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In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - ottobre 1997 n.5

Numero speciale "Passaggio a nord-ovest"

 

RELAZIONI

Da Venezia a Torino

Pierluigi Sullo


Il territorio nella tradizione sindacale torinese

Fulvio Perini

 

La Fiat "oltre Torino" Torino "oltre la Fiat"

Marco Revelli

 

Persistenza e trasformazione del lavoro eterodiretto

Vanna Lorenzoni

 

Il territorio come struttura spazio temporale dei rapporti sociali: fra produzione e valorizzazione immobiliare

Marvi Maggio

 

COMUNICAZIONI E INTERVENTI

 

Ricomposizione e internazionalizzazione: il passaggio difficile del sindacato

Giorgio Cremaschi

 

Dentro e fuori le mura della fabbrica

Aldo Bonomi

 

La Compagnia Unica del Porto di Genova: un'esperienza comunitaria

Amanzio Pezzolo

 

La Fiat nell'epoca della globalizzazione

Loris Campetti

 

Il modello americano

Bruno Cartosio

 

Dal "maschio adulto garantito" al lavoro di cura in appalto

Carla Quaglino

 

Valorizzare la devianza positiva

Gianni Marchetto

 

La sfida delle donne: imparare da Pechino

Alessandra Mecozzi

 

La densita' del lavoro

Gabrielo Polo

 

Lo sguardo femminile nel conflitto sociale

Maria Grazia Campari

 

Radicalita' e obbiettivi concreti

Alfonso Gianni

 

La formazione: le parole per fare

Alida Novelli

 

La retorica della fine del lavoro

Riccardo Bellofiore

 

I centri sociali tra alternativa al capitalismo e capitalismo alternativo

Luigi Roggero

 

Autonomia dal "governo amico"

Andrea Morniroli

 

******************

 

Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

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Direttore resp.

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Redazione

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Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

 

