negli ultimi anni hanno avuto l’effetto di rallentare e in alcuni casi addirittura impedire l’azione di contrasto della magistratura. Le indagini su Enipower di agosto 2004 dimostrano inequivocabilmente che la corruzione dilaga nell’economia e nella finanza italiana oggi come prima di Mani  Pulite.

Negli anni ’70 e ‘80, all’epoca dei sequestri di persona, le organizzazioni criminali avevano trovato alleanze nella mala lombarda; l’insano provvedimento del ‘confino’ aveva infatti contribuito non poco a inserire in alcune tranquille cittadine boss pericolosi, che vi hanno trovato amicizie e collegamenti e messo radici. Interi quartieri periferici di Milano sono stati teatro di violenze mafiose. Luciano Liggio è stato arrestato in via Ripamonti, Tano Badalamenti, Totò Riina, Joe Adonis (l’amico di Toni Renis) hanno vissuto tranquillamente nella metropoli. Nelle carceri della Lombardia vi sono stati a volte – durante l’ultimo decennio - più detenuti per mafia che non a Palermo. Merito della magistratura e delle forze dell’ordine, certo, ma anche dimostrazione della massiccia presenza di mafiosi in Lombardia.

Segni inequivocabili di tale presenza sono l’alto numero di beni confiscati a personaggi condannati per reati di mafia, tanto che la Lombardia è la quinta regione italiana per il numero e il valore dei beni confiscati ai mafiosi e destinati all’utilizzo sociale previsto dalla legge 109/96.

 

La mafia invisibile

In tutto il Nord Italia le mafie non sono facilmente visibili perché non controllano il territorio in modo massiccio, totalizzante, come accadeva e talvolta accade ancora in certe aree del Mezzogiorno. La molteplicità delle attività economiche permette l’inserimento delle organizzazioni criminali in attività lecite, inquinando e riducendo la libera concorrenza. Usano il denaro invece del mitra per attrarre consulenti finanziari, commercialisti e per far chiudere un occhio a qualche direttore di banca negli uffici ovattati del centro o della periferia. E’ la mafia dei colletti bianchi. Occorre pazienza e costanza per snidare gli intermediari che, pur non organici rispetto alle associazioni mafiose, si mettono a loro disposizione per veicolare il denaro sporco dentro operazioni legali o per candeggiarlo e renderlo legalmente utilizzabile attraverso rimbalzi finanziari da una banca all’altra, da un conto estero ad un altro. La sciagurata idea del ministro Tremonti dello scudo fiscale, che ha permesso di reimportare i capitali esportati illegalmente pagando soltanto una tassa del 2,5% e mantenendo l’anonimato per tre anni, può essere definita un gigantesco riciclaggio alla luce del sole che ha reso le organizzazioni mafiose più ricche e forti. I nostri governanti, sia livello cittadino che nazionale, si preoccupano soprattutto della piccola criminalità e accusano gli extracomunitari, invece di capire che se non si eliminano le organizzazioni mafiose la microcriminalità continuerà ad autorigenerarsi, per quanti colpi possa ricevere dalle forze dell’ordine. Un episodio milanese su cui riflettere: la richiesta di nominare una commissione sulla mafia presentata nel 2000 dai Consiglieri d’opposizione al Consiglio Comunale di Milano non è stata neppure messa ai voti.

 

Le mafie sono molto abili: i settori di attività vengono continuamente modificati e aggiornati secondo la redditività e i minori rischi: se ieri prevalevano i sequestri di persona e le estorsioni, oggi prevalgono i traffici di esseri umani, il controllo della prostituzione e del lavoro nero, il traffico dei rifiuti, oltre naturalmente al solito commercio e spaccio di droghe e di armi. Quando il doping si è diffuso in tutti gli strati sociali, le organizzazioni criminali sono diventate subito protagoniste anche in quel settore.

