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IL RUOLO DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI

In anni recenti e meno recenti la maggior parte delle grandi e medie imprese italiane ha fatto ricorso a mano bassa agli ammortizzatori sociali in più occasioni. Vere o presunte operazioni di riorganizzazione aziendale, di ristrutturazione o di puro e semplice ridimensionamento degli organici sono stati resi possibili grazie al fatto che i costi sono stati accollati agli enti previdenziali. Mobilità lunga o corta, cassa integrazione e, soprattutto, prepensionamenti sono stati strumenti attraverso i quali le imprese hanno potuto spesso risolvere i propri problemi di competitività e di aggiornamento produttivo.

Tutto questo in barba alle critiche che le organizzazioni imprenditoriali, Confindustria in prima fila, da sempre rivolgono alle “logiche assistenziali” di questo o di quel Governo. Tutto questo mentre oggi l’Avvocato Agnelli invoca libertà di licenziamento ed abolizione delle pensioni di anzianità dopo che la Fiat, grazie al periodico ricatto del ricorso a massicci licenziamenti, ha per anni dilapidato le casse INPS per sostenere le proprie scelte industriali.

Oggi, in un momento in cui il deficit degli enti previdenziali occupa un posto ricorrente su tutti i media, diviene improponibile, anche per chi non ha senso di vergogna, un ulteriore e massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali. Meglio, molto meglio, poter disporre della libertà di licenziare e, al tempo stesso, evitare che pensionamenti anticipati incidano negativamente sui bilanci previdenziali. Quindi per chi ha la sventura di entrare nelle liste di proscrizione delle imprese non resta che la disoccupazione ed una lunga attesa per poter accedere ad un diritto per il quale hanno versato contributi per decenni.

Ma tornando al ruolo degli ammortizzatori sociali vale la pena di precisare che la loro accettazione da parte sindacale, accettazione in alcuni casi obbligata, ha permesso di salvare, di sanare situazioni dolorose per lavoratori che con la mobilità o il prepensionamento sono stati aiutati a raggiungere e salvaguardare il proprio diritto ad un reddito altrimenti negato.

Non è possibile però nascondere il fatto che una scelta difensiva di questo tipo abbia prodotto scompensi ed ingiustizie pesantissime nel tessuto sociale. A titolo semplificativo possiamo citare situazioni di aziende dove nuclei di lavoratori minacciati di licenziamento hanno potuto accedere alla pensione con 32 o 33 anni di contributi. Al tempo stesso colleghi di quei lavoratori, che hanno conservato il loro impiego, si trovano di fronte a loro la prospettiva di dovere raggiungere i 37 o 40 anni di contributi. Per loro una situazione di palese ingiustizia e discriminazione che rischia di trasformarsi in dramma se magari un anno dopo si trovano ad essere colpiti, singolarmente e non più come elementi di un nucleo consistente di lavoratori, da un nuovo taglio di risorse da parte dell’azienda. Per questi individui, lasciati soli di fronte all’azienda, non esiste possibilità di accesso ad alcun ammortizzatore sociale.

Quindi si verrà, si sono già venute a creare situazioni in cui un lavoratore più anziano e con più contributi dei colleghi prepensionati, rimanga senza lavoro e senza pensione. La mancanza di un reddito impedisce a questo lavoratore di poter completare il monte anni contributivo richiesto per raggiungere il traguardo della pensione e deve quindi attendere il compimento dei 65 anni di età per maturare tale diritto. Per un 50enne questa attesa può essere lunga 15 anni, 15 anni da passare senza alcun reddito

 

 

per ulteriori informazioni: atdalit@yahoo.it