  Da Venezia a Torino
Sono qui per darvi il benvenuto a nome del mio giornale, il manifesto e perche' sono stato una delle cause (insieme a Mario Agostinelli, Aldo Bonomi, Paolo Cacciari, Marco Revelli e Francesco Indovina) dell'incontro - analogo a questo - che si e' tenuto a Venezia nel novembre scorso, dove discutemmo dei conflitti nel post-fordismo estremista del nord-est. Con questo incontro di Torino le cause, cioe' i promotori di questo genere di lavoro diventano molto numerosi: e infatti potremmo chiedere a Giorgio Cremaschi - che appunto a Venezia propose di vederci qui sul lato opposto del nord d'Italia - di aprire il prossimo appuntamento, che terremo forse a Milano, o forse a Napoli o - come qualcuno ha proposto - a Gallipoli. Percio', mi limitero' a dire in poche parole che senso, che valore noi del manifesto attribuiamo a questi incontri, e anche al loro - chiamiamolo cosi' - stile. Probabilmente tutti voi siete lettori del nostro giornale, percio' avrete potuto notare che nelle ultime settimane gli autori del libro che ha aperto - sia nel senso di "cominciato" che in quello di "allargato" - il dibattito in italiano sulla globalizzazione e il neoliberismo, parlo di Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Marco Revelli, hanno scritto sul manifesto tre ampi articoli, il cui numero di righe era direttamente proporzionale alla difficolta' dei problemi che sollevavano. Ingrao ha scritto all'indomani del congresso del Pds e a proposito non tanto dello scontro tra il segretario della Cgil e quello del Pds, ma sulla cultura di quest'ultimo e - di conseguenza - dell'urgenza che una sinistra nuova (o altra, o prossima, o futura, si scelga l'aggettivo che si vuole) traduca gli alfabeti della modernita' e ricrei con cio' un senso comune in grado di unire e di mettere in movimento, contro l'esclusione e l'oppressione. E quanto Ingrao avesse bene intuito l'urgenza lo capiamo ora, mentre ci domandiamo - un po' smarriti - se avremmo potuto fare qualcosa per evitare che la piu' grande ondata razzista che si ricordi ci sommergesse, e che i nostri - i nostri - governanti si comportassero - ha detto in un'altra occasione Ingrao - "come barbari", e che di conseguenza alcune decine di esseri umani in cerca di soccorso fossero annegati nel Canale di Otranto. Faro', se permettete, solo una piccola digressione, su questo avvenimento. Del resto, fa parte dello stile di questi incontri: ciascuno ci mette se stesso. Per questo gli appelli per Venezia e per questo incontro di Torino erano firmati da persone. Quel che ci metto io, oggi, e che vorrei comunicarvi, e' la sensazione di aver subito l'umiliazione piu' grande dacche' faccio politica. Non mi ero sentito cosi' - come mi sono sentito la sera di Venerdi' Santo - nemmeno il giorno in cui la radio della macchina su cui viaggiavamo diede con la voce di Piero Scaramucci, del Gazzettino Padano, la notizia che a Brescia una bomba era esplosa in Piazza della Loggia, durante una manifestazione sindacale, nel maggio del '74. In fin dei conti, a quell'epoca ci combattevamo tra noi italiani, e i volti dei nostri avversari li vedevo tutti i giorni - o ero convinto di vederli - in quelli delle bande fasciste per le strade, in quelli dei celerini dietro lo scudo di plastica e, la sera, nel telegiornale. Ed era una lotta tra forti, quella che si combatteva in quegli anni, sebbene una delle due parti usasse metodi sleali e feroci. Questa volta non era cosi'. Sono state persone della mia cultura e della mia lingua a rendersi colpevoli di un crimine contro altri, stranieri; ed e' stato un governo che ho sentito in qualche misura simile a me, quando si e' insediato. Soprattutto, quegli 83 esseri umani erano infinitamente piu' deboli. E il solo dubbio di far parte, mio malgrado, dell'infinitamente piu' forte, per di piu' sleale e feroce, e di esserne in qualche modo complice non e' per me tollerabile. Percio' ho anch'io una tremenda fretta di ritrovare un senso comune: uno che, per esempio, semplicemente senta gli albanesi in fuga come nostri eguali e nostri possibili alleati. Ecco, il fatto e' che sono stanco di lutti. Negli ultimi mesi, i due avvenimenti che principalmente mi hanno impegnato sono il fatto che tre miei amici sono stati mandati innocenti all'ergastolo. E poi, l'ho detto, c'e' stata la convulsione razzista che ha reso grottesca la faccia dei giornali e della politica, dell'opinione e del senso comune opposto a quello che Ingrao vorrebbe. Ma - giusto un anno fa - venni a Torino, per un certo periodo, a indagare su un terzo lutto: era la morte per annegamento di quel ragazzo marocchino cui un poliziotto aveva messo le manette, sulla banchina dei Murazzi, poco lontano di qui: speciale e personale anticipazione del Canale di Otranto. Quel poco che so di Torino l'ho imparato in quelle settimane. E parlare con decine di marocchini, senegalesi e loro amici italiani mi ha mostrato di questa citta' una angolatura molto diversa da quella - storica - della citta' degli operai, e certamente opposta a quella - "europea" - dell'attuale sindaco. Dicevo dei tre articoli. Di quello recente di Marco Revelli mi ha colpito l'uso della parola "vuoto". Marco scriveva dei vuoti che nella trama fordista urbana apre la modernita', cioe' il ritirarsi della grande fabbrica. E leggendo mi sono chiesto se la chiave di lettura non stia, banalmente, nel guardare a quei vuoti come al loro opposto, ovvero dei "pieni", cioe' come a qualcosa che cresce prima di tutto distruggendo, e in seguito ripopolando e rimodellando l'esistente, la citta', in forme ai nostri occhi aliene. I Murazzi, per esempio, sono stati un campo di battaglia, in cui si scontravano da una parte la modernita' della citta'-vetrina, arma nella competizione tra metropoli europee per conquistare fette del mercato della comunicazione finanziaria e sociale, con tutto il suo corredo di speculazione immobiliare e di ridislocazione fisica degli esclusi; e, dall'altra parte, la modernita' dei sottomercati illegali o para-legali della forza-lavoro senza diritti e delle droghe. E' chiaro che i Murazzi non avranno mai piu' gli scopi commerciali, di trasporto fluviale, che i suoi costruttori attribuivano loro. Ma in questo vuoto e' cresciuto un "pieno" di relazioni sociali, un groviglio in cui cominciamo solo ora a dipanare i diversi interessi. Non e' affatto impossibile, per continuare nell'esempio, che il flusso finanziario che nasce, ruscello, nel momento in cui un marocchino vende una stecca di hashish a un piccolo borghese torinese, vada a finire nelle stesse banche che finanziano ristrutturazioni immobiliari e ridisegni del piano regolatore. Non e' forse questo il meccanismo che spiega l'"emergenza" di San Salvario? Incidentalmente, la guerra dei Murazzi ha lasciato sul terreno il corpo di un ventiquattrenne di Casablanca, di nome Khalid Moufaguid. Io sono convinto che l'immigrazione, cioe' la relazione tra "noi" e "loro", sia a un tempo una grande metafora e il cuore della modernita' neoliberista. Noi ora indaghiamo sulla segmentazione dei lavori, e sulla flessibilita' che anche il segretario del Pds invoca. Ebbene, i piu' flessibili di tutti sono loro, gli stranieri che nelle piazze della cintura torinese mettono in vendita il loro lavoro giornaliero. Noi ci inquietiamo per la rottura progressivamente piu' grave del patto di inclusione che correntemente chiamiamo Welfare State, senza il quale i diritti politici e d'espressione diventano bucce senza polpa, puri fregi del presidenzialismo che il segretario del Pds promuove. Ebbene, questo patto non e' mai esistito per un milione e oltre di lavoratori e di lavoratrici, e di esclusi, che hanno nomi balcanici o islamici. Noi ci chiediamo - ed e' quel che io ho ricavato principalmente dall'articolo di Rossana Rossanda, scritto in risposta a Revelli e a proposito dell'incontro di oggi - che senso abbia, qui e adesso, la nozione di "blocco sociale", ovvero come sia possibile mettere in relazione i nuclei resistenti di apparato fordista - della cui permanenza Cremaschi ci ha tutti convinto - con le nuove figure sociali altrettanto - sebbene diversamente - sfruttate. Qualche tempo fa ci rendemmo conto - stavo chiacchierando con il mio direttore, Valentino Parlato - che un importante anniversario, il sessantesimo della morte di Antonio Gramsci, cade il 27 aprile, due giorni dopo il 25 e il giorno prima del 28, che e' il compleanno del giornale, una data cui siamo affezionati. Allora, scherzando, dissi a Valentino: perche' non organizziamo un convegno, su Gramsci, intitolandolo non "americanismo e fordismo", ma "europeismo e post-fordismo"? Valentino mi mando' al diavolo, ma a ben pensarci non era una cattiva idea. Quando per esempio si adoperano le parole "progetto" o "politica", ha scritto Rossana, o per lo meno questo ho capito, queste non si devono tradurre con "incentivi all'industria" e con "stato nazionale". Ma un problema - diciamo cosi' - che consiste nell'avere una direzione di marcia da indicare ai soggetti piu' diversi, e che tendenzialmente li unifichi, questo problema e' urgentissimo. E, aggiunge Rossana, ha per lo meno le dimensioni dell'Europa, il nostro nuovo "spazio nazionale", come dimostrano la vicenda Renault, le lotte di resistenza in difesa degli stati sociali - cioe' di una standard di civilizzazione solo europeo - o, di nuovo, le legislazioni sull'immigrazione. E viceversa quando Revelli scrive le parole "territorio" e "socialita'", queste non vanno intese come tentazione di abbandonare, o guardare con indifferenza a quella dimensione del problema, o ancora l'idea che in quei vuoti occorra infilarsi come in "zone liberate", ma come la risposta alla domanda su dove e come si possano trovare i singoli mattoni di un nuovo edificio - europeo, globale - sul cui portone si potra' scrivere "blocco sociale". Almeno, io cosi' capisco quando leggo Revelli. Penso che abbiamo fatto bene, a organizzare questo incontro. Fin da subito ci siamo resi conto - era facile - che il nord-ovest mostra una contraddizione piu' violenta, rispetto al nord-est, non solo tra aree di produzione e modi di lavoro differenti, e che in qualche modo convivono; ma tra percezioni e coscienze differenti, tra lavoratori e comunita' delle diverse aree e zone produttive. Ma proprio per questo si puo' sperare che - sebbene in questa forma peculiare - Torino possa dare una risposta al problema di cui parlavo, e che e' quello del nuovo secolo: come il ciclo capitalista, modificando le vecchie forme della produzione e intrecciandole alle nuove, possa alla fine creare una miscela di soggettivita' desiderose del cambiamento. E', questa, una risposta che Torino, e le sue fabbriche, hanno gia' fornito almeno due volte, in questo secolo. Noi del manifesto, insieme a molti altri compagni, tra i quali particolarmente quelli della Cgil e della Fiom, ci siamo adoperati perche' ci si disponesse a cercarla, quella risposta. Tocca a questo dibattito, farlo.

Il territorio nella tradizione sindacale torinese
Il mio e' un contributo parziale, come punto di vista e come argomenti. Nella tradizione del movimento sindacale, fabbrica e territorio sono sempre state visti come due entita' separate. L'una come conseguente dell'altra, ma separateƒ Venti anni fa, la Cgil si era rifiutata di pubblicare un libro dal titolo "La salute: dalla fabbrica al resto del territorio" sino a quando l'autore non accetto' la proposta della Cgil: "La salute:dalla fabbrica al territorio". E' lo stesso autore che mi suggerisce ancora oggi un gioco: sostituire la parola innovare con la parola indovare, prima di sapere dove si va e' utile sapere dove si sta. Lo spaesamento e' ormai un grande fenomeno di massa. Dal punto di vista ambientale lo spaesamento e' perdita dell'orientamento in uno spazio che non si conosce. Dal punto di vista psicologico, quando la mappa geografica diventa mappa cognitiva, non si resta mai spaesati a lungo, scatta il fenomeno della dissonanza cognitiva, per evitare di cadere nella malattia ti fai una ragione anche delle cose che non capisci. Diventi un uomo giustificato. Conviene tentare di capire. Non sono affatto convinto che le differenze, nella nostra discussione, stiano solo sui fini e sui mezzi. Abbiamo prima di tutto modi diversi di guardare il mondo, che ci conviene rendere espliciti, per quanto ne siamo capaci.

Riflessioni di un sindacalista empirico sul cambiamento produttivo e sociale
Svolgiamo questo convegno qualche giorno dopo la conclusione del processo a Romiti per falso in bilancio. Una persona che, se si osserva il suo curriculum personale ha fatto nella vita tante cose ma e' difficile affermare che se ne intenda, che sa come viene fatta un'automobile o un camion. Una persona che gestisce una holding composta da oltre 1.100 societa'; che lavora sicuramente molto e quindi riesce a dedicare, mediamente in un anno, due ore per societa', 10 minuti al mese, meno di 4 minuti alla settimana. E' anche una persona, se le indiscrezioni sono veritiere, che ha dedicato piu' di un'ora alla decisione se risarcire o meno, prima della conclusione del processo, la famiglia di un lavoratore della ex Grandi Motori colpito da tumore per la esposizione all'amianto. Mi diventa cosi' piu' chiaro cosa possa essere il "capitale astratto", continuando ad avere una certa difficolta' a capire cosa sia invece il "lavoro astratto". Il lavoro e' il prodotto delle donne con l'ausilio degli uomini. Poi, non prima, si esprimono le forme sociali del lavoro. Quella costruzione politica che ha opposto il lavoro astratto al capitale ha fatto nascere nel mondo la madre di tutte le burocrazie. Mentre oggi il terreno del conflitto sta proprio nella resistenza di una parte importante degli esseri umani al crescente dominio del capitale astratto. Nella tradizione della sinistra legata al movimento operaio, il "modo di produzione" e' sempre stato la categoria per capire ed interpretare. Il "processo lavorativo" e' sempre stato considerato indifferente. Le "condizioni di produzione" ignorate. La riproduzione scontata. Il territorio, o meglio la natura nel territorio, e' stata produzione durante la nascita della manifattura: l'uso della energia termica locale ( il termine "padrone del vapore" aveva un preciso significato, niente affatto simbolico) e l'uso della energia animale ( uomini, donne e fanciulli) non avveniva con particolari distinzioni. Solo successivamente con Taylor, prima di Ford, il territorio e' diventato pienamente "condizione di produzione", mentre l'energia fisica e' data dall'energia elettrica e l'uso dell'energia animale si e' concentrato sull'uomo medio: maschio ed in eta' tale da rendere al massimo per un certo numero di anni. Il territorio doveva sostenere la crescita dell'industria con la produzione e la manutenzione della forza lavoro, con i trasporti e con le comunicazioni, con un assetto urbano che seguisse l'espansione della fabbrica. Con Ford il territorio era luogo di consumo e di controllo sociale della forza lavoro. Con Keynes il territorio assumeva un ruolo particolare usato con la domanda pubblica e statale a sostenere la produzione nelle fasi di crisi. Perche' il plusvalore potesse continuare a diventare valore, intervenendo sulla espressione piu' evidente della crisi: quella da mancato realizzo. Concretamente - a Torino - erano le case Fiat, la Malf, gli asili nido Fiat, il dopolavoro...e le schedature ( politiche, ma anche sulla moralita' dei lavoratori...). Piu' in generale, il sostegno della domanda avveniva con la costruzione delle autostrade e la progettazione della citta', dei luoghi di consumo in funzione dell'uso dell'auto. Non siamo ancora all'esaurimento del paradigma del lavoro produttivo fordista eppure credo si possa fare la previsione che questo avverra', perche' sono venuti a mancare, come si dice, gli ambienti di sviluppo che hanno permesso una certa evoluzione della tecnologia, dell'uso degli esseri umani e delle forme sociali di riconoscimento dei rapporti di scambio.

Fabbrica e territorio nella esperienza del movimento operaio
La CGIL di Torino e' stata per lungo tempo un punto di riferimento per la sinistra, sino a diventare un luogo comune. L'intervento sulla organizzazione del lavoro ed i delegati unitari di gruppo omogeneo hanno rappresentato una parte importante di questa esperienza. Quel documento antico, del 1955, sulle condizioni di lavoro nella piu' grande fabbrica italiana, la Fiat Mirafiori, e' un buon contributo per capire come i delegati non siano stati una invenzione, ma soprattutto per misurare le differenze con la situazione attuale. Per fare un esempio, come si e' passati dal servizio prestiti aziendale alla distribuzione quotidiana di depliant di finanziarie ai cancelli dello stabilimento. A Torino, la linea di azione nella prima meta' degli anni '70 fondata sullo slogan ‚dalla fabbrica alla societa' é ha, non a caso, trovato una particolare applicazione attraverso un fase molto breve della esperienza dell'articolazione delle lotte per le riforme sociali; la scuola, la sanita', i trasporti e come salario indiretto sino alle vertenze per destinare 1'1% del salario ai servizi sociali. I Consigli di Zona dei delegati dovevano diventare l'espressione del controllo operaio sul salario indiretto, in sostanza di una parte importante dello stato sociale. Era altrettanto evidente come l'esperienza di zona era concepita e praticata come pura proiezione della azione rivendicativa di fabbrica. Non e' una esperienza ripetibile, eppure la nostra cultura di militanti sindacali torinesi non pare sia cambiata piu' di tanto. Tant'e' vero che non esiste alcun altro progetto in campo. Ora siamo a 22 sabati di lavoro aggiuntivo, alle 2-3 settimane di ferie, alla estensione del turno di notte. Venti anni fa, di questi tempi, eravamo al blocco degli straordinari alla 127, ai picchettaggi ogni sabato assieme ai disoccupati. Alla unificazione delle liste del collocamento tra uomini e donne, alla chiamata pubblica al collocamento. Cosa avevano, come dice molte volte Gianni Marchetto, nella "zucca" quegli uomini nel 1977, e cosa hanno quelli di oggi. E cosa hanno le donne ? E ci sono, e quali sono le forme di riconoscimento collettivo ?

La rottura del gioco
Insomma e' intervenuta solo una soluzione di continuita' soggettiva, nella percezione del gioco, oppure e' anche cambiato il gioco? Il ventesimo secolo era cominciato con l'ottimismo creato da una moneta forte e dal gold standard; termina con il cinismo creato da flussi di incontrollabile finanza internazionale e da montagne di irraggiungibili debiti. Per me la rottura sta qui. La socialita' dell'impresa fordista si va perdendo. La sovranita' dello stato nazionale si offusca. Lo stato sociale tende a diventare asociale. I valori del lavoro e del prodotto tendono ad essere sostituiti dal valore del possesso. Andranno meglio discusse le ragioni di questo rovesciamento, di come il limite all'uso della merce fittizia terra abbia spostato la ristrutturazione sulla merce fittizia lavoro. Del perche' alla globalizzazione dell'economia e della produzione si accompagna, con questi meccanismi della politica e delle economia, un percorso che portera', nei prossimi 25 anni, gli abitanti della terra senza acqua potabile da un miliardo e 400 milioni a 3 miliardi e da 1 miliardo e settecento milioni senza casa a 3 miliardi e 200 milioni, e non tutti nel sud del mondo. Del perche' la produttivita' del lavoro possa raddoppiare e, contemporaneamente, possa invece dimezzarsi la redditivita' dell'impresa. Perche' la difficolta' delle imprese si presenti sempre come crisi da costi e non si presenti piu' come crisi da realizzo, anche quando, per esempio, lo stato decide i finanziamenti per la rottamazione. Come e' avvenuto alla Renault, e vedremo tra un po' quale sara' la situazione alla Fiat. Nella competizione globale, la crisi da costi ci riporta un po' al punto di partenza: al territorio come fattore di produzione. Non piu' solo per le risorse che mette a disposizione, fisiche ed animali, ma per i saperi accumulati, i sistemi cooperativi stabiliti, i ponti con il mondo lanciati. Soprattutto perche' il territorio e' esistenza, e l'esistenza costa. Cade la finzione, tayloriana, del gorilla ammaestrato, il gioco si fa esplicito: bisogna ammaestrare gli uomini. Non solo per il loro sapere ed il loro saper fare, anche per la loro educazione, formazione, salute, vecchiaia, la casa. Tutto entra nella competizione. Non solo il salario monetario. Emergono con maggiore evidenza le contraddizioni. Le lotte sono gia' in corso: la valorizzazione di Torino con l'alta velocita' trova la resistenza della popolazione e di tutti gli amministratori della Val di Susa che subirebbero un effetto opposto. Torino puo' fare l'inceneritore nel luogo meno abitato del suo territorio ma gli abitanti di Grugliasco e di Beinasco che confinano non hanno la stessa opinione. L'affacciarsi di queste questioni richiede un altro modello di esistenza prima che di sviluppo. I comportamenti di resistenza che hanno caratterizzato le lotte sociali di questo periodo hanno sempre avuto sullo sfondo, in qualche caso direttamente, questo problema. Ma il processo di frammentazione sociale e' andato avanti, ogni differenza nelle condizioni di partenza sta diventando distanza sociale ancora piu' grande. Per ora, questi fenomeni li abbiamo letti con gli occhiali che l'esperienza ci ha dato: abbiamo sommato il nuovo al vecchio. Anche nel linguaggio che ci hanno imposto: il terzo settore oltre il mercato e lo Stato; il socialmente utile oltre il produttivo, l'atipico al tipico.

C'e' ancora uno spazio per una pratica sociale del controllo (non piu' solo operaio...?
Della vecchia scuola della sinistra sociale torinese, io sono solo un "replicante". Continuo a pensare, con il programma dei commissari di reparto del 1919, che spetta ai sindacalisti contrattare secondo il mercato del lavoro, mentre il compito degli eletti dai lavoratori e' il controllo della produzione e del processo di produzione. E se Taylor affermava che le funzioni di programmazione non possono stare in officina, ho dei dubbi che oggi esse siano rimaste negli uffici. Dove stanno oggi quelli che pensano e dove stanno quelli che lavorano ? Senza affrontare queste questioni, i diversi diventano in fretta concorrenti. I primi scioperi in Italia li hanno fatti i tessitori biellesi che si battevano contro l'introduzione nelle manifatture degli apprendisti e dei lavoratori forestieri. Le diverse forme e norme che regolano il rapporto di lavoro sono cosi' compenetrate che in ogni azienda i contratti sono sempre piu' di uno, anzi, molti piu' di uno. Senza contare quelli che non stanno dentro le mura di cinta. Ancora una volta non possiamo non studiare la organizzazione del lavoro che comporta questa frammentazione, i sistemi cooperativi che si stabiliscono, i ruoli e le funzioni nei processi lavorativi. Ai delegati ed ai tabelloni di linea ci siamo arrivati studiando. Oggi quale e' la linea ? E chi deve rappresentare chi ? E, soprattutto, abbiamo concretamente dimostrato che il lavoro dequalificato poteva essere portatore cosciente di istanze di cambiamento. Il tabellone di linea era l'espressione della battaglia per una democrazia cognitiva nei luoghi di lavoro. Emerge qui una questione interessante relativa alla formazione ad alla espressione del saper fare. La ristrutturazione sta comportando, in generale uno svilimento delle esperienze e delle competenze professionali assai vasto, nel taylorismo classico toccava essenzialmente gli operai, oggi la Fiat sta consumando senza pensare al futuro anche le competenze professionali medio alte ed alte, nel lavoro di progettazione come in quello piu' direttamente produttivo e delle imprese minori. La possibilita' di difendere la propria professionalita' impone di estenderla dall'a'mbito del sapere tecnico, dalla competenza ristretta, ad un sapere sociale, di ruolo, ad una competenza professionale allargata. Sono ormai troppi i lavoratori che non possono piu' restare senza una rappresentanza che parta dalla loro condizione. Il luogo di questa rappresentanza ben difficilmente e' la fabbrica o la singola impresa. E la forma della aggregazione collettiva ben difficilmente e' esclusivamente quella rivendicativa, quella della organizzazione da combattimento, o di quel che rimane di questa, di carattere militare da cui le organizzazioni del movimento operaio hanno copiato troppo e male. Sempre se, ovviamente, l'obiettivo e' controllare il proprio lavoro ed il suo risultato e stabilire per questa via, in rapporto con altri, la possibilita' di cambiare la propria esistenza per scelta, non per costrizione. Va riaperto, quindi, il discorso sulle forme associative.

I lavori sociali
Nel secolo della crescita industriale gran parte delle attivita' tese a creare e/o migliorare ed accrescere le possibilita' di sviluppo della produzione, le ha controllate ed in molti casi le ha svolte lo Stato. Ora entrano anch'esse direttamente nel mondo delle merci, fondano il loro valore in quanto sono vendute. Perdono cosi' la loro funzione di regolatore sociale, forse proprio la definizione di terzo settore e' l'espressione della ambiguita' di questa esperienza, e' lavoro sottopagato, il piu' delle volte in concorrenza con lavoratori del pubblico impiego e contemporaneamente e' attivita' il cui risultato e' di elevatissimo valore d'uso. Contemporaneamente puo' essere un lavoro di estrema subordinazione - clientelare, piu' che gerarchica oppure un lavoro capace di esprimere capacita' professionali e disponibilita' nelle relazioni. Un approccio difensivo ci nega l'orizzonte positivo. Se poi il movimento operaio volesse portare dentro questa esperienza non solo la categoria del dono, ma anche la mutualita', il dono fondato sulla reciprocita' tra simili e la volonta' e la capacita' di fare delle cose contando sulle proprie forze, si potrebbe guardare ad una societa' migliore senza delegare tutto a ristrette elite's di intelligenti e volenterosi che dopo un po' pretendono gratitudine e nuove sudditanze. E se non e' il terzo settore quello che copre gli spazi lasciati dalla ritirata dello stato sociale, la soluzione va ricercata nella famiglia. In questo caso il lavoro e' gratuito, ancora piu' conveniente. Va incentivato.

Per una critica alle attuali divisioni del lavoro, per un diverso uso del tempo
Se la lotta di fabbrica dell'uomo medio tayloriano si proponeva, nelle sue esperienze migliori, la critica e la rimessa in discussione della divisione del lavoro tra chi pensa e chi lavora e su questo fondava la affermazione di un nuovo modo di produrre ed un nuovo modo di modello di sviluppo, ora le persone concrete, gli uomini e le donne, devono lottare per cambiare il modello di consumo, la gerarchia di valore dei bisogni, e ricostruire cosi' una consapevolezza sul senso dei propri lavori. La critica a questo modo di produrre, mi pare comporti la necessita' di rompere l'attuale divisione tra lavori di produzione e lavori di riproduzione ritenendo che solo cosi' sia possibile rispondere anche alla tradizionale divisione tayloriana del lavoro che invece di tramontare, si e' ormai trasferita alla societa', sino alla politica. Nella nostra di vita di produttori, il tempo che la scandiva era contrassegnato dal momento in cui dovevano essere acquisite le capacita' ad operare per soddisfare dei bisogni, il momento in cui dovevano essere messe in pratica ed il tempo in cui andavi a riposo. Le differenze di genere erano, sempre teoricamente, una variante non particolarmente importante in tale modello. Ora, ritengo, siamo ad un bivio: o la divisione del tempo e la divisione del lavoro vengono rimesse in discussione o troveranno concrete applicazioni nella frantumazione crescente e nella gerarchizzazione crescente dei lavori. Un processo rovesciato alle pari opportunita', ogni differenza segna un destino. Il territorio diventa allora, o il luogo delle scorrerie o il luogo della ricomposizione e della ridistribuzione, o il luogo della sanzione delle differenze o il luogo della solidarieta', o il luogo della alienazione o quello della coscienza del singolo che non puo' non sapere e del controllo sociale. Ritorna qui questa parola astrusa, usata da Dante e poi piu', "indovare". Costruire cioe' gli strumenti per potersi riconoscere sul "dove" si sta, dove il "dove" non e' solo spaziale.

 

Il modello americano
Forse sarebbe valsa la pena di pensare ad un intervento che focalizzasse l'attenzione sul fordismo (o post fordismo o ex fordismo), anche guardando agli Stati Uniti , che sono stati la patria del fordismo e una delle patrie del suo superamento. Ho visto uno dei documenti distribuiti oggi, targato "Fondazione Agnelli". Notando che in questo documento erano scritte alcune cose discutibili, ho chiesto come mai era finito nei materiali: mi hanno spiegato che la ragione essenziale e' contenuta nell'ultimo paragrafo, dove, in sostanza, si dice che la forte accelerazione impressa alla deregolamentazione del mercato del lavoro statunitense ha creato una piccola serie di problemi indicata nelle parti precedenti del testo. Questa affermazione del documento e' poco meno ridicola di quella della Chiesa cattolica, che otto anni fa circa ha riconosciuto che Galileo aveva ragione. Fondazione Agnelli arriva oggi ad ammettere una realta' esistente da almeno 15 anni, cosa che chi si occupa di Stati Uniti, di mondo del lavoro e di rapporti sociali sa perfettamente. La deregolamentazione del mercato del lavoro negli Stati Uniti e' iniziata verso la meta' degli anni '70: dopo la crisi petrolifera, quella politico- istituzionale del Watergate, e dopo l'inizio della penetrazione delle automobili giapponesi, che nell'arco di 10 anni sono passate da una quota di mercato del 3% al 20% per poi arrivare al 23%. Quindi questa dinamica e' iniziata molti anni fa e, per quanto riguarda il mercato del lavoro, piu' precisamente quando Reagan, come primo atto da Presidente, distrusse il sindacato dei controllori di volo che furono imprigionati e condannati per aver scioperato. E' stato un segnale: le societa' di desindacalizzazione che avevano cominciato a crescere come funghi nei cinque, sei anni precedenti si sono moltiplicate come i replicanti di molti films dell'orrore e, tra il '75 e il '90 l'opera di desindacalizzazione nel mercato del lavoro statunitense e' avvenuta con una brutalita' eccezionale. E non perche' lo Stato non interveniva, come dicono alla Fondazione Agnelli, ma perche' lo Stato interveniva esattamente nella direzione della desindacalizzazione, cioe' della distruzione dei sindacati, passati dal 30% della rappresentanza all'interno del mondo industriale all'attuale poco meno del 10%. La distruzione della forza organizzata del sindacato e' stata una precondizione assoluta di tutti gli altri processi che sono poi stati (in parte erano contemporanei) la ristrutturazione, l'introduzione di tecnologia, la delocalizzazione delle aziende verso le parti del Sud non sindacalizzato oppure verso i paesi piu' poveri del mondo. Che negli Stati Uniti non si costruisca piu' un televisore all'interno dei confini e' vero da quasi 20 anni. Lo dico per pura igiene mentale: leggete pure questo documento, ma non credeteci. ‚Il tasso di disoccupazione e' a livelli cosi' bassi da indurre molti a ritenere virtualmente raggiunta una situazione di pieno impiegoé (recita il documento della Fondazione Agnelli). Bugie: il tasso ufficiale di disoccupazione e' del 5,2%, il tasso reale oggi e' almeno del 12% con tutte le possibili, diverse distribuzioni a seconda dei gruppi sociali, delle fasce di eta', delle caratteristiche etniche e culturali. Naturalmente poi parlano dell'enorme numero di posti di lavoro che sono stati creati negli ultimi dieci anni: 15 milioni. Certo, pero' quanti sono stati i posti distrutti? Almeno 7/8 milioni. Quali sono le caratteristiche della stragrande maggioranza dei nuovi posti di lavoro creati? Sono posti di lavoro nei quali prima di tutto non si guadagna nemmeno la meta' di quello che si guadagnava nei vecchi posti di lavoro; sono in settori del terziario povero (e non di quello avanzato); sono lavori part-time, non coperti dalla sindacalizzazione, e sono lavori saltuari. Questo vuol dire che una buona parte, circa la meta', di questi posti di lavoro non garantiscono ai loro detentori il superamento del livello di poverta'. Quindi quando questa gente racconta bugie sulla grande quantita' di posti di lavoro creati mente sapendo di mentire. A proposito della micro imprenditorialita' che sarebbe nata all'interno di questi nuovi processi di trasformazione del mercato del lavoro e dell'economia statunitense: negli anni '70 quando in Italia si parlava del "piccolo e' bello", negli Stati Uniti c'era una vera e propria campagna a favore di questo slogan e in molti casi si prendeva a modello proprio il nostro Paese. Sono effettivamente nate molte micro imprese, ma la mortalita' di queste imprese negli ultimi dieci anni e' tra il 50% e il 70%. Riferendosi ai salari la Fondazione Agnelli sostiene che ‚negli anni '90 almeno il 70% dei salariati ha visto il valore reale delle proprie retribuzioni scendere o rimanere stagnanteé. Non e' vero: il 100% dei salari di oggi e' inferiore ai livelli salariali del 1973. Naturalmente non dicono una parola relativamente all'incredibile polarizzazione sociale, che e' stata uno dei tratti piu' caratteristici di questa vittoria neoliberista che non e' soltanto ortodossia economica, e' oggi ideologia dominante negli Stati Uniti. Infatti il 20% dei piu' ricchi negli Stati Uniti e' padrone dell'84% della ricchezza famigliare nazionale. Questo significa che al restante 80% rimane da spartire il 16% della ricchezza nazionale. Subito dopo nel documento si fa riferimento alla riduzione delle dimensioni delle imprese, e si sostiene che questo ha trovato ampio spazio sugli organi di informazione ‚colpendo in senso negativo l'immaginario collettivo americanoé. L'immaginario collettivo non c'entra nulla: gli americani si lamentano di quello che non hanno piu' nelle loro tasche. Trattano del downsizing (di cui si e' occupato seriamente il Times lo scorso anno) sostenendo che, in questi ultimi anni, riguarda essenzialmente i cosiddetti colletti bianchi. E' vero, ma riguarda essenzialmente i colletti bianchi perche' il processo di piazza pulita dei colletti blu e' avvenuto tra la fine degli anni '70 e la meta' degli anni '80, quando si e' operata una espulsione dalle fabbriche estremamente brutale. E quando dico brutale voglio dire di una violenza da guerra. I dati di Torino sono per molti versi confortanti, ma se qualcuno andasse nella Torino degli Stati Uniti, Detroit, avrebbe la possibilita' di capire molto rapidamente perche' quella citta' e' passata da 1 milione e 600 mila abitanti a 940 mila: perche' le fabbriche di automobili che erano una quarantina negli anni '70 oggi sono sette e interi quartieri operai sono stati letteralmente rasi al suolo. Perche' dico questo, oltre al fatto di fornire qualche elemento che permetta una lettura in controluce di queste bugie? Perche' nel ragionare sul passaggio tra fordismo e post fordismo dovremmo abituarci a tenere molto conto (e non lo facciamo adeguatamente) di quello che e' successo in realta' dove questi processi sono cominciati molto prima che da noi e, prima che da noi, stanno arrivando alla conclusione. Il sindacato industriale negli Stati Uniti, ridotto al 20% (vorrei che le cose che ho detto all'inizio non fossero interpretate come una difesa del sindacato americano, ma un sindacato e' meglio che nessun sindacato) si e' finalmente accorto di dover cambiare strategia. Questo e' un altro dato interessante. Il rapporto tra fabbrica e territorio (di cui si e' parlato oggi) e' l'ultima e la piu' interessante scoperta del sindacato statunitense, che essendo stato sempre molto chiuso su se stesso non si e' mai posto il problema dell'organizzazione, dell'articolazione di questo tipo di rapporto, ma che oggi, arrivato al minimo dei consensi sta iniziando a pensarci. L'analisi di quel tipo di realta' dovrebbe servirci per avere il senso delle direzioni possibili di alcune delle politiche che da tempo hanno iniziato a prendere piede anche in Italia.