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Dalle riforme pensionistiche all'organizzazione del lavoro in Italia e in Europa. E non solo...

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CASISTICHE TIPO

SISTEMA PREVIDENZIALE INCONGRUO

E CONSEGUENZA DI RIFORME AFFRETTATE

  

CASO TIPO 1

 

 

Una signora lavora come addetta alle pulizie per una ditta specializzata. È avanti con gli anni e lo stato di salute non è dei migliori. Per ottenere la pensione per inabilità, la legge prevede e prevedeva una percentuale di invalidità enorme senza considerazione per il fatto che 25% di invalidità di un 50enne possono avere un potere debilitante superiore a quello di una invalidità del 50% in un 25enne. Per inabilità si intende inoltre una qualche specifica patologia tabellare ma non si considera - se non a posteriori, a danno moltiplicato -  uno stato di usura complessivo commisurato alle capacità fisiche oggettive del singolo.

La nostra signora ha difficoltà a lavorare e il datore di lavoro non è più soddisfatto. Cosa fare? Senza la legge che le venga incontro, la nostra signora potrà andare in pensione solo raggiunti i requisiti standard. Le mancano un paio d’anni per raggiungere l’età che possa darle diritto ad una misera pensione molto vicina al minimo. Concorda con il datore di lavoro di lasciare volontariamente l’impiego in cambio di una buonuscita pari ad un annetto di stipendio. Tirerà la cinghia sino alla pensione ma, pazienza, ameno ci arriverà con un  minimo di salute residua.

Arriva la riforma che inopinatamente alza l’età per il pensionamento, indipendentemente da stato lavorativo, età, contributi o qualsiasi altro correttivo pro rata. La nostra signora si è trovata alla fame, senza stipendio e senza pensione, ed ora affronta il futuro con la misera pensione ora ottenuta, cinque anni dopo rispetto alle aspettative di una vita, e senza più un soldo di risparmi.

 

CASO TIPO 2 

 

Un signore si trova costretto ad accettare un lavoro di “collaborazione coordinata e continuativa”. È ancora giovane per la pensione e non vuole piangersi addosso se la sua precedente ditta ha chiuso e lui viene considerato troppo vecchio per essere assunto da altri.

La legge prevedeva una ritenuta fiscale sulle “parcelle” ma non una ritenuta pensionistica. Potrebbe fare i cosiddetti versamenti volontari ma il costo, i problemi di detraibilità fiscale e l’effetto negativo che questi versamenti avrebbero avuto sulla sua pensione lo scoraggiano. Infatti, a detta di tutti gli esperti sindacali e non, quei versamenti sarebbero ingiustificatamente onerosi e controproducenti anche in considerazione del fatto che sarebbe potuto andare in pensione a 60 anni.

Valutati approfonditamente i pro e i contro, questo signore decide di non fare i versamenti e resta così un po’ scarso di contributi per una età ben dentro i 50 e che comincia ad approssimare i 60 anni.

Arrivano le riforme pensionistiche che spostano di ben 5 anni l’età per la pensione di vecchiaia: ora ne occorrono 65. Più o meno contemporaneamente vengono corrette tre anomalie: il massimale per i volontari che penalizzava chi guadagnava di più; l’autorizzazione ai versamenti per i “collaboratori” che non potevano maturare le anzianità necessarie alla pensione; il sistema di calcolo delle pensioni che penalizzava chi avesse avuto gli ultimi anni retribuiti meno dei precedenti.

È così che il nostro signore si è trovato imposto tutto il peggio delle riforme (5 anni di aggravio per la pensione di vecchiaia senza che si tenesse conto dell’età e della prossimità raggiunte), assieme al peggio delle vecchie regole (non gli è stato consentito di agire retroattivamente su scelte a suo tempo condizionate da motivi oggi ufficialmente riconosciuti iniqui e addirittura incostituzionali).

Contemporaneamente lo Stato si tende conto del problema della mancata coperture per i cosiddetti collaboratori e la necessaria legge viene approvata. Non è però prevista la retroattività. Lo Stato si rende altresì conto che non si può ridurre il valore della pensione già maturata da qualcuno che è successivamente costretto ad accettare un lavoro peggio retribuito e/o fare ulteriori versamenti contributivi di importo unitario inferiore ai precedenti. Viene adeguato il sistema per il calcolo delle pensioni ma viene negato il diritto alla retroattività, per chi aveva fatto delle scelte basandosi sul precedente incostituzionale sistema di calcolo.

 

CASO TIPO 3

 

Sfortuna, scarsa scolarizzazione, mancata opportunità di apprendere un vero mestiere richiesto dal mercato o altre motivazioni hanno fatto sì che un molto volenteroso padre di famiglia maturasse circa 35 anni di contribuzioni al compimento dei 65 anni, cioè dell’età per la pensione di vecchiaia. Per lui i lavori sono sempre stati di breve durata e intervallati da periodi di disoccupazione.

Nonostante avesse già una certa età e senza capacitarsene, è stato penalizzato dalle riforme pensionistiche che, di 2½ in 2½ , hanno portato la sua età per il pensionamento da 60 a 65.