Nelle regioni dove la mafia è radicata gli abitanti sanno che devono scegliere da che parte stare, se dalla parte dello Stato o da quella delle cosche; in Lombardia invece ci si può illudere di vivere in un territorio tranquillo, dove casa e lavoro danno un sicuro benessere. La necessità di scegliere tra illegalità e legalità non viene avvertita, e l’azione di contrasto e di prevenzione è di conseguenza più difficile.

 

Il modello consumistico favorisce indirettamente i comportamenti illegali, in quanto suggerisce che le persone siano valutate per quello che possiedono in oggetti, abiti, disponibilità di denaro, potere, piuttosto che per quello che sono o sanno o sanno fare. Troppi giovani si lasciano affascinare dalla pubblicità veicolata dai media, correndo il rischio di mirare a modelli inarrivabili e di essere perennemente infelici. La necessità di disporre di molto denaro per vivere a standard elevati alimenta - a tutte le età - la corruzione, favorisce gli intrighi e i traffici illegali. Come si può ottenere allora una prevenzione capillare, che fornisca ai cittadini informazioni sui metodi e sulle attività delle organizzazioni criminali e dia loro la capacità e la voglia di scegliere un percorso di vita libero da lusinghe ingannevoli?

 

Il lavoro nero e il Protocollo di Libera

In Lombardia il lavoro non manca, quindi la scelta di un’attività economica legale è  possibile per i cittadini. Ma occorre essere sempre molto attenti, tenere gli occhi aperti, soprattutto nei settori in cui si lavora senza contratto, a giornata. Il lavoro interinale proprio perché temporaneo rischia di favorire il lavoro illegale. Ed è bene ricordare che gli stratagemmi per ottenere appalti e subappalti fanno sì che organizzazioni di stampo mafioso siano presenti alla grande nel settore dell’edilizia. Nella Lombardia del mattone il lavoro nero esiste in modo significativo, come dimostra l’alto numero di incidenti avvenuti nel primo giorno di lavoro.

A Gela il 21 marzo 2004, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno, è stato firmato fra le organizzazioni sindacali confederali  e Libera un Protocollo contro le illegalità nel lavoro, che vale la pena di conoscere anche in Lombardia, pur se il contesto è diverso. I punti validi anche per la Lombardia non sono pochi né di scarso rilievo. A cominciare dalla premessa, dove si osserva – tra l’altro - che “per creare una comunità alternativa alle mafie occorre affiancare alla necessaria opera di repressione svolta dall’autorità giudiziaria e dalle forze dell’ordine una politica per lo sviluppo sostenibile, per la qualità dei sistemi produttivi, per la valorizzazione dei saperi, delle esperienze e delle professionalità dei lavoratori che vada di pari passo con un’attività di prevenzione e di educazione alla legalità, ai diritti e alla cittadinanza”. Il Protocollo ritiene necessarie

analisi precise e puntuali, denunce mirate senza sconti per nessuno, una più stretta collaborazione fra mondo sindacale e mondo del volontariato, la globalizzazione dei diritti e della giustizia sociale e una maggiore attenzione verso i soggetti più deboli, chiede di privilegiare la crescita della cultura della legalità e lo sviluppo piuttosto che l’aspettativa di ulteriori sanatorie, propone la revisione della normativa relativa alle opere pubbliche e agli appalti per impedire la penetrazione della criminalità in questo mercato, per stroncare il fenomeno del caporalato, ancora presente nell’agricoltura e nell’edilizia, l’usura e il racket. Di particolare importanza anche l’impegno per l’eliminazione dello sfruttamento del lavoro minorile e per la piena attuazione della Carta degli impegni per i diritti dell’infanzia firmata tra Governo e parti sociali ne1998: essa prevede interventi di sostegno alle famiglie e di recupero per i ragazzi che fanno più fatica a scuola.

Lo slogan del 21 marzo 2004 “No al lavoro nero, sì al lavoro vero” si salda così senza soluzione di continuità con un altro bellissimo slogan di Libera, “Occhi aperti per costruire giustizia”.

 

La scuola ha il dovere dell’antimafia

Che fare nella scuola? Anzitutto – ovviamente - conoscere, studiare, capire. Solo chi conosce i metodi e i settori di attività delle organizzazioni criminali è in grado di scegliere consapevolmente di non cadere nella loro rete, né di contribuire ai loro guadagni illeciti: la cultura diventa quindi un ottimo antidoto, il fondamento di un’azione di contrasto che i cittadini possono fare senza armi, in piena sicurezza. L’uguaglianza dei diritti (e dei doveri) è un valore che i giovani comprendono perfettamente e sentono come indispensabile per avere uguali possibilità di agire nella società, per studiare e lavorare senza handicap dovuti alle condizioni socio familiari di nascita. Ma anche verso la collettività i giovani sono pronti a partecipare e impegnarsi: il miglioramento della qualità di vita di tutti nella società, il sostegno ai più deboli e sfortunati è un obiettivo che molti di essi si pongono con generosità e determinazione.

“La mafia è un fenomeno umano, e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine” ha detto Giovanni Falcone. Per affrettarla occorre da un lato un’azione repressiva costante e approfondita, condotta dalle Istituzioni senza tregua, dall’altro il rifiuto dei cittadini di modelli egoistici, basati sull’arrivismo e sulla prepotenza o anche sulla corruzione e la violenza.

La scuola ha il dovere istituzionale di prevenire il coinvolgimento dei giovani in ambienti illegali, informandoli su quali sono e su come si sviluppano e si evolvono le attività criminose. E ha il dovere di educare i giovani ad essere responsabili delle loro scelte. La scuola ha cioè il dovere dell’antimafia. Attraverso gli studenti si può anche arrivare a sensibilizzare – indirettamente o direttamente – i genitori, il che è particolarmente importante e può generare mutamenti positivi nella collettività.

Un significativo contributo alla scuola antimafia è stato dato nel 1993 con la circolare 302/93 “Educare alla legalità” dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Rosa Russo Jervolino, alla quale ha fatto seguito il volume Dossier mafia, preparato in collaborazione con la Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Luciano Violante. Grande è stata la diffusione del volume nelle scuole di tutta Italia ad opera dello Sportello per le scuole e le associazioni di volontariato, creato presso la stessa Commissione. Dopo un lungo intervallo, nel 2000 la Commissione Antimafia, sotto la presidenza di Giuseppe Lumia, ha pubblicato un altro volume, Conoscere le mafie, costruire la legalità, che contiene le caratteristiche delle varie organizzazioni mafiose italiane e straniere e tratta ampiamente argomenti come usura e racket. Nulla di tutto ciò nell’attuale legislatura. Anzi, è stato addirittura chiuso lo Sportello scuola e volontariato.

 

L’attività di Libera nella scuola

Alla carenza dell’azione ministeriale ha fatto da contrappeso un lavoro ampio e ricco di progettualità ed esperienze importanti, attuato dalle associazioni di volontariato. Libera è nata nel 1995 come network di associazioni che agiscono in settori diversi, dallo sport all’ambiente, dalla pace al lavoro alla giustizia, ma sono unite dal comune obiettivo di costruire una società più giusta e più rispettosa della dignità dei cittadini, dei loro bisogni,dei loro diritti. Educare alla legalità non significa educare all’obbedienza acritica. Libera aggiunge infatti alla parola legalità l’aggettivo democratica, per indicare che legalità significa rispetto e difesa degli uguali diritti dei cittadini e significa soprattutto consapevolezza della necessità di impegnarsi per realizzare i valori scritti nella Costituzione repubblicana.

Nel corso degli anni Libera ha moltiplicato le proprie iniziative e la propria attività nelle scuole di ogni ordine e grado, organizzato corsi di aggiornamento per docenti e progetti didattici per gli studenti sui temi della legalità democratica, della cittadinanza, della convivenza pacifica. Familiari di vittime, magistrati e poliziotti coraggiosi, persone come Saveria Antiochia, Nino Caponnetto, Rita Borsellino e Don Ciotti hanno percorso più e più volte la penisola per incontrare migliaia e migliaia di giovani desiderosi di far propria la cultura della legalità ascoltando chi ha vissuto sulla propria pelle la lotta contro il crimine.  Le attività didattiche in concreto variano dai questionari ai film, dal teatro ai dibattiti, dalle ricerche-azioni alle ricerche documentarie e storico-letterarie, dai gemellaggi ai viaggi di studio.

In Lombardia come nelle alte regioni vi sono scuole che lavorano intensamente e continuativamente sul tema della educazione alla legalità, ma a volte è sufficiente il trasferimento di un preside o di alcuni insegnanti perché si debba ricominciare tutto da capo. Un impulso dall’alto sarebbe importante anche nella scuola dell’autonomia. Occorrono metodologie capaci di coinvolgere emotivamente e razionalmente i giovani e di sensibilizzarli, di produrre dibattiti e discussioni; per questo sono utilissimi film straordinari come “I cento passi”, i documentari sui beni confiscati, ma anche i piccoli spot del Marano Spot Festival, che fanno riflettere su vari aspetti della vita quotidiana.

La regione Toscana ha dato vita a un Centro Documentazione per la Legalità democratica al quale tutti possono rivolgersi per avere informazioni bibliografiche o idee di progetti da realizzare. Fornisce bibliografie, rassegne di film, progetti già sperimentati. Oggi poi c’è Internet, sul quale si possono davvero trovare tutte le notizie che si desiderano. L’ignoranza non è più ammessa. Per chi preferisce il cartaceo vanno segnalate due riviste, pubblicate dalle Edizioni del gruppo Abele e promosse da Libera: Narcomafie analizza e approfondisce vicende particolari e fatti storici, Macramè è pensata per la scuola, è caratterizzata da linguaggi e immagini, articoli e forum di e per gli studenti. Le scuole materne ed elementari hanno un loro specifico progetto, L’Alfabeto del cittadino, l’Università viene sollecitata ad assegnare tesi di laurea su vicende storiche ed economiche di mafia. Il grande vantaggio di appartenere ad una associazione nazionale è che si possono contattare docenti e scuole di ogni regione per gemellaggi, scambi, informazioni, senza dover ricominciare ogni volta da capo.

Si potrebbe fare di più e meglio se ci fossero finanziamenti adeguati, ma di recente le scuole statali si sono viste ridurre –sappiamo bene come e perché - le loro potenzialità economiche. In sei regioni italiane esiste una legge regionale che finanzia progetti di educazione alla legalità. Sarebbe ora che anche la Lombardia ne promuovesse una simile.

 

La Carovana Antimafia è una grande opportunità, è un importante momento di raccordo che esalta le iniziative dove si è fatto molto o suscita energie positive in città e paesi nuovi a questa attività. Ogni anno crescono le sponsorizzazioni e aumentano le richieste di partecipazione. Quest’anno abbiamo anche il patrocinio della Regione Lombardia. Auguriamoci che diventi l’inizio di una collaborazione istituzionale attiva con la Carovana e con le associazioni che la organizzano, Arci, Libera e Avviso Pubblico, nella speranza di rendere più vicino il momento in cui si potrà dire: in Lombardia c’era una volta la mafia.

 

 

 

Caporali e schiavi nei grandi cantieri

 

di Marco Di Girolamo e Franco de Alessandri

 

Nel mese di marzo, grazie alla coraggiosa denuncia di alcuni lavoratori marocchini, i carabinieri sono riusciti ad arrestare in flagranza di reato un caporale dipendente di una delle aziende subappaltatrici dei lavori di costruzione del nuovo polo fieristico Rho-Pero (Milano), mentre intascava la tangente imposta sul salario dei lavoratori addetti. Il fatto, per la sua spettacolarità, ha guadagnato l’attenzione della stampa per un giorno. I giornali, increduli, ne hanno parlato come si trattasse di fenomeno straordinario (Corriere della Sera, Lombardia 15-3 us).

Ma il fenomeno del caporalato, come tutti sanno, è diffusissimo, interessa la maggior parte dei tanti cantieri in ogni angolo del Paese.

Sono ormai decine i casi di caporalato segnalati dalle organizzazioni sindacali nei grandi cantieri edili, che coinvolgono sia manodopera italiana che extracomunitaria. Negli episodi rilevati, il caporale chiede una quantità di denaro al lavoratore in cambio di un posto di lavoro, con due diverse modalità:

 

- il lavoratore riceve la busta paga e da al caporale denaro contante, circa 200/300 euro al mese

- il lavoratore lavora 200 ore/mese, il caporale consegna al lavoratore la busta paga con 130/140 ore mese, la differenza viene trattenuta dal caporale.

Oggi il “caporalato” non è normato dal nostro ordinamento, ovvero, non esiste un regime sanzionatorio di carattere penale. Gli episodi della Fiera di Milano sono inquadrati come “estorsione” del caporale nei confronti del lavoratore, quindi come Organizzazioni Sindacali dobbiamo proporre al legislatore di normare l’evento.

I lavoratori non hanno efficaci strumenti per combattere il “racket delle braccia” e lo schiavismo perché la manodopera, soprattutto quella “extracomunitaria” è molto ricattabile (precarietà del rapporto di lavoro, necessità di dover lavorare a prescindere dalle condizioni contrattuali e normative).

L’attività “repressiva” da parte degli organi preposti (Ispettorato del lavoro, Ispettori Inps, Ispettori Inail, ASL, Intendenza di Finanza, Direzione Investigativa Antimafia – DIA, Carabinieri ecc.) è indispensabile per ripristinare la legalità all’interno dei cantieri. Il fenomeno del “caporalato” e del lavoro irregolare nei cantieri edili ha assunto dimensioni tali in provincia di Milano e nell’insieme del territorio nazionale che per un adeguato lavoro “investigativo” e “repressivo” sarebbe necessario un potenziamento quantitativo e qualitativo delle autorità preposte ai controlli, viste le caratteristiche dell’unità produttiva “cantiere”, con l’attuale organico ci vorrebbero circa 7 anni per intervenire una volta in ogni singolo cantieri della provincia di Milano.

Come organizzazioni sindacali abbiamo avanzato una serie di proposte che qui elenchiamo:

 

-  soluzioni di natura “pattizia” ovvero, accordi in sede di Prefettura tra le parti sociali che prevedano nei contratti di appalto la rescissione dello stesso in presenza dei fenomeni sopra elencati (caporalato, estorsione, ecc.) favorendo percorsi per la collocazione dei lavoratori con l’appaltatore e/o con il subentrante. Dovranno essere estesi ai committenti pubblici e privati.

 

- Chi appalta deve vigilare: ci riferiamo in particolare ai committenti, siano essi pubblici o privati, in particolare sulla scelta delle aziende di subappalto con criteri di scelta che non facciano esclusivo riferimento ai costi.

 

- Effettuare controlli mirati sul fenomeno del caporalato a partire dai grandi cantieri milanesi e della regione da parte degli organi preposti in accordo con le forze dell’ordine.

- Informazione e assistenza dei lavoratori (anche di carattere legale) in particolare alle fasce più deboli e ricattabili (lavoratori extracomunitari). In questo senso è stato avviato un confronto presso le Prefetture per dare concretezza agli obiettivi sopra elencati, sperando che a breve si possa addivenire ad accordi tra le parti sociali.

Riportare lo “stato di diritto” nei luoghi di lavoro “cantiere” deve essere obiettivo prioritario delle forze politiche e sociali, anche se il legislatore (governo Berlusconi) si muove in tutt’altra direzione (vedi Art. 85 Legge 276 ovvero abrogazione della Legge 1369, 23 ottobre 1960).

Il legislatore ha voluto propiziare il sogno di buona parte degli imprenditori di avere una fabbrica o un cantiere senza dipendenti propri: l’appalto è lecito anche se di sola manodopera, eliminando la responsabilità solidale tra committente e appaltatori operanti nel ciclo produttivo.