Qualcuno ha cercato di convincerlo, non del tutto infondatamente, che per lui non tutti i mali venivano per nuocere: meglio maturare una trentacinquina di anni di contributi per il calcolo della pensione futura che non la trentina che avrebbe avuto a 60 anni.

Ora è a riposo da qualche mese e si “gode” la pensioncina.

Ci si rende però conto che questa persona non è stata trattata equamente. Prima dei 18 anni ha lavorato essenzialmente senza contributi, ma dai 19 in poi ha il 99,9% in regola. Ha dunque versato i suoi 35 anni di contributi in quasi 46 anni di calendario senza percepire una lira in più di chi ha versato 35 anni di contributi in 35 anni di calendario. Ha perso tre volte:

1)      Il suo capitale non è stato remunerato (e lo stesso, in parte, avverrebbe con il sistema contributivo).

2)      La sua pensione di vecchiaia calcolata l’80% di 35/40esimi delle ultime retribuzioni vale meno della pensione di anzianità calcolata ad un 57enne sulla base del 70% di 35/35esimi delle ultime retribuzioni.

3)      La sua aspettativa di vita sarà di soli 13 anni contro 21 anni (+61%!) del pensionato di anzianità e dunque l’esborso per l’Inps sarà infinitamente minore.

 

In buona sostanza, chi ha avuto il beneficio di 35 anni ininterrotti di lavoro e reddito, viene trattato meglio di chi ha penato una vita e ha cominciato prima a versare gli stessi contributi allo Stato.

 

CASO TIPO 4

 

Di questa signora conosciamo solo alcuni particolari. Lavorava in proprio a domicilio facendo cucito, piccoli rammendi e ricami. Lavorando per terzi aveva maturato meno di quanto le occorreva per ottenere la pensione e quindi era rassegnata a prendere la minima al compimento dei 55 anni.

Viveva in due stanzette con il wc sul terrazzo e si amministrava con scrupolo assoluto, di quando in quando aiutata da un magrissimo gruzzolo.

Alla soglia dei 55 anni insorge un problema, per cui è costretta a spendere parte del gruzzolo anche confidando nella pensione prossima ventura, e poi arrivano spese condominiali improvvise e improcrastinabili.

Contemporaneamente le alzano l’età per la pensione.

È disperata, potrebbe vendere la casa ma il comune non vuole assegnargliene una in quanto “proprietaria di immobile” (evidentemente, i salvagente si gettano solo a chi è già sott’acqua).

Per un niente, finisce per perdere la casa e la possibilità di lavorare mentre attende e la pensione e che il comune, finalmente, le dia un alloggio.

Ora vive con dei debiti, la pensione minima finalmente arrivata ma sequestrata dalla casa di riposo dove è stata alloggiata e costa alla collettività decine di volte quei 5 anni di misera pensione che avrebbero fatto la differenza anche in termini di dignità e autostima e che le sono stati sottratti ad una età in cui è pressoché impossibile ricalibrare la propria vita.

 

CASO TIPO 5 

 

Un impiegato scopre sulla sua pelle che, dopo una certa età, per gli impiegati non esiste possibilità di trovare un lavoro né fisso né precario. Un lavoro precario, in apparente paradosso, è anche più improbabile.

Non esiste una indennità di disoccupazione degna del nome e solo coloro che si sono trovati dentro particolari aziende sotto gli occhi di tutti e nel collegio del politico giusto, sono stati salvati da questo tipo di situazione grazie a mobilità e scivoli magari iper generosi e assunti a sistema.

Nel frattempo aveva chiesto e ottenuto di proseguire volontariamente i contributi per la pensione ma, dopo consultazione con gli esperti previdenziali, non effettua i versamenti. Non ha molti soldi e quanto richiesto è eccessivo, forse anche perché i contributi servono a coprire casi di persone come lui che magari non riescono a raggiungere i contributi per la pensione minima: insomma, un cane che si morde la coda. Non avendo reddito non potrebbe neanche detrarre i contributi, finendo per pagare più dei più privilegiati di lui!

Ma l’elemento determinante la scelta finale è il fatto che pagando oramai accumulerebbe sufficienti contributi per la pensione di anzianità pressappoco alla stessa età della pensione di vecchiaia: 60 anni. Decide di non pagare ma, a 4 anni dalla pensione, e dopo anni di disoccupazione, la prima riforma porta l’età di pensionamento indiscriminatamente a 62½. Il ragionamento sull’opportunità di effettuare i versamenti si ripropone esattamente come prima: andrebbe comunque in pensione con 62½ e rinuncia anche perché i versamenti retroattivi sono vietati.

E così il poveraccio si ritrova alla seconda riforma che gli aggiunge altri 2½ anni, sadicamente obbligato ad una rincorsa impossibile. È appena andato in pensione quest’anno, otto anni dopo la prima riforma!

Nonostante la maggiore maturazione del capitale versato, la sua pensione sarà di importo reale inferiore a quello che gli sarebbe spettata cinque anni or sono! 

 

per ulteriori informazioni: atdalit@yahoo.it

 